Tra Marsala e Trapani, in piena estate. Costa bassa, monotona. L’orizzonte brumale di calura. Ma sullo sfondo le collinette delle saline brillano nevose come un miraggio. Diradati, dei mulini a vento, le pale scheletriche. Contornata di basse isolette, non sembra marina questa estensione d’acqua, il cui nome infatti è Stagnone. Mozia è davanti a noi, quasi si tocca. Sporge di poco sul piano dell’acqua. Mozia, MTW in fenicio, significa filanda. Guardandola, così deliziosamente naturale, mi figuro come dovesse apparire allora: una specie di Forte Apache lagunare, blindato con mura e torri. Con noi, in attesa, due turisti francesi (in viaggio di nozze?). Siamo presso il casotto dei traghettatori; a pochi passi l’imbarcadero, il piccolo battello. Da qualche punto della costiera — poco a nord, mi pare — parte l’antichissima via acciottolata costruita dai fenici e ormai affondata, che dalla terraferma arriva all’isola: lunga più di un chilometro, larga sette metri, sommersa per meno di uno. In un documentario vi si vedeva transitare un carretto con grandi ruote, trainato da un asino, e in mezzo al mare pareva un effetto di fatamorgana. Non sarebbe emozionante percorrerla, con l’acqua alla cintola? Lo accenno sorridendo a moglie e figlia. Nemmeno mi degnano di una lieve increspatura del labbro. Che caldo, non un filo d’aria. Il battello sta per salpare.
Versato l’obolo,
sulla barca saliamo
acciaccati dal sole, occhi strinati
dal cristallino riverbero delle saline.
Salpa il battello come un ubriaco
che torna per abitudine a casa.
Fuori del palizzato canale,
sull’aperto di squame marcescente luccicare
la barca barcolla segando la tavola liquida,
e al borbottio svolacchiano gabbiani:
soprammobili spostati a spolverare
o spiriti guardiani, consenzienti?
E di nuovo dov’erano si posano,
in fissità oscillante sul solco ondulante.
Nella bruma pomeridiana
l’isola pisola in bilico al davanzale orizzonte,
ciclope addormentato
che via via s’ingrandisce controsole,
la calura che emana si coagula in un enigma
crestato di agavi di lecci di pinastri.
Presso la punta nuotano insetti umani,
strappano l’acqua piatta.
Ride la prua di rigogliose spume…
Mano immergo in fresca sorgenza
d’istantaneità e già
il presente è ricordo del presente.
Respiro ad occhi spalancati il cielo,
l’immemore del cielo immensità.
Anima mia, qui accadi e sei per sempre.
E un altro tempo esala avanti a noi
(un tempo che ritorna dalla morte?)
come foschia oltre cui si stagliano
le rive cicatrizzate dei millenni.
Ed ecco, accosta (sbadiglia) il caronte.
Viventi sbarchiamo, corpi ed ombre, per mano.
Che ti stringo, e tu
(ho un brivido di buio)
tu sorridi, sorride la bimba,
luminose.
Come se posassi i piedi Altrove (l’isola di Böcklin). Ma ecco tutto risalta nella sua solida crudezza: il concreto pietrame riverbera calore, specchiata dall’acqua la luce opprime le ciglia. L’afa rende pesante il respiro. L’idea di percorrere a piedi l’intero periplo ci sconforta. Ma su, procediamo. Cammina cammina, la necropoli, Tophet in fenicio. Uno spiazzo bucherellato, con le urne e le anfore cinerarie. Dovunque un tal genere di scavi, le tombe qua e là scoperchiate, mi sa di profanazione: un dies irae forzato, anzi tempo, che la ricerca scientifica non basta a giustificare. Come considerare i vivi quando i morti sono ridotti a “reperti”? Forse quegli ossicini polverizzati sono di infanti primogeniti sacrificati: passati per il fuoco, si diceva. Ora non sono che tritume numerato: insignificante. Non è sacrilegio questo? E poi s’invoca la tolleranza religiosa… Del resto, di noi rimarrà ancora meno. Spazzatura in un ossario comunale. La forma delle anfore, ovulare, rigeneratrice.
Mozia, o sarcofago emerso
a fior di queste acque morte,
ronco del tempo dove il fenicio
gobbo di mercanzie lasciò le ossa
in una giara, a una triste madonna,
anche tu finis Terrae, finis Historiae,
una storia qualunque come sia la nostra.
Mozia, nome trovato nella nota in fondo
a una pagina di antiche battaglie e tiranni,
grazie a un gran giorno di strage e di furia,
un nome da allora che galleggia sul vuoto.
Qualunque luogo è alla fine una Mozia,
e magari un’amena meta di turisti
dove millenni di rovine oziano
al murmure amaro di onde,
onde che esauste ripetono,
voce fantasma, Mozia,
lene riva dei morti,
Mozia ripetono
anche per te,
ne tremi:
Mozia
forse
tu?
E il Cothon. Forse una piccola darsena di carenaggio, quale i cananei scavavano dentro la costa. L’uscita al mare è interrata, l’interno una morta gora. Due bottiglie di plastica galleggianti, simulacri dell’inerzia che vi domina. Intorno tutto il bordo è un fiottare d’erbaspada, di agavi, di canneggiole, di altre piante semisecche, di cui ignoro il nome. Grandi libellule qua e là vi si posano sul culmine, nel sole cangianti di una levità elettrica, bluastra. Una prossima a me (sto fermo). In cima all’erbaspada, ne oscillano appena le diafane ali, come fiammelle del gas: unico segno vivente in gronda a questa piscina impaludata, sporca. È un angolo derelitto della storia, un vecchio vicolo senza sbocco, diruto, in cui si finisce per accumulare l’immondizia… Così da quando nel 397 a. C. Dionisio di Siracusa espugnò e devastò questa cittadella pinata e traffichina. Quindi con la sua flotta possente assalì in Etruria il santuario di Cere, celebrato serraglio di ierodule, asportandone un bottino pletorico. Quaggiù e lassù, poche ore di urla e di tumulto, di fiamme croscianti, e l’oro insanguinato, e poi millenni deserti. È quest’acqua immobile, marezzata di putredine, a dare il senso dell’annichilimento, più delle mura ruinate, dei pietroni divelti. Come opera umana è un cadavere liquido. Sta tornando innocente, a poco a poco, primordiale. La natura non ha fretta.
Ed~~appare~~il~bacino,~~chiuso~~al~~mare,
quadrangolare,~~una~~~carcassa~~~~d’acqua,
qua~~e~~là~bottiglie~e~sporco~~galleggianti.
È~~~la~~bara~~di~~~un~~~impero~~~marino
che~si~estese~~per~quanto~~s’arcua~il~~sole.
Una~~~~~libellula,~~~~~~fragile~~~~~~ninfa,
luccica~~~sorvolante~~~~questo~~~~specchio
così~vecchio~e~macchiato~che~anche~il~cielo
d’estate,~~~~~vastità~~~~~d’eterna~~~~~luce,
riflette~~~~opacamente,~~~ecco~~si~~~~posa,
presso~~me,~~su~~uno~stelo,~~esile~~~spada.
Le~~~cicale,~~~remote.~~~~E~~d’improvviso
tutto~~è~~silenzio~~intorno,~~in~~prospettiva
di~~~~~nullità~~~~assorbite~~~~le~~~~cicale.
Sta~~lì,~~guardiana~~~del~~tempo-non-tempo,
pare~~~vivente~~~spilla~~~che~~~drappeggia
il~~~manto~~della~~Morte.~~Ed~~è~~silenzio.
Il museo. Fu la bella dimora di Joseph (indigenato in Giuseppe) Whitaker, il tipico inglese di quando c’era l’impero (un altro impero marino), uno di quei ricchi e colti fortunati che fecero in tempo a vedere e godere il mondo com’era, immutabile da centinaia, migliaia di anni, e che due tre generazioni dopo sarebbe stato pesticciato dai piedi (tra cui i nostri sei) del turismo di massa. Tra vigneti e scavi archeologici, poteva ben essere appagato in questa tranquillità monastica, quasi un piccolo regno marino, tutto suo. Appena entrati, c’immobilizza la statua dell’efebo, forse un auriga vincitore. È un grosso mozzicone di marmo, ma toglie il fiato. La testa ancora arcaica, tutta imperlata di ricciolini. Il corpo, un poco flesso sul fianco sinistro sul quale sono rimaste tranciate delle dita. È di una bellezza conturbante, con il fluire della lunga tunica di lino, dalle mille piegoline mosse come le onde, dietro cui fantasmano membra morbidamente muscolose. Che gesto elargivano le braccia, ora due moncherini? Mentre il braccio sinistro era chiaramente piegato sul fianco, come di chi riprende fiato dopo una fatica esaltante, che cosa faceva il destro? Penso che si ponesse sul capo la corona trionfale. È, nell’atto, l’apice luminoso della vita, quante volte cantato da Pindaro… Dimentica l’uomo, quando è felice, Hades. Ne abbiamo mai vissuto uno simile? Ripenso a certi miei momenti inebrianti, ma così modesti di fronte a questo giovane indiato… La gloria è tutta sua. E tuttavia, io di carne lui di marmo, siamo entrambi due forme di marzapane per i denti d’acciaio del Tempo. Lui, già rosicchiato abbastanza. Sovranamente impassibile.
Sei una colonna umana, che potente,
anche rotta, testimonia i tuoi fasti.
È ridotto il tuo gesto altero a niente,
ma più bello è il tuo enigma per i guasti.
Con il corpo di forze melodioso,
quelle dita mozzate sopra il fianco,
appari nel momento più radioso
della vittoria, beatamente stanco.
Del vivere, quell’ora fu la vetta,
ma tu al meschino demone non cedi
di farne qui una posa da operetta:
di riavere ricusi braccia e piedi.
Tale del disinganno, o Ignoto, è il prezzo
che il tempo dal tuo trionfo ha riscosso,
e nell’eroso volto ostenti sprezzo
per un agire ormai da lucro mosso.
A quest’età volgare tu nemmeno
volgi lo sguardo di purezza cieco,
vedi il destino, in fondo a te, sereno
di un esistere eroico, che fu greco.
A te chiedo in silenzio, a me in silenzio
rispondi: Non curarti della gloria
di un’ora, che lascia in bocca l’assenzio,
ma è nella morte viva la memoria.
Stanchi e stracchi, perfetta famigliola di turisti, lasciamo il resto dell’isola al suo cicalante mistero estivo. Prendiamo quasi al volo il traghetto. Il ritorno è più gradevole, si è alzato il venticello che annuncia la sera. Ci scambiamo sorridenti parole di un’esperienza che già si fa ricordo. Al minuscolo bar vicino all’imbarcadero (già insediata la coppia di francesi) beviamo finalmente, saziatamente, acqua fresca e frizzante, con una tonda fetta di limone: dorata come il sole, ora solenne e basso sopra Mozia. Vicina e così distante. Mai così bella.
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