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Marco Cipollini. Inno alla Primavera
10 Aprile 2008
 

Caro Claudio, scrisse Campana temporibus illis: «Il popolo d’Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?» A questo “non più” quante cose dovremmo aggiungere ormai! Che le fanciulle, per esempio, non portano più le trecce e le gonnelle, né vanno più in bicicletta ma in motorino, fasciate di pantaloni... Quelle loro gambette pallide, con i calzini fino al fidanzamento, che sciolte le trecce si facevan la prima permanente, bastava un colpo di vento a darci il batticuore… È una catastrofe antropologica: nemmeno esistono più le “fanciulle”. Niente più languide ciglia, né più sussurri in ombra, né sguardi obliquamente luminosi. Finito. Simulacri impagliati nel Museo della Memoria. Aggiungi che le immense pinete delle nostre colline sono devastate da una pèste repentina che le abbatte come birilli, e se pure col tempo saranno sostituite da altri boschi, la musica del vento fra le loro alte fronde è per sempre perduta. Quel grumolo d’anni che di te mi fa più anziano, ha fatto appena in tempo a lampeggiarmi un mondo più antico, prestissimo svaporato… I carri rossi del primo maggio, trainati da marmorei buoi chianini con le corna frondate d’alloro, le processioni di Corpus Domini con gli angiolini che spargevano i fiori e, sì, una fanciulla con i calzini e le trecce, il cui rapido sguardo stellare mi scioglieva i ginocchi… Non l’avrei data, quella sua acerba beltà di paese, per Elena apparsa sfolgorante sulle mura di Troia. Fummo così ingenui? Così fanciulli noi stessi? Alleluia! Farà ridere una generazione fin troppo smaliziata questo linguaggio stupidamente, dolcemente ostinato? Sopportiamone il rischio, oggi si ride amaro per molto meno. E del resto ci saranno sempre delle tenere tresche dietro l’angolo di casa e le occhiate trapassacuore del primo amore. Quello che più duole, intimamente, è che la musica dei pini è perduta per sempre, come il fritinnio dei grilli nell’orto estivo e il cantare delle donne in faccende, a finestre spalancate. Quante cose scomparse dalla nostra esistenza! Quasi non facemmo in tempo a viverle che già svanivano. Verrebbe voglia di appiccicare dei manifestini sui muri e sui pali elettrici per denunciarne la sparizione. Penso dunque che non sia opera vana restituirne un soffio di memoria. Ma il vento di primavera è il medesimo di allora, soffia ancora e soffierà sempre. E «come la fronda che flette la cima – nel transito del vento, e poi si leva – per la propria virtù che la soblima» (Par. xxvi, 85-7) anche noi dobbiamo risollevar le nostre fronde canute, se una qualche virtù ci resta, così da sublimarla in poesia. Perché non è stanca nostalgia quel senso struggente che ci avvince uno strano mattino uscendo di casa, ma il risorgere prorompente della vita, e sia pure per i nostri anni tardivi un’illusione. Che importa? Il miracolo accade ogni primo d’aprile, con i rami secchi che scoppiettano di gemme, con l’azzurro ritorno delle rondini, e il cielo in quegli istanti è, come non mai, inesplicabilmente luminoso. (mc)

   

 

 

INNO AL VENTO DI PRIMAVERA

  

 

Vento di primavera che le biade inondi

come il mare in festa vastamente lucenti,

immensa arpa trascorri le ariose pinete,

ne gonfi di frusciante mistero le mille

e mille velature di fogliame, sopra

l’arboreo pianeta sospinti navighiamo

verso gli arcipelaghi dei nostri domani!

Sei il respiro della terra che si ridesta

dopo il sonno invernale, dilati l’istante

in speranza d’immensità, ala d’eterno,

tutto che sfiori si anima d’illesa vita,

di verde i prati dipingi e di margherite,

sotto la scorza risvegli linfe sopite,

sforzi le gemme in cima ai rami scheletriti,

la terra al tuo soffio è uno sbocciare di fiori,

farfalle nell’aria è un tremolio di colori,

tornano le rondini dai lidi oltremare e

guizzano stridule agli antichi nidi, ovunque

è un cantare di uccelli, gorgheggian rapiti

di gioia, le fronde sono cori in tripudio,

scintillano oscillanti, piovon da pertugi

di paradiso lucenti angelici canti:

quali a noi alte aliti beate promesse!

Nei miei capelli sbiaditi un soffio di sole

riverbera di un tempo i brividi dorati,

se aperto ti respiro si fa dentro le ossa

di sambuco il midollo, molle d’innocenza,

il sangue in fresco fermento, in me il cuore danza,

si scioglie di dolcezza come di fanciulle

sorrisi mi sfiorassero e languide ciglia,

quei loro sguardi obliquamente luminosi,

labbra di ciclamino sussurrare in ombra…

Ecco, abolisci l’ora: le rivedo quando

passano in bicicletta, che tu ne carezzi

le dondolanti trecce e con i lembi giochi

delle gonne che lanciano pallidi lampi,

giù reggendole allora con piccoli gridi

volano via ridenti, splendore fuggente!

Nell’anima, steccolo di sessanta inverni

risecchito, germogliano petali carnei,

torna a ronzarci l’ape sillabe di miele,

mi escono dalla bocca parole d’amore e

con te si fondono, voce di mille flauti!

O respiro della terra, allarghi il mio petto

fino ai confini della felicità quando

alla mammella del cielo nubi di latte

succhiano ancora gli occhi assetati di vita

e come insensato rido alla giovinezza

del mondo spalancato a un’immemore luce!

Ebbro di sogni azzurri allora me ne vado

fra folte biade, oscillo com’erba al tuo soffio,

e naufrago nei campi ondeggianti di luce

io vagabondo nei giorni, ubriaco d’amore

tutto rinasco in te, vento di primavera!

 

 

 

www.webalice.it/marcocipollini


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