Benvenuti sul pianeta-mercato Italia. È l'era post elezioni del 2008. La stampa estera chiama questa terra “Berlusconia”. È la versione nostrana, stile “baraccone rutilante”, del concetto che mercato e consumo sono i fattori intersecati che governano non solo l'economia, ma le relazioni umane e il senso della vita (come direbbero i Monty Python). In questo scenario rifulgono donne e sessualità quali beni disponibili, a chi ha i soldi o i muscoli bastanti per prendersi entrambe. Con gli uni o gli altri si può accedere, infatti, a qualsiasi cosa si voglia consumare, nella logica che qualsiasi cosa al mondo può essere commercializzata. Le donne sono ri/diventate “beni commerciabili” abbastanza rapidamente anche laddove avevano indotto mutamenti sociali e conquistato qualche legge o garanzia.
Buttate l'occhio sull'industria dell'intrattenimento, alberghi, viaggi, film, e ditemi cosa viene pubblicizzato (sesso), con cosa (segmenti di corpi femminili), e per chi (mah!).
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Non ci è voluto molto. È bastato scivolare nella subordinazione indotta dal contrattacco per arrivare a sostenere, dicendosi “di sinistra”, che i diritti umani sono quella cosa che Bush porta in giro assieme alle sue bombe. Se è così, a che pro continuare ad agitarsi per far capire che i diritti delle donne sono diritti umani? Sempre orrenda roba imperialista è. E se la democrazia è quella cosa che fuoriesce dall'obice di un carroarmato statunitense è ovviamente indegno per noi averci a che fare (a meno che non nasca dalla canna di un fucile rivoluzionario, allora se ne può parlare).
Abbiamo poi avuto un Ministro molto di sinistra preoccupato che operai e precari venissero discriminati anche nell'offerta sessuale fornita dalla prostituzione. Era l'epoca dello scandalo che colpì un triste deputato dell'allora opposizione, inchiodato a Roma dalle sue pesanti responsabilità e quindi privo del coniugale conforto della moglie legittima, e costretto a tirar coca assieme a due sex worker in albergo. Non so cosa mi trattenne dal chiedere all'onorevole compagno Ministro se la prossima mossa sarebbe stata quella di offrire “buoni-coito” ai percipienti scarso reddito o se, prendendo i proverbiali due piccioni con una fava, si sarebbero messe le precarie sul marciapiede: così intanto portate a casa un soldino, care, e i vostri compagni non soffrono per l'ennesimo affronto di classe.
Un altro scandalo coinvolse un tizio con problemi di orientamento, orrendamente mistificato dalla stampa cinica e bara solo perché si era fermato a chiedere informazioni sul traffico ad un transessuale. Purtroppo era il portavoce del capo del governo di centro-sinistra.
Intanto io cincischiavo le 95 pagine dell'opuscolo “Per il bene dell'Italia”, e cioè del programma di governo su cui ero stata chiamata a votare (e che nel frattempo era diventato anche “Per il male dell'Afghanistan”), soffermandomi spesso sulle sette righe e mezzo della ventiquattresima, titolate “Unioni civili”. Certo, la graziata con cilicio di serie faceva la sua parte, il martire di Ceppaloni anche, ma fu un senatore molto di sinistra a dirci di piantarla e che bastava andare dal notaio.
E infine, sotto gli occhi di un governatore della “sinistra di governo”, Napoli annegò nell'immondizia: ma il politico in carica non diede le dimissioni, non ammise alcuna responsabilità e restò fieramente incollato alla propria poltrona. Se la differenza tra centro-destra e centro-sinistra sta nelle parole che si usano per giustificare azioni simili quando non identiche, andare a votare può apparire un'inutile fatica quando non una presa per i fondelli.
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Ho letto parecchie analisi, nei giorni dopo la clamorosa, inequivocabile sconfitta elettorale della sinistra. Gran parte sono puro delirio. È stato sorprendente notare come gli stessi che erano venuti nella mia città in campagna elettorale a dirsi assolutamente sicuri della bontà della loro proposta, oggi dicono di aver saputo a priori che era tutto sbagliato.
Mentivano allora, mentono adesso, mentono d'abitudine anche quando dormono?
E mentre alcuni residuati degli anni '70 arringavano a vuoto, su barricate spoglie, la “classe lavoratrice” incitandola alla presa del Palazzo d'Inverno, altri residuati cucinavano la melassa dell'imprenditore e dell'operaio che mano nella mano vanno verso un radioso futuro. Gli italiani sono spesso dei farabutti, almeno quanto i politici che eleggono, ma prenderli per fessi totali è un errore serio: per quegli imprenditori ci lavorano, sanno chi sono. In India, a Ghaziabad e Grater Noida, le donne lavorano a cottimo cucendo bottoni su magliette per un imprenditore italiano notoriamente “progressista”, che si gloria della pubblicità fornitagli da un altrettanto noto fotografo “molto attento al sociale”. Naturalmente le lavoratrici hanno paghe talmente basse e garanzie (sindacali, di sicurezza, ecc.) talmente scarse che a cucire bottoni ci si mettono anche le bambine e le nonne, altrimenti la famiglia non mangia. L'orario di lavoro va ben oltre le otto ore, e se le donne non raggiungono i termini di produttività fissati dalla benevola e progressista impresa vengono ributtate in strada.
Probabilmente sono velleitaria e vetero-qualcosa, ma dar la mano a questo imprenditore mi ripugna un pochino.
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Ho pure letto, ma questo non mi ha sorpresa per niente, che la colpa è delle donne. È un bel po' che gli uomini me lo dicono, e ho paura di non aver imparato niente.
Via, sapete di cosa parlo. Certo che li avete sentiti, quando il tono nel rivolgersi ad una donna, parlando ad esempio del lavoro di lei, diventa quello che userebbero con un bimbo di cinque anni chiedendogli come va all'asilo. È tutta la vita che lotto con questa faccenda: chiedo ad un uomo il prezzo delle patate, e quello mi risponde con la tabella oraria dei treni. Sentite: ho quindici anni, sono rappresentante di classe e vado dal preside a dirgli che le scale rischiano di crollarci addosso (difatti ci facevano uscire dal retro) e che i colombi nidificano nelle classi, e lui mi chiede perché sono così amareggiata alla mia età. Adesso di anni ne ho quarantanove: pongo un problema politico agli uomini con cui mi capita di lavorare, e nove volte su dieci loro spostano il discorso su di me (che ho capito male, che non ho capito una mazza, che se c'ero dormivo e se dormivo sognavo di non esserci: e com'è che sono così amareggiata, tra l'altro?).
Credo che ogni donna sappia di che sto parlando.
È il presupposto della “non affidabilità” o della “non credibilità” del sesso femminile che rende più difficili le cose alle donne in ogni campo, che impedisce loro di parlare o di essere ascoltate quando osano farlo, che le addestra a dubitare di se stesse e a limitarsi di fronte ad ogni manifestazione di arroganza maschile.
Purtroppo la credibilità è un attrezzo-base per la sopravvivenza. Nel Belpaese, sono statistiche ufficiali, ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo che a qualche stadio della loro relazione le aveva detto di amarla. Molto spesso queste donne avevano capito quale sarebbe stata la loro fine, e lo hanno detto, ma non sono state credute. Parenti e amici, poliziotti e giudici, hanno spiegato loro che esageravano, che erano isteriche, ed hanno consigliato psicologi e pillole: in sintesi, lei aveva chiesto il prezzo delle patate, e le hanno risposto con la tabella oraria dei treni. Finché non si tratta della tua permanenza in vita è solo il dover gestire una frustrazione perenne, ma quando ci crepi mi sembra un po' più grave.
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Quindi gli uomini politici, nello stesso tono, ci hanno spiegato in fase di propaganda cosa le donne volevano e cosa le donne dovevano fare: cucinare per i deputati, stare a casa, combinare un buon matrimonio sono stati i picchi della destra, e nel frattempo la sinistra si affannava a rassicurarci di avere “la famiglia” come priorità. L'attuale vincitore delle elezioni aveva in passato gratificato di un bonus monetario la maternità, il suo “principale sfidante” l'aveva più che raddoppiato nelle promesse elettorali. Perché l'unico valore in gioco si chiama “soldi”. Ma una tantum né mille euro né 2.500 ti aiutano a crescere un figlio per i prossimi vent'anni (se va bene) senza certezza di casa e lavoro, e senza condivisione da parte maschile delle responsabilità domestiche.
E avere una famiglia è certamente una parte importante dei progetti per il futuro che un donna può avere, ma c'è sempre anche altro. Magari abbiamo un titolo di studio, dei desideri e delle capacità professionali, delle abilità artistiche, delle priorità politiche sul territorio in cui viviamo. Magari qualcuna di noi è anche riuscita a dirlo. Ma tutti gli uomini in corsa per il Parlamento hanno parlato delle donne che volevano vedere, delle donne che immaginavano, e non delle donne reali a cui chiedevano il voto. E nessuno di loro si è ancora scusato per avere spiegato a vanvera cose che non sapeva. Stando alle attuali tabelle di longevità italiane potrei avere ancora una quarantina d'anni di fronte a me.
Aspetto. Però non trattengo il fiato nell'attesa.
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 23 aprile 2008)