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Arte come malattia in "L’ignorante e il folle" di Thomas Bernhard
31 Marzo 2008
 

Svanito il suo sogno di diventare cantante per via di un’infezione polmonare, contratta a diciotto anni e contro la quale combatterà per tutta la vita, Bernhard fa della musica una delle colonne portanti della sua produzione narrativa e teatrale. Il romanzo in cui la musica è protagonista assoluta è certo Il soccombente (1983), dedicato al pianista Glenn Gould e alla sua perfetta esecuzione delle Variazioni Goldberg di Bach, mentre centrale nel testo per il palcoscenico La forza dell’abitudine (1974) è il Quintetto della trota di Schubert. Ma la musica è onnipresente nell’opera di Bernhard, e l’autore da lui prediletto è Mozart. Già nel suo secondo copione, andato in scena in occasione del Festival di Salisburgo il 29 luglio 1972 per la regia di Claus Peymann, L’ignorante e il folle, Mozart e il suo Flauto magico costituiscono l’evento su cui s’impernia l’azione, che in Bernhard, paradossalmente, è sempre di una staticità sconcertante. La protagonista femminile del copione è, infatti, una soprano di coloratura che interpreta il ruolo della Regina della notte in quest’opera lirica che, a detta di Bernhard, è la più importante in assoluto della produzione melodrammatica mondiale.

L’ignorante del titolo è il padre della cantante, un anziano quasi cieco e alcolizzato, che, mentre aspetta da oltre due ore l’arrivo della figlia nel suo camerino a teatro, angosciato dal terrore che la soprano non arrivi in tempo per entrare in scena, subisce gli sproloqui di un noto anatomopatologo, il folle, che lo investe di un fiume di parole, descrivendogli con minuziosa precisione scientifica come si proceda all’autopsia di un cadavere e alternando questa sua lezione sul processo di lavoro in un obitorio con osservazioni sull’arte, il teatro e in particolare il teatro d’opera. Il medico, che non manca di lanciare strali velenosi contro l’incompetenza e l’approssimazione dei suoi colleghi, si fa in questo modo interprete della convinzione di Bernhard che l’arte, per non soccombere alle energie distruttrici della natura e assurgere alla perfezione, deve diventare radicalmente artificiale, disumana.

L’ouverture è già iniziata quando la cantante, una marionetta priva di sentimenti ma dotata di un talento tecnico straordinario, arriva nel camerino; fra isterismi da diva che vanno dall’autoesaltazione al disprezzo di sé, la soprano viene vestita e truccata e si preparare ad entrare in scena, dove non sbaglia una nota e riscuote il solito, enorme successo.

La seconda parte del testo si svolge invece, dopo lo spettacolo, in un ristorante, dove si consuma uno dei molti banchetti letali con cui il graffiante scrittore austriaco conclude spesso i propri copioni. Durante la cena, la virtuosa, che all’inizio somigliava a un ingranaggio di precisione, assume tratti sempre più umani e, all’improvviso, decide, obnubilata da abbondanti libagioni, di rinunciare ai suoi prossimi impegni di lavoro e di partire per la montagna con suo padre, mentre il dottore prosegue nell’illustrare il sezionamento di un cadavere, in un crescendo ossessivo che si conclude con la recisione dei genitali. Il suo disquisire è interrotto in continuazione dalla tosse insistente della cantante, segno della malattia che ormai la mina e che le intaccherà proprio la voce. Quando il dottore è alla fine delle sue esaltate argomentazioni, sulla scena cala improvvisa la tenebra e la cantante conclude: «Disfacimento / nient’altro che disfacimento».

Ignoranza e follia diventano nel testo gli estremi di una valutazione dell’esistenza che è intesa come processo sempre adombrato dall’incombenza dalla morte. Il motivo del buio assoluto – una costante nella produzione di Bernhard, che non vede altra soluzione se non quella definitiva della totale Estinzione (1986), come s’intitola il suo ultimo romanzo – fu ragione di polemica nel 1972, in quanto la direzione del teatro di Salisburgo rifiutò di far spegnere nel finale anche le luci d’emergenza, adducendo motivi di sicurezza. Ne nacque un pubblico scandalo e le repliche furono sospese.

 

La messinscena del copione proposta in questi giorni dal Teatro dell’Elfo di Milano è del tutto convincente. Bravi gli attori: non solo Ferdinando Bruni (che con Francesco Frongia firma la regia dello spettacolo), il medico pazzo dalla recitazione concitata e dalla gestualità da esagitato, che spinge fino al ridicolo la sua maniacale professionalità; efficace anche l’interpretazione di Ida Martinelli, che ben sa rendere il passaggio della cantante da un’algida superiorità di macchina alla nevrotica fragilità della malata; e bravo anche Luca Torracca nel ruolo difficile dell’immancabile personaggio bernhardiano quasi muto, che sa sopperire al silenzio verbale, cui l’autore lo condanna mediante la logorrea del medico, con una mimica priva di cedimenti che sottolinea tutte le deficienze psichiche e fisiche del personaggio. Bella anche la scena, sia il camerino del primo tempo, con quel suo eccesso di panneggi, di fiori e di rosso, sia l’enorme mensa della seconda parte, altare blasfemo su cui l’arte consuma il suo estremo sacrificio.

 

Gabriella Rovagnati

 

 

Teatro dell’Elfo, Milano

dal 25 marzo al 20 aprile 2008

Ferdinando Bruni, Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Luca Toracca

L’ignorante e il folle

di Thomas Bernhard
traduzione di Roberto Menin
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli

una produzione TEATRIDITHALIA
prima nazionale


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