Per una mostra della metà degli anni ’50, Rosai scriveva «nato e cresciuto in questa città di Firenze dove vivendo ho dipinto la quasi totalità delle mie opere giunto alfine sulla soglia della vecchiaia […] mi è maturata l'idea di tradurre in un compiuto ciclo di immagini anima e volto della mia città […]. Dall'età della ragione ho guardato la mia città e appagato l'occhio nel fascinoso gioco di spazi e di prospettive che la natura intreccia con le insigni architetture […]. Non c'è angolo di strada, profilo di torre, perimetro di piazza a Firenze, non loggia, chiesa o palazzo di cui non abbia al tempo de' miei vent'anni indagato forma e colore, scoperto o inventato la storia. Piazze e strade già apparse smisurate ai miei occhi di fanciullo restringevano col crescer degli anni e precisavano i loro contorni, assumevano volto e carattere rivelando ognuna un suo particolare segreto. Da questa conquista assidua e paziente della mia città ho ricavato preziose esperienze e insegnamenti.».
Stretta è la simbiosi tra Firenze e Ottone Rosai. La pittura di Rosai rappresenta le note più caratteristiche di una città che regala al pittore spunti per la sua arte e che in quell’arte resta a memoria di una posterità che in essa coglie la solitudine e la malinconia di un artista che fece della pittura una regola di vita, un afflato poetico, un’impronta indelebile del suo pensiero.
Non un suono, non un rumore traspare nei personaggi, nei soggetti, nei suonatori, tutto appare come alter-ego della sua coscienza, del suo modo di sentire e di percepire la vita, le cose, il popolo, la città.
Una pittura che è memoria, ricordo, rappresentazione di ciò che è stato caro e che si è perso; l’artigiano che adombra la figura paterna raccoglie in sé messaggi di amore, di affetto ma anche di distacco da una vita alla quale si rinuncia nelle acque dell’Arno: scultoreo, monumentale ma freddo, quasi a rappresentare non le cose ma l’essenza di esse come in tanta letteratura del Novecento. La città vive nel ricordo di strade, scorci, caseggiati, che oggi appaiono altro all’occhio attento dell’osservatore o dell’indomito visitatore che si sforza di trovarvi Rosai.
Rosai lascia in esse l’impronta del suo cuore, della sua sensibilità, dei toni di colore che egli sceglie per rappresentare l’istante del suo sentire, come egli stesso dice -il tono scelto è l’essenza del suo pensiero, basta che cambi un tono e si snatura il concetto stesso della rappresentazione-.
Rosai è un pittore che ama le cose semplici e, in rapporto al proprio contesto storico e all’esperienze da lui vissute, predilige il popolo, gli artigiani, la vita quotidiana, gli ambienti aperti alla natura; gruppi di persone i cui sguardi non s’incrociano, i cui caratteri fisionomici si ripetono, sagome monumentali, statuarie, una monumentalità che si ripete negli ambienti: strade gonfie come fiumare in piena, storte, di cui non si vede la fine; personaggi assopiti, dormienti in un profondo silenzio che avvolge gli uomini e le cose; nudi che richiamano altro; colori terrei, raramente solari, specchi di un animo tormentato e bisognoso di quiete, come l’animo di tanti che vissero le esperienze di quegli anni.
La pittura di Rosai diventa nel percorso, uno strumento per scoprire e capire ciò che fu il tempo dell’artista e ciò che l’artista ci ha lasciato: una pagina di pittura che si legge come un libro aperto, che fotografa per la memoria ciò che portava nel cuore come Via San Leonardo in cui ebbe lo studio dal ‘30 al ’57; una pittura che matura nel tempo e che diventa più pastosa come intrisa di ricordi con qualche colore in più come una speranza. Il percorso diventa conoscenza di un uomo, di un amico, e più volte si ritorna indietro per rileggere le didascalie che ripercorrono la sua vita e che sono l’omaggio di tanti amici, testimonianze di quanti vogliono portare ancora alto il suo nome e farlo rivivere tra noi.
Il sacrificio dell’uomo sul crocifisso è una sferzata per chi lo ammira in tutta la sua crudezza; un uomo che soffre la sua esistenza e implacabile la mostra.
Memorabile l’uomo sulla panchina, solo e solitario, che dorme forse il suo sogno di vita, in una posa che si fa seguire nel movimento, nell’atteggiamento, nei particolari, in quei colori che s’identificano nella natura ma cupi e smorti come l’esistenza.
Stretto fu il connubio di Rosai con gli ambienti intellettuali del tempo ma leggeva con passione Mallarmé, Baudelaire, Kipling, Dostoevskji, Wilde ed era vicino agli scrittori e poeti fiorentini, fra i quali Papini e Palazzeschi. Rosai mantenne integro il suo modo di vedere e di sentire; egli è l’uomo del Novecento intriso di incomunicabilità e di malinconie, che si aggira tra il futurismo, note di cubismo, elementi metafisici, ma solo per trovare accostamenti, perché Rosai resta nel contesto un isolato che portava in sé l’irrequietezza adolescenziale che si smorzava nella sua pittura, nei toni di una malinconia palpabile anche dove la ricerca del colore vorrebbe mostrare altro.
Ci concediamo da Rosai: -Così, con alcuni versi dolci e struggenti con i quali Sandro Parronchi ricordava venticinque anni fa la scomparsa dell’amico:
Il ritrovarsi tra i tuoi quadri, Ottone,
a un venticinqennio dal tuo addio
sulla curva dell’Arno al Girone
o lassù sotto il forte di Belvedere
l’ora che traccheggia sui muri
del caffè scordando l’eternità
la strada dei campi che s’allontana
dietro un sole che non è più mio.
Note aggiuntive:
Ottone Rosai, grande pittore e incisore, nasce a Firenze il 28 aprile del 1895 e muore ad Ivrea il 13 maggio del 1957.
Varie furono le sue esperienze in ambito pittorico: nel 1913, a soli diciotto anni, Rosai si avvicinò al Movimento Futurista, vide le opere di Umberto Boccioni, ne trasse ispirazione e diventò amico di alcuni esponenti del gruppo fra cui Soffici, Carlo Carrà e Severini. Sperimentò anche alcuni dettami cubisti. Nel primo dopoguerra si ispirò alla tradizione del Trecento e Quattrocento fiorentino e a Cézanne. Nell’immediato dopoguerra aderì al fascismo e partecipò allo “squadrismo”. Allo scoppio della prima guerra mondiale, aderendo alla filosofia futurista, si arruolò come volontario e fu inviato al fronte. Dopo la guerra, Rosai continuò l’ elaborazione di un proprio linguaggio pittorico: i soggetti dei suoi quadri fanno riferimenti alla realtà e all’uomo; sono nature morte, paesaggi e composizioni con figure.
Rosai amava riprendere i quartiere popolari di una Firenze minore, dimessa e angusta, le viuzze e i suoi –omini- nelle osterie, dove sapeva catturare elementi metafisici. La morte del padre, suicidatosi per debiti, nel 1922, lo costringerà ad abbandonare momentaneamente la pittura ma che egli successivamente riprenderà e con maggior vigore, partecipando a mostre che lo faranno conoscere al vasto pubblico.
Palazzo Medici Riccardi lo ricorda a cinquant’anni dalla morte con una mostra che ne illustra chiaramente il percorso artistico.
Tra le opere in mostra:
“Autoritratto” del 1933
“L’uomo della panchina” del 1930
“Via Santa Margherita a Montici” del 1933
“Greve in Chianti” del 1938
“Via San Leonardo” del 1938; 1955
“Ritratto del padre” e “Via Toscanella” del 1922
“Vallesina” del 1916
“Nudo disteso” del 1947
“Atleta” del 1948
“Nudo di ragazzo” del 1950
“Crocefisso” del ’37 0 ‘43
“La serenata” del ’29
“Concertino” del ’19-‘20
Palazzo Medici Riccardi, Firenze
dal 27/01/2008
al 02/04/2008
PROROGA AL 06/04/2008
tutti i giorni 9.00-19.00
chiuso il mercoledì
tel. 055-2760340
www.provincia.firenze.it
Biglietti:
- intero € 5,00
- ridotto € 3,50
(il biglietto è comprensivo della visita al percorso museale di Palazzo Medici Riccardi con la cappella di Benozzo Gozzoli, la Sala Luca Giordano e il Museo dei Marmi)
Curatore:
Luigi Cavallo
Catalogo:
ed. Pananti, Firenze