L’impressione – qualcosa di più di un’impressione – è che si stia pericolosamente sottovalutando, per cecità o per interesse, quanto sta accadendo in Tibet, quanto potrebbe accadere. Giorni fa Lorenzo Cremonesi per Il Corriere della Sera ha intervistato Tsewang Rigzin (foto), da quattro mesi presidente del Congresso giovanile tibetano. Rigzin ha detto cose gravi, che dovrebbero indurre a riflessione, essere materia per un dibattito di cui, purtroppo, non si scorge traccia.
Non subito. Magari tra qualche anno, dice Rigzin, però potrebbe giungere il momento per il movimento di resistenza tibetano di adottare la via dei kamikaze già in voga nel mondo musulmano. Attentati suicidi a Lhasa: «Uno sviluppo più che possibile…Tutto è aperto. È un fatto che la nonviolenza predicata dal Dalai Lama non ci porta da nessuna parte. Anzi, ha permesso ai cinesi di espellerci dalla nostra patria e di continuare nel genocidio delle nostre tradizioni culturali e religiose. Dunque potrebbe presto arrivare l’ora di cambiare strategie di lotta».
Affermazioni disperate e disperanti. Rigzin si sente «su un binario morto. Di noi si parla solo in modo episodico, limitato. Siamo dimenticati dalla comunità internazionale. Tante belle parole poi il nulla. Guardiamo invece come si fanno sentire i palestinesi e gli attivisti in Irak grazie agli attentati suicidi. L’attenzione dei media mondiali è tutta per loro. Noi siamo in una situazione disperata. Se la nonviolenza fosse vincente significherebbe che anche la nostra causa lo è. Invece stiamo perdendo».
Quasi contemporaneamente, alcuni monaci tibetani si toglievano la vita; e la loro protesta estrema non sembra aver scosso più di tanto la comunità internazionale: dove sono le migliaia di amanti della pace, quelli del “No alla guerra senza se e senza ma”, quelli che hanno affisso alle loro finestre le bandiere arcobaleno… dove sono, ora? Silenti e inerti perché non c’è da mobilitarsi contro gli yankees? Per quanto sia meschino, così pare. Se non c’è da mobilitarsi contro Stati Uniti (o Israele), allora non si fiata. Cosicché – questa è la morale che se ne può ricavare – chi è oppresso e perseguitato deve augurarsi che ad opprimerlo e perseguitarlo siano gli Stati Uniti o Israele: solo così la “causa” sarò oggetto di solidarietà e diventerà visibile.
La questione sollevata da Rigzin tuttavia riguarda anche noi che non siamo “pacifisti”, ma nonviolenti. Rigzin in buona sintesi ci dice che scandire “Siamo tutti tibetani” non basta; ci chiede – e ci viene chiesto in tempi rapidi – di lavorare per provocare radicali cambiamenti di politiche internazionali per scongiurare conflitti e tensioni sempre più gravi e tragici. È quanto ci chiede il Dalai Lama stesso; e ci chiedono i perseguitati e gli oppressi in lotta nonviolenta, che per questo non godono dell’attenzione dei governi “democratici”, dei giornali, delle TV, dei “pacifisti”; e che, come Rigzin, possono avere la tentazione della lotta armata e terroristica: «Guardiamo come si fanno sentire i palestinesi e gli attivisti in Irak grazie agli attentati suicidi. L’attenzione dei media mondiali è tutta per loro...».
C’è una consapevolezza che forse noi stessi dobbiamo ulteriormente acquisire. Da anni i radicali lavorano con il Dalai Lama e con i tibetani, con loro, grazie a loro, si arricchisce, con la richiesta di una genuina autonomia per il Tibet, i fronti aperti del Primo Grande Satyagraha Mondiale per la Pace, la Libertà e la Giustizia. Sono state fatte, e si stanno facendo, cose importanti. Marco Pannella ha più volte incontrato il Dalai Lama; e nel marzo scorso una delegazione del Partito Radicale Transnazionale guidata da Sergio D’Elia, Matteo Mecacci e Marco Perduca, era a fianco del governo tibetano in esilio in India, alle celebrazioni dell’anniversario della rivolta del 1959; ed è stata ufficialmente inaugurata una marcia di monaci che intende raggiungere il Tibet prima delle Olimpiadi.
Oggi come ieri. Cinque anni fa Pannella e i radicali furono lasciati soli: la proposta di esilio per Saddam, e la creazione di un’amministrazione fiduciaria dell’ONU in Irak, venne irrisa come visionaria, utopica; e boicottata. All’opinione pubblica mondiale si impedì di conoscerla e di poterla valutare. Con i radicali vennero censurati anche 303 parlamentari del centro-destra, 193 del centro-sinistra, 15 membri del governo, 46 parlamentari europei, e migliaia di cittadini di tutto il mondo che avevano aderito alla proposta radicale. Il governo Berlusconi rinunciò a fare sua l’iniziativa, non ne investì l’Unione Europea e l’ONU.
Era davvero una proposta visionaria e utopica? Il 25 settembre 2007, il quotidiano spagnolo El Pais ha pubblicato stralci di una conversazione tra il presidente americano George W. Bush e l’allora primo ministro spagnolo Aznar; quella conversazione è la conferma che l’appello di Pannella per “Irak libero” era una proposta alternativa seria e praticabile all’attacco militare e alle inconcludenti iniziative “pacifiste”, e che venne discussa ai massimi livelli mondiali. Senza presunzione: l’unica proposta realistica per scongiurare la guerra.
È andata come sappiamo: Irak devastato da una feroce guerra, Saddam impiccato dopo un processo farsa che è servito non tanto a fare luce sulle atrocità e le complicità internazionali del regime del rais, quanto a tappargli la bocca. Di più: l’intero Medio Oriente continua a essere focolaio di tensioni che rischiano di degenerare e di estendersi su scala planetaria.
“Irak libero” rimane tuttavia una idea-forza che non va abbandonata: un fronte di lotta da tenere aperto nel duplice aspetto relativo al ruolo e ai limiti dell’ONU, e alle inadeguatezze e povertà della politica estera italiana ed europea in Medio Oriente; che, per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese è appiattita sulla inconcludente prospettiva dei “due popoli, due Stati”; mentre la proposta realistica e perseguibile è quella federalista dei “due popoli, una democrazia”, che i radicali propongono da vent’anni.
Dopo il rilancio del Satyagraha, i mesi che ci separano dalle Olimpiadi saranno “pieni” di iniziative in Italia, al Parlamento Europeo, in Medio Oriente: per arrivare, questa estate, con proposte concrete che forniscano le riforme possibili da opporre alla paralisi “realista” che attualmente domina le relazioni internazionali tra i governi; e per scongiurare le tentazioni suicide e disperate di cui si è fatto portavoce Tsewang Rigzin. Una “tentazione” che in molti possono coltivare, con gli effetti disastrosi che tutti noi possiamo facilmente intuire.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 9 aprile 2008)