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Serge Latouche: Breve trattato sulla decrescita serena. Recensione di Antonio Fiori
Serge Latouche
Serge Latouche 
02 Aprile 2008
 

«Se è ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito, le conseguenze (produrre meno e consumare meno) sono invece ben lungi dall’essere accettate, Ma se non ci sarà un’inversione di rotta, ci attende una catastrofe ecologica e umana. Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema basato su un’altra logica: quella di una ‘società di decrescita’». Così Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Paris-Sud nel suo Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, 2008, euro 9,00).

 

Sulla base di queste affermazioni preliminari e fondanti, l’autore propone un percorso verso otto verbi-obiettivi interdipendenti in grado di innescare il circolo virtuoso della ‘decrescita serena’: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Invero questo lavoro riprende e riorganizza un testo apparso nel 2006 (Scommessa sulla decrescita, Feltrinelli, 2006) per addivenire a un progetto più elaborato di società alternativa, ad un nuovo, più completo scenario.

 

Vorrei soffermarmi in questa sede su tre aspetti che mi hanno particolarmente colpito: l’urgenza assoluta del cambiamento di rotta («Non è affatto sicuro che ci restino ancora trent’anni», pag. 22), le implicazioni ‘totalizzanti’ della sua proposta (con il ripensamento radicale dei valori in gioco, dei modelli di vita e delle relazioni interpersonali ed il recupero di quei pensatori che misero in discussione sin dall’inizio le logiche della crescita indefinita), il passaggio, infine, dall’ossimoro di una ‘utopia concreta’ – che lascia inizialmente scettici sulle chanches di un reale cambiamento – ad un vero e proprio programma politico della decrescita, che «non è un modello chiavi in mano ma una fonte di diversità» (pag. 121).

 

L’urgenza del cambiamento. Secondo Latouche, quest’urgenza non può ormai più essere messa in discussione ed è strettamente connessa con le previsioni dei mutamenti climatici innescati dalla crescita incontrollata. Il circolo vizioso dal quale non si riesce a uscire, e che produce una sorta di ‘tossicodipendenza da crescita’, è alimentato da tre ingredienti: la pubblicità, il credito e l’obsolescenza programmata dei prodotti. Nel saggio si sottolineano anche l’illusorietà del c.d. ‘sviluppo sostenibile’ (inadeguato per eterogeneità di significati e inconsistenza delle proposte) e della riduzione della popolazione mondiale (che anziché fattore calmierante potrebbe rivelarsi, se ottenuta con metodi autoritari, come un elemento perturbante). La data cui comunque si fa riferimento quale punto di non ritorno (anche se ne viene riconosciuta l’arbitrarietà) è il fatidico 2050.

 

Le implicazioni culturali della decrescita. Il saggio richiama la prima critica all’homo oeconomicus in ambito sociologico (Durkheim, Mauss), antropologico (Polanyi, Salhins) e psicanalitico (Fromm, Bateson) per poi arrivare a quei pensatori che vengono considerati gli ispiratori della teoria della decrescita: Ivan Illich, Jacques Ellul, Claude Levy-Strauss, Robert Jaulin. Si giunge alla fine a proporre un nuovo punto di vista culturale: l’ecoantropocentrismo, quasi un distillato delle serrate critiche agli universalismi, etnocentrismi, totalitarismi, e produttivismi sviluppate in tutto il lavoro. Resta naturalmente centrale la critica al capitalismo e ai suoi meccanismi di produzione e autoriproduzione.

Il libro affronta anche, in chiusura, il ruolo dell’artista nella nuova ‘società della decrescita’ e ne lo individua nella pratica del ‘disincanto’, di una sorta di neo-animismo che consentirebbe una riconciliazione con la natura e l’attuazione della massima di Oscar Wilde, “l’arte è inutile e dunque essenziale”. Devo dire però che lascia perplessi questo voler ‘rifondare’ tutto, anche l’arte e (come pure si auspica nel libro) la ricerca scientifica: la complessità sociale, la sedimentazione millenaria del sapere e dell’arte, il fondamentale anelito di libertà connaturate proprio alla creatività artistica e alla ricerca, mal si conciliano con statuti ed obiettivi politici.(1)

 

La decrescita serena: da utopia concreta a programma politico. L’autore opera una serie di ‘distinguo’ filosofici e politici per meglio definire il suo progetto: rifiuta l’alternativa tradizionale destra-sinistra, non lo ritiene una forma di neoumanesimo e, pur reputando rivoluzionaria la sua proposta, ritiene al momento inopportuno che diventi motivo di fondazione di un partito politico. Mi sembra utile, per tratteggiare più concretamente lo scenario che propugna Latouche, citare un passaggio saliente del terzo capitolo: «Si delineano quattro elementi che giocano in sensi diversi: 1) una evidente riduzione della produttività dovuta all’abbandono del modello termoindustriale, di tecniche inquinanti e di materiali energivori; 2) la rilocalizzazione delle attività e l’interruzione dello sfruttamento del Sud; 3) la creazione di posti di lavoro (verdi) in nuovi settori di attività; 4) un cambiamento degli stili di vita e l’eliminazione dei bisogni inutili (“dimagrimenti” sostanziali della pubblicità, del turismo, dei trasporti, dell’industria automobilistica, dell’agrobusiness, delle biotecnologie, etc.)» (pag. 96).

 

Siamo di fronte a un lavoro certamente meritorio, condotto con passione e cura delle fonti  che va ben oltre la smitizzazione del tasso di crescita del PIL quale indicatore fondamentale di benessere sociale.(2) Pur condividendo la critica stringente alla crescita economica fine a se stessa, temo che il grande sforzo progettuale racchiuso in questo libro rischi di essere impraticabile, per molte ragioni. Intanto per i residui di utopismo che il progetto finale mantiene, quindi per forti rischi di dirigismo in campo scientifico sopra evidenziati, infine – con previsione tristemente facile – perché neanche il nucleo positivo della proposta di Latouche incontrerà mai nei governi, nei partiti e nelle imprese, quella condivisione urgente, profonda ed effettiva indispensabile per la sua attuazione. Personalmente credo, a differenza di quanto sostiene l’autore, che si debba recuperare invece il discorso sullo sviluppo sostenibile, innervando in esso quel che di buono ci offre il lavoro appassionato di Serge Latouche.

 

Antonio Fiori

 

 

(1) Sul tema del controllo politico della ricerca scientifica e sulla più complessiva critica alla componente utopica del progetto di Latouche si veda l’articolo di Piero Bianucci su La Stampa dell’11 marzo 2008, “Un'utopia lugubre e sinistra: non si limita la ricerca”.

(2) Sul punto rinvio alla mia recente, breve riflessione su Tellusfolio del 14 marzo 2008, “Crescere meno ma crescere tutti” comparso bel “Calamaro Gigante”. (vedi articolo correlato)


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