Eletto da soli tre giorni, Giorgio Napolitano che, ne sono certo, si rivelerà come il miglior Presidente della Repubblica che l’Italia abbia avuto, ha sentito la necessità di riaffermare, come aveva già fatto nel 1997, di non aver mai scritto poesie. Ed ha specificato: né in napoletano, né in italiano, né in alcuna altra lingua. Dopo cinque anni passati con un Presidente del Consiglio milanese autore di testi di canzoni in napoletano, il ghiotto chiacchiericcio, appena iniziato e che poteva divampare, sul ben più elevato livello di Pe’ fa comme ‘o chiarfo (“Per fare come il temporale”) è stato così bruscamente azzittito sul nascere.
Quindi, dopo la categorica smentita ufficiale, il discorso deve considerarsi chiuso. Nessuno dovrebbe più esternare dubbi neanche su possibili sfoghi poetici giovanili del nostro austero ed aristocratico Presidente.
Termina così la leggenda, nata chissà come e chissà perché, in base alla quale il freddo, imperturbabile uomo politico Giorgio Napolitano, avrebbe anche una sensibilità poetica e mezzi tecnici espressivi tali da dar vita ad un altro Giorgio Napolitano, il “neo-preromantico” Tommaso Pignatelli? Chi vivrà, vedrà.
Ma, per ora, un’ipotesi può essere comunque sviluppata. Ammettiamo allora, per gioco, che le due persone coincidano, visto che Tommaso Pignatelli è ufficialmente autore anche di Amarosud, libro che , se non fosse autobiografico, presenterebbe comunque impressionanti coincidenze con la vita del nostro Presidente.
Per portare avanti un gioco simile, bisogna ricordare, anche se rapidamente, il clima che esisteva negli anni in cui il giovane ed eclettico Napolitano, avrebbe potuto iniziare a scrivere poesie. In genere si comincia, per curiosità, dai 10 ai 20 anni. Lo si fa per amore di qualche persona o per dar sfogo alla propria malinconia o all’allegria oppure per gioco, per cimentarsi in costruzioni verbali che hanno appassionato l’uomo da sempre, in cui la fantasia, il senso musicale e la rigorosità matematica nel conteggio delle sillabe, costituiscono sempre, a prescindere dal livello delle composizioni, un allenamento ed un godimento spirituale.
Quando Napolitano aveva quella età, erano gli anni della seconda guerra mondiale.
Nel 1942, diciassettenne, viveva ancora a Napoli e fondava un gruppo antifascista e comunista che prese parte a numerose azioni contro i nazisti. Ventenne, aderì al Partito Comunista Italiano, di cui fu segretario federale a Napoli e Caserta. Due anni dopo, nel 1947, si laureava in giurisprudenza all'Università di Napoli, con una tesi di economia politica. Quindi, negli anni in cui si operano vari tentativi creativi, Napolitano entrò a far parte di gruppi politicamente molto attivi che, sia per il drammatico momento storico che spingeva all’azione, sia per le particolari caratteristiche dell’indirizzo ideologico, non erano certamente i più inclini ad incoraggiare un animo poetico che, per giunta, non era incline a ritmare i propri versi “al suono cadenzato dei passi del popolo in marcia verso la rivoluzione” (indicazione-intimazione data dal partito ai i poeti russi).
In un contesto simile, l’ineliminabile disposizione dell’animo alla contemplazione poetica, avrebbe suggerito, con “Un po’ d’amarezza”, riflessioni di questo tipo «Me ‘mpertuso, in chelli ammàtteti, / into misciòscio ca campa dint’ ‘a mme /…” (Mi rintano, in quelle occasioni, / nell’estraneo che esiste in me /...» (da Pe cupia’ ‘o chiarfo).
L’estraneo (il poeta albergante nel combattente) avrebbe ammirato e forse imitato Yeats, Joyce, Auden, Eliot, ma anche le tenerezze e gli sberleffi del napoletanissimo e celebre Salvatore Di Giacomo. Il giovane Napolitano, sempre più in vista nel mondo politico, si sarebbe subito posto il problema se “suicidare” l’estraneo che viveva in lui. Ma troppo esuberante, particolare ed inimitabile sarebbe stato in quegli anni, il piacere derivante dal dare libero sfogo alle esternazioni dell’istrionico alter ego. Il suicidio della parte attivamente poetica sarebbe stato quindi rimandato. Avrebbe allora continuato a coltivare la recitazione, la regia, la poesia ed avrebbe accettato l’invito del futuro scrittore Luigi Compagnone, a declamare, a occhi chiusi, la parte di un non vedente in una commedia di Di Giacomo intitolata appunto “E cecate ‘e Caravaggio”. L’avrebbe recitata molto bene, perché riusciva a fare molto bene tutto quello che decideva di fare. E Massimo Caprara, futuro segretario di Palmiro Togliatti, avrebbe annotato: «Dicitore con gusto, lo sentii recitare, ritto ed elegante in mezzo al salone a strapiombo sul mare di Mergellina della villa Lucia al Vomero, alcuni versi malinconici, fino a quando, con qualche malizia, non venne fermato da “un versaccio sconcio e perentorio” dedicatogli da un pittore comunista».
Il sensibilissimo Napolitano avrebbe pensato allora “se un compagno, e per giunta artista, mi spernacchia quando recito Salvatore Di Giacomo, quanti compagni artisti e soprattutto non artisti, mi spernacchierebbero se recitassi una mia poesia? E quanti, tra quelli che non mi spernacchierebbero in pubblico, poi non userebbero contro il Napolitano politico saggio, mediatore e migliorista, l’accusa di sprecare del tempo ad attività decadenti e da femminucce?”
Ufficializzata, a 21 anni, la sua adesione al PCI mediante l’iscrizione, nel 1953 fu eletto deputato. Simili riconoscimenti pubblici avrebbero, di fatto, ristretto sempre più lo spazio alle esigenze ed alle attività di Tommaso Pignatelli, reprimendo ancor più la parte del talento artistico della sua personalità e quella istrionesca del commediante.
Episodi come quello dello “spernacchiamento pubblico”, ma ancor più l’assurda esigenza, pesantemente presente negli ambienti marxisti di allora, di pretendere dai poeti sempre e solo un impegno politico di tipo strettamente marxista, non sarebbero certamente stati d’aiuto alla sua eccellente figura di uomo politico emergente. Al contrario, il Tommaso albergante nel suo animo, amante di atmosfere e titoli vagamente riecheggianti il preromantico “Sturm und Drang” (Tempesta ed Impeto), avrebbe creato certamente continui imbarazzi all’uomo politico. Napolitano sarebbe allora diventato sempre più estraneo alla commedia. Il possibile testimone di vicende ardenti e tragiche dell’Uomo, si sarebbe sempre più trasformato in impassibile governante, in un politico serio come pochi altri, però come nessun altro segnato da una occulta vena di malinconia, figlia dell’estraneo che lui non avrebbe mai saputo eliminare totalmente da se stesso. Nascondere il poeta, per Napolitano, sarebbe stato un doloroso obbligo e una fatica immane: una specie di razionale violenza su se stesso. L’estroso, malinconico e solitario Tommaso Pignatelli avrebbe ingaggiato un’impari lotta con la razionalità vincente del suo censore forzato. Per sua somma sfortuna, la vita pubblica ed i successi in campo politico, avrebbero gratificato sempre più, con riconoscimenti ai più alti livelli, il Napolitano politico.
Quindi dal 1989 al 1992, anni in cui fu europarlamentare fino a quando fu eletto alla Presidenza della Camera, la terza carica più importante dello Stato e, successivamente, dal 1999 al 2004, anni in cui fu di nuovo europarlamentare, il peso della vita pubblica avrebbe senz’altro fatto pendere la bilancia definitivamente a favore della scelta di essere solo e sempre Giorgio Napolitano.
Ma anche in situazioni così sfavorevoli, la lotta per l’esistenza di Pignatelli avrebbe avuto delle insopprimibili e prevedibili boccate d’ossigeno, nei momenti di nostalgia durante le lunghe serate passate in Belgio. I caldi e sempre vivissimi ricordi del suo Sud, anche se sempre più lontano nel tempo e nello spazio, e le sensazioni provate nel tornarci, avrebbero spinto Napolitano a dare spazio a Pignatelli, permettendogli di scrivere Amarosúd (Schena, Fasano di Brindisi, 1993).
E Tommaso avrebbe trasmesso in quelle pagine la grande nostalgia per la sua terra, le sue case, il suo sole, il suo cielo, che lui trovava diverso da quello belga ed avrebbe scritto che tutto questo rodìo lui se lo doveva tenere dentro…
Alla fine, avrebbe scritto, come riassume l’editore Schena nella presentazione di Amarosúd, «… ottenne di recarsi da turista, insieme alla moglie, a luglio di ogni anno a rivedere il suo paese. Rivedendolo, si commosse. Guardava dappertutto con curiosità per esaminare i mutamenti. Si rallegrava dei progressi fatti. Si sentiva un altro, parlando con i vecchi amici. Raccontava loro la vita che aveva fatto all'estero, i soldi che aveva guadagnato, la famiglia che si era formato. Faceva capire che, se non avesse avuto i figli cosi attaccati alla vita che si faceva in Belgio, gli sarebbe piaciuto venire a passare "nel paese" gli ultimi suoi giorni…». Insomma, sostituendo al dovere verso i figli, il dovere verso la comunità ed il partito, Tommaso avrebbe descritto esattamente la situazione ed i sentimenti più profondi di Giorgio, compreso l’amore per Stromboli e l’abitudine di tornarci ogni anno, a fine luglio e primi di agosto, come è stato anche per il 2005.
Nel gennaio del 1997, in occasione della sua elezione al Viminale, sarebbe risaltata fuori, come infatti avvenne, la storia del suo “essere poeta”, proprio come è accaduto appena eletto Presidente della Repubblica. Alcuni avrebbero detto che non aveva mai smesso di scrivere poesie in napoletano. Poesie che poi lui stesso avrebbe tradotto in italiano e, aiutato, avrebbe addirittura tradotto in inglese. Poesie che erano state pubblicate in raffinate edizioni, con la premessa di Tullio De Mauro, e sempre con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli. La rivista Poesia avrebbe rivelato l´identità dell´autore della già ricordata raccolta Pe cupià o chiarfo. Lui, forse, si sarebbe limitato a confermare l’indiscrezione a mezza bocca, ma timidamente e come vergognandosene.
Può sembrare esagerata una simile ricostruzione-ipotesi, in cui alcune frasi sono state prese da scritti presenti in rete? Ma torniamo agli anni ’50, periodo in cui avrebbe deciso di dissociarsi dalle esigenze e dalle attività “frivole” di Tommaso.
Cosa accadeva nel 1950, quando il nostro compassato ma ardente Giorgio aveva 25 anni, era iscritto al PCI e, per nostra ipotesi, aveva nel cassetto delle poesie, indeciso se darle alle stampe o aspettare di testare meglio le proprie inclinazioni teatrali, poetiche e politiche?
Nel ’56 Pasternak, il grande poeta e romanziere russo allora bollato in patria come poeta intimista, decadente e quindi anticomunista ed antisovietico, fece arrivare in Italia un suo manoscritto. Era intitolato Il dottor Zivago. Fu fatto recapitare, non ad un editore, ma direttamente a Togliatti, inviato da un giornalista italiano, Sergio D’Angelo, interessato alla sua pubblicazione, anche perché era stato lui a tradurlo in italiano. Si sperava, e D’Angelo per primo, che Togliatti fosse diverso dai comunisti tradizionali. Che, insomma, non fosse come Stalin, che ne aveva vietato la pubblicazione. Togliatti, lo lesse e ne parlò a lungo con il suo segretario, Massimo Caprara, che così ricorda quell’episodio:
«… Togliatti lo lesse e siccome avevo l’avventura di essere suo segretario particolare e mi ero occupato abbondantemente di letteratura, discutemmo molto di questo romanzo… (omissis) …Togliatti disse che il libro era un bellissimo romanzo d’amore, fu convinto che fosse un romanzo d’amore, lui diceva d’amore quando le cose non andavano nel verso giusto e doveva cercare una scappatoia... ma sì potete pubblicarlo, perché no?... Ma Togliatti quando seppe che l’Unione degli Scrittori aveva deciso che il libro non andava pubblicato e quando seppe che Stalin in persona aveva detto che non bisognava pubblicarlo si dimenticò di se stesso: non disse più che il romanzo era buono, ma disse che era antisovietico e che quindi non andava per niente pubblicato. Questa è la realtà contro la quale il dissenso ha vinto, questo cambiamento di opinione, a seconda che il capo dicesse una cosa o l’altra era la mancanza di verità assoluta… (omissis) …Il Partito Comunista era una organizzazione di ferro, a noi giovani membri della nomenclatura stabiliva anche chi dovevamo sposare. Difatti mi chiamarono davanti al ‘ministro’: abbiamo stabilito che ti devi sposare... ma veramente sto bene anche così... no, abbiamo pensato noi, abbiamo deciso noi chi devi sposare. E mi dissero che dovevo sposare una certa compagna molto perbene, intelligente, persino bella... “no perché” dissi “se devo sposare qualcuno cerco da solo, non ho bisogno del vostro aiuto, riesco a fare da solo.” E dissero: “no, tu devi sposare la compagna Ferrara” anzi, allora si chiamava compagna De Francesco. A questa persona che mi dissero che dovevo sposare, poi ci ho ripensato, sono rimasto amico suo, è morta soltanto pochi mesi fa; e questa persona poi ha sposato il senatore Ferrara. Sapete, tutto sommato, ho pensato di aver fatto male, non perché sono stato felicemente sposato, per giunta due volte, anche più del necessario, sono stato sposato due volte e due volte divorziato, però se avessi sposato Ferrara… Ferrara chi è? Marcella Ferrara, che si chiamava De Francesco, è la madre di Giuliano Ferrara. Certamente se l’avessi sposata, avrei contribuito a fare Giuliano Ferrara meno ‘male’, quindi una certa attività l’avrei fatta anch’io e anche concreta... (omissis) .‘La comparsa dei dissidenti -ha scritto Siniavskij- è simile a un miracolo, testimonia in primo luogo la lealtà e l’indistruttibilità dell’anima, testimonia questo come un miracolo nella sua millenaria aspirazione alla libertà, alla creatività, alla giustizia. In questo senso, i dissidenti sono una prova evidente dell’esistenza dell’anima.’ L’anima quindi esiste e anche dove sembra che non ci sia o non possa esserci, lì l’anima c’è. Lì l’anima vince come ha vinto il dissenso in Unione Sovietica…».
Racconto esagerato, incredibile, nato dall’acredine di un segretario entrato in rotta di collisione con il suo capo che non gli faceva fare carriera? Per chiudere il discorso su questa breve presentazione dell’atmosfera che avevamo anche in Italia, per essere più chiari ed incisivi, Napolitano-Pignatelli avrebbe sentito, per le sue creazioni poetiche, da parte di un illustre compagno, il poeta Antonello Trombadori, questo commento tombale: «…Le poesie di Napolitano sono le più anticomuniste che abbia mai letto». Quindi, spernacchiato e giudicato pure anticomunista. Più anticomunista di Pasternak, visto che Trombadori aveva sicuramente letto le poesie del russo. Avrebbe potuto Pignatelli avere la gioia del riconoscimento ufficiale, da parte di Napolitano? No, Giorgio Napolitano, non poteva e non può essere Tommaso Pignatelli.
Ecco l’errore, l’inammissibile ingerenza di un’ideologia nei meandri dell’animo umano. Giudicare anticomunisti i versi di Pasternak, Pignatelli e, perché no?, anche quelli di Prevert e di Catullo. L’ideologia ed il conformismo, condannati e stigmatizzati con opere cristalline da Sartre e Ionesco con Le mani sporche ed Il rinoceronte, portavano a dedurre, ovviamente e sempre a sproposito, che un animo che scrive versi giudicati, chissà perché, anticomunisti solo perché non cantano con i ritmi del passo del popolo verso il sole dell’avvenire, deve appartenere ad un individuo politicamente anticomunista.
Nel 1929, con l’ideologia ed il conformismo fascista imperanti, Moravia pubblicò quello che viene giudicato il suo romanzo migliore, Gli indifferenti. Questo libro è considerato antifascista, sia per il suo contenuto, sia perché avrebbe subito la censura da parte del regime fascista. Non so quanto a lungo durò la censura e se veramente ci fu, visto che Moravia lo pubblicò quando aveva 22 anni. Ma sospetto che la leggenda del suo antifascismo da ventenne, sia dovuta ad affermazioni come questa:
«Come sempre sarebbe ricaduto in quella mentale indifferenza che gli impediva di agire e di vivere come tutti gli uomini».
Anche in questo caso, il non parlare di argomenti fascisti, oppure il creare personaggi che non “sprizzavano forza, giovinezza e voglia e gioia di vivere”, generava l’accusa di antifascismo. Mi chiedo perché, non parlando neanche di comunismo, non sia stato giudicato anticomunista… . Non parlando di gioia di vivere, avrebbe dovuto essere giudicato soprattutto antigioioso e per i fascisti, forse noioso. Ed infatti, come alcuni critici osservano, influenzò l’ispirazione di Sarte nello scrivere La noia. E sulla spinta che l’indifferenza dà verso la noia, dovremmo essere tutti d’accordo.
Un ultimo piccolo, ma significativo esempio, di come la mancanza di impegno politico, di sinistra, perfino nei testi delle canzoni possa tuttora danneggiare in Italia, gli autori “intimisti”. Ritenendo che Giulio Rapetti, in arte Mogol, oltre che per aver valorizzato come meglio non poteva esser fatto, le musiche del Mozart della musica leggera, meritasse un pubblico riconoscimento da parte delle istituzioni umbre anche per aver scelto l’Umbria, per realizzare il Centro Europeo di Tuscolano, abbiamo sollecitato le autorità comunali ad attivarsi in tal senso. Avrebbero potuto dargli almeno la cittadinanza onoraria. Invece, niente da fare: silenzio assoluto. Ci siamo fatti allora promotori di una proposta di dare a Mogol una laurea ad Honorem. Proponemmo la cosa al Rettore dell’Università degli Studi di Perugia, che a quei tempi era il prof. Calzoni. Questi espresse parere favorevole, durante un’intervista curata dalla rete televisiva locale TEF. Contattammo e coinvolgemmo alcuni colleghi delle Facoltà di Lettere, di Scienze delle Comunicazioni e di Scienze delle Comunicazioni Internazionali (i testi di Mogol sono tra i più tradotti e conosciuti all’estero). In una nazione in cui non sono pochi gli autori, certamente non al livello artistico di Mogol, che hanno avuto tale riconoscimento, per Mogol non c’è stato nulla da fare. Motivazione ufficiale: “è un individualista che spinge al disimpegno. È solo un autore di canzonette”. Motivazione vera, riportata dai colleghi un po’ più “folkloristici”: “È un qualunquista”, “non è impegnato”, “sotto sotto è un fascista, come Battisti”. Per quelli che Feltri ha definito “gli sciocchini di sinistra”, insomma Napolitano, pardon!... Pignatelli e Mogol sono poeti accomunati da un’ideologia, che viene dedotta dalla loro poetica, qualunquista e quindi non apprezzabile.
Il nostro gioco finisce qui. Abbiamo cercato di dimostrare che Giorgio Napolitano non poteva, e non può, essere Tommaso Pignatelli.
Ma, siamo sinceri, il dubbio ci riassale: e se davvero lo fosse? Se lo fosse… noi dovremmo rispondere con questa stupenda ed amara confessione di Evtushenko: «Un poeta, in Russia, è più che poeta».
Adattata al nostro caso, diventerebbe: «Un poeta, nel PCI, era più che un poeta».
Questo lo diremmo noi. Ma cosa direbbe Tommaso Pignatelli? Rinunciando alla rielezione al Parlamento Europeo, nominato senatore a vita, Napolitano aveva dichiarato di volersi dedicare agli affetti familiari, ai nipoti. Ad 80 anni , dopo una vita di repressioni e di rinunce, trascorsa con il continuo terrore d’essere soffocato definitivamente, Pignatelli, nella vecchiaia, avrebbe pensato di poter finalmente rivivere una stagione serena, con libertà di parola. Avrebbe pensato, come la moglie del vecchio guardiano del Faro di Ionesco “Anche se alla fine, farò vedere al mondo cosa sono in grado di dire. Farò sentire la mia voce, il canto malinconico, arrabbiato ed ironico dell’estraneo. Recupererò parte del tempo di una vita che lui ha voluto, fortissimamente, dedicare alla causa del popolo.” Ma il destino, ancora una volta, avrebbe voluto rubare del tempo sempre più prezioso all’estraneo. Ancora una volta, sarebbe stato sacrificato. Questa volta, addirittura per una inderogabile Ragion di Stato. Il 10 maggio 2006, il giorno dell’elezione, Tommaso Pignatelli si sarebbe sentito davvero morire. E questa volta per davvero e definitivamente. L’ultimo, più grande trionfo di Giorgio, avrebbe sancito la vera morte di Tommaso. E, da Presidente della Repubblica, Napolitano avrebbe dichiarato di non avere mai avuto niente a che fare con Tommaso Pignatelli.
Come concludere questo gioco? Con un augurio. Addentrandoci nel gioco, ci siamo immedesimati anche in Tommaso. Abbiamo immaginato le trepidazioni della sua vita travagliata, quasi da fratellastro, da figlio illegittimo o da figlio “deviato”, dedito ad attività da tenere nascoste. Il nostro augurio è allora: lunga, lunghissima vita, a Napolitano!
Ad 88 anni, seguendo l’esempio di Ciampi, non si ricandiderà. Che dia allora, finalmente spazio al suo cuore, come Tommaso sperava che avvenisse nella conclusione di Amarosúd... Conceda a Tommaso Pignatelli, dopo 70 anni, la gioia del riconoscimento ed il diritto di espressione. Tutti, o quasi tutti, capiremmo il suo probabile sfogo contro Giorgio Napolitano, intitolato “Non hai voluto esser poeta”. E magari pure con questo sberleffo finale: “Tu sei stato, inizialmente, accusato d’essere il Presidente del 50% degli italiani. Bene, io all’inizio, ero il Presidente dell’altro 50%. Di quelli che non ti avrebbero spernacchiato e non ti avrebbero accusato d’essere anticomunista. Posso concludere, caro mio, che per essere Presidente di tutti gli italiani, hai avuto bisogno della mia esistenza, alla quale sei debitore anche di questa nota affermazione che sottoscriverebbe anche Silvio Berlusconi: «Se Napolitano fosse stato amato dai comunisti, come è stato amato dai non comunisti, sarebbe stato eletto alla segreteria del PCI».
Paolo Diodati
(Ordinario di Fisica Applicata all'Università degli Studi di Perugia)