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Elisabetta Zamparutti. Io, vittima di un rancore che si esprime con tanta cecità... 
Significa che un problema irrisolto c’è
27 Marzo 2008
 

Nei giorni scorsi alcuni familiari delle vittime del terrorismo hanno polemizzato sulla mia candidatura nelle liste del PD in quanto “moglie” di Sergio d’Elia, e per altre pretestuose ragioni di opportunità.

Ho dedicato quindici anni alla campagna di Nessuno tocchi Caino, giunta pochi mesi fa allo storico pronunciamento dell’Assemblea Generale dell’ONU per una moratoria universale delle esecuzioni, oggi fiore all’occhiello del programma del Partito Democratico. Una manciata di persone è riuscita a far superare ostacoli burocratici che dall’Italia all’Europa, associazionismo abolizionista mondiale compreso, venivano frapposti al conseguimento di quel risultato. Ho vissuto la speranza, nonostante in molti mi dicessero che non potesse mai realizzarsi, di vedere affermato un nuovo diritto umano: quello per cui nessun cittadino può essere ucciso per mano della Stato.

Ma chiariamo una cosa: Nessuno tocchi Caino, grazie a quell’intuizione che ebbe Maria Teresa di Lascia, moglie di Sergio d’Elia, così forte da portare la stessa Chiesa cattolica ad adeguare la traduzione del passo biblico fino allora interpretato come “Nessuno uccida Caino”, esprime l’intangibilità della dignità umana, nella dimensione fisica come in quella civile.

Vi è in questo una concezione della giustizia che risponde al dettato della nostra Costituzione, per la quale la pena deve tendere alla riabilitazione. C’è di che riflettere.

E sarebbe bene farlo in questa campagna elettorale per comprendere come la classe politica intenda affrontare il tema della giustizia in Italia: se intende farlo calpestando i principi costituzionali, o nel rispetto degli stessi.

Perché mi pare ormai di tutta evidenza che le ragioni di opportunità avanzate per un caso specifico stanno in realtà avallando il restringimento di spazi di agibilità per tutti, addirittura per chi ha un legame affettivo, senza essere sposata, nato a 25 anni di distanza dai tempi in cui il suo attuale compagno ha partecipato alla lotta armata. E giungono addirittura a negarmi il diritto a candidarmi perché sostengo che la dissociazione politica dal terrorismo, più che il pentitismo, abbia inferto il colpo mortale a quel fenomeno, proprio perché – e non sono solo io a dirlo - i “dissociati” hanno operato dall’interno delle organizzazioni armate e senza un immediato tornaconto.

Tutto questo è gravissimo, e non sono disposta a tollerarlo in nome di un dolore che per i toni che assume, pubblici e ri-vendicativi, stento a considerare sinceramente tale.

Dico solo ai “professionisti dell’opportuno” che chi viola verità, onestà, diritto e diritti - lo faccia in nome dello Stato, del partito o del dolore personale - viola vite e identità altrui, e forse anche le proprie.

 

Certo è che quando il rancore si esprime con tanta cecità un problema irrisolto c’è.

Io milito nel Partito Radicale, primo ed unico partito ad aver, proprio negli anni di piombo, deciso di devolvere una parte del suo finanziamento pubblico alle vittime del terrorismo. E, allora, che si apra un dibattito serio sulle vittime di quegli anni e, più in generale, sulle vittime di oggi dello stato della giustizia, che rimane la grande piaga sociale del nostro Paese con gli oltre 10 milioni di processi pendenti tra penale e civile, centinaia di migliaia dei quali si chiudono ogni anno grazie a quell’amnistia strisciante e di classe che è la prescrizione, dove 58 detenuti su 100 sono incarcerati senza condanne definitive, e dove si deve attendere una media di almeno 5 anni per sapere chi è colpevole e chi innocente.

 

Elisabetta Zamparutti

Tesoriera di Radicali italiani

e candidata radicale nelle Liste del PD in Basilicata


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