“Il sangue dei sogni è verde” - dice un verso di Jiri Kolar –, verde scuro come l’acqua della Moldava sotto i ponti di Praga, come le sfumature nel vicolo degli alchimisti nel Castello o nel quartiere dall’atmosfera surreale di Mala Strana. Alla fine degli anni Sessanta lo studio di Koláø, ricorda George Fall, era al piano alto di un vecchio palazzo borghese nella città vecchia, vicino al fiume: cumuli di libri, “scritti magici” in arabo, latino, ebraico e tedesco e riviste nelle lingue di tutto il mondo si confondevano in una sorta di babele dei linguaggi. Era il materiale prezioso con cui l’artista travestiva e trasformava la vita, i suoni, le parole, le immagini e gli oggetti: una mela in legno o in marmo come supporto a creare - con la sovrapposizione di lettere ritagliate dalle pagine dei libri – un simbolo universale, riconoscibile da ognuno e da ogni cultura
A quell’epoca, poco dopo la primavera di Praga, Kolár aveva già cominciato da almeno un decennio a scrivere le sue “istruzioni”, componimenti ironici vagamente dadaisti, ispirati alle indicazioni per l’uso che si trovano sulle scatole di conserve o nei libri di ricette, cui corrispondono collage dello stesso genere: l’Abecedario rivoluzionato del 1963, segni e figure dell’immaginario storico collettivo, dallo stile gotico all’astrazione e al linguaggio pop; La tua città, tema che ha ispirato anche i suoi poemi; e il Libro ermetico del 1968, un volume chiuso ricoperto di carta e lettere che si ripetono in modo concentrico dal centro ai bordi quasi a seguire un tracciato magico. Nel giro di qualche anno le sue opere d’arte sarebbero state sdoganate e da Praga, città delusa e tradita dal sogno della democrazia, sarebbero partite verso l’Europa, in Francia e in Italia e poi negli Stati Uniti al Guggenheim Museum di New York. Ora le opere selezionate da Roberto Peccolo riaprono la questione intorno a un artista singolare per l’intelligenza con cui sperimenta tecnica e linguaggio. Il prezioso Touchez un sein – adieu de l’argent, 1952, interpretation collage, racchiude il processo associativo di immagine, storia, verso poetico che è alla base di quasi tutta la sua creazione di artista e di poeta. E poi Cailloux chantants – La linge I 1963, collage di oggetti e nodi su tavola; il collage con il mandala su cartoncino del 1967; e ancora Enseigne d’un vendeur des couvercles 1969, chiasmage di oggetti su tessuto.
“Affabile e colto”, come lo descrive oggi Arturo Schwarz che si lasciò sedurre dal mondo degli oggetti e della sua poesia, Koláø fin dai primi collage nel 1938 e nella parallela creazione letteraria scopre e rende visibile a tutti il mondo in cui si vive, e persino noi stessi: perché l’artista è convinto che l’intento della poesia e dell’arte sia da ricercare nel “quotidiano, sgomentevole e stupendo dramma dell’uomo e della realtà”, nel “dramma del mistero che tiene testa al miracolo” mentre in Europa imperversano la guerra e la follia.
Prima di dedicarsi al collage e alla “pittura evidente”, per circa un ventennio Kolár ha scritto cantate, liriche, diari, manuali di poetica, prose, commedie e ha tradotto Whitman, Eliot, Sandburg. Da giovane ha provato mille mestieri: il falegname, il manovale, il guardiano, il cameriere; nel 1953 ha pagato con il carcere la libertà per le proprie idee. La difficoltà della vita a Praga nel secondo dopoguerra e qualche parallelo con il percorso biografico e artistico di Kolár si ritrovano nel romanzo di Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa: la fatica del lavoro in fabbrica, la descrizione della carta vecchia, i timbri della biblioteca prussiana, i libri rilegati in pelle e l’aria che luccica di margini dorati e di scritte; e ancora biblioteche di castelli e case borghesi, libri belli, rilegati in pelle e marocchino destinati al trasporto su carri merci verso la Svizzera e l’Austria. La cultura letteraria e artistica di Koláø si riferiva a Stéphane Mallarmé e poi a Max Ernst, Marcel Duchamp, Kurt Schwitters; ma, come per gli altri artisti e poeti che aderiscono alla Skupina, anche Paul Klee e il ceco surrealista František Janoušek (che muore nel 1943) sono figure cui ispirarsi.
La Skupina era un gruppo nato nel 1942 di cui facevano parte poeti, pittori, uno scultore, un fotografo e due storici dell’arte, Jíøí kotalík e Jindøch Chalupecký, che fece incontrare Arturo Schwarz e Koláø. I poeti e gli artisti della Skupina risentivano di un certo richiamo al surrealismo e in particolare ambivano al dialogo tra poesia e pittura: “Se non dicessi che la Skupina lasciò una profonda traccia nella mia vita, direi una menzogna – scrive Koláø -. Pose in effetti le basi di quello che faccio adesso. Fu il sodalizio più bello che io abbia vissuto e, se sono riuscito in qualche modo ad affermarmi in letteratura e in pittura, sempre più mi convinco che i miei problemi sono ancora quelli che tentammo già allora di risolvere”. Più tardi il colpo di stato della primavera del 1948 avrebbe sciolto e allontanato gli artisti della Skupina, ponendo una pausa di sospensione al progetto utopico che arte e poesia potessero essere testimoni diretti della vita.
Eppure il passaggio dai versi agli oggetti, surrogati di una vita sospesa tra realtà e sogno, tra banalità e metafisica, tra feticcio e idolo non sarebbe stato forse così fertile in Koláø senza l’esperienza accanto ai compagni della Skupina nei meandri magici e sinistri di Praga; ma la città cui si ispira il gruppo della Skupina è quella delle notti senza luce e con il coprifuoco a causa della guerra, è la periferia delle fabbriche fumose. E Koláø quando scrive della pittura di Lhoták o di quella di Hudeèek è un po’ come se si riferisse a se stesso, al “figlio della notte” per citare un suo verso; la città gli appare “come un suicida coperto di carta da imballaggio prima che giunga l’ambulanza”. É la metropoli sporca la cui esistenza grama dei sobborghi Koláø descrive nella raccolta Dny v roce (Giorni dell’anno, 1948): case povere, radio gracchianti dal volume alto, oggetti quotidiani senza dignità e il desiderio di riscatto “per un giorno almeno / ai pesci marci del vasellame / ai cadaveri dei mobili / ai granchi dei ritratti / al bestiame delle stufe / agli specchi”. E nel rapporto di interscambio con i feticci e con le nature morte, nelle sovrapposizioni dal collage al chiasmage (frammenti da carta stampata riuniti a formare motivi armoniosi e gradevoli) al rollage (ottenuto tagliando riproduzioni identiche in strisce regolari reincollate su una tavola in ordine diverso), Koláø rientra in possesso dell’immagine universale che strappa alla riproduzione in serie. Solo così sfugge ai confini culturali e linguistici della propria terra, da cui dipende anche l’uso delle lettere a livello visivo. “Il rapporto con la parola era molto stretto anche perché Koláø si riteneva un esiliato. La sua lingua era il ceco – sostiene Schwarz – e soffriva di essere escluso dalla grande letteratura. Koláø voleva impossessarsi della parola e trasformarla per farla diventare un oggetto. Era questo un modo per far proprie anche le altre lingue”. Nell’uso dei vocaboli (e forse anche nelle traduzioni dei poeti anglosassoni) e dell’immagine scelta e manipolata va ricercato il bisogno di Koláø di uscire dall’isolamento con il simbolo universale che è l’alfabeto. Tanto nella letteratura Koláø interpreta il lato squallido di oggetti mediocri, così nei collage e nella realizzazione delle opere mostra il lato poetico e magico della realtà di tutti i giorni.
Louis Aragon, testimonia George Fall nel catalogo di questa mostra che riunisce alcuni esemplari significativi dell’opera artistica di Koláø, restò profondamente affascinato dal percorso intellettuale dell’artista ceco, tanto da dedicargli oltre a un testo anche un numero monografico di Bibli Opus, la rivista edita a Parigi dallo stesso Fall. É l’inventario delle cose che altrimenti sarebbero destinate all’oblio ad animarsi di una nuova dimensione immaginativa che è poetica e spietata e che fa di Koláø uno degli artisti più singolari del secolo scorso. Lo sguardo che pone sulla realtà e quello che restituisce appartiene alla vita, ma resta sempre un passo indietro per essere conscio e capace di “rifiutare ogni contrasto con il mondo e con se stesso” come scrisse nel suo testo del 1965 Forse niente, forse qualcosa. Dagli oggetti di Koláø trapela un senso di morte e di finito insieme con un senso di eterna trasformazione. L’artista si sente vicino ai creatori consapevoli che il campo in cui si gioca la partita dell’arte non è né il privato né il pubblico, né il quotidiano né l’assurdo; sa che non è solo una questione estetica o simbolica e che l’ambizione è per la totalità (legata anche all’esperienza politica ceca) in cui privato e pubblico sono in stretta connessione così come “la politica e la poetica, la bellezza e la morte, la fantasia e la realtà, il sogno e il ricordo”. Queste annotazioni sono contemporanee alle Istruzioni per l’uso, cui si faceva cenno all’inizio; danno il titolo anche a una poesia, in cui sono evidenti le corrispondenze con la sperimentazione delle diverse tecniche (cui faranno seguito i testi comparativi e le poesie mimetiche):
Prendi un oggetto
che hai trovato
o sottratto
e riportalo là
dove lo hai trovato o sottratto
Và alla stazione
aspetta l’arrivo del treno
ed esci coi viaggiatori
come se fossi arrivato da qualche luogo.
Ancora un’altra ricetta sembra trovare riscontro nei ritratti e nelle immagini che con maestria assoluta Koláø sapeva restituire con un semplice foglio bianco e una macchina da scrivere (che lo porteranno a realizzare piccoli capolavori di poesia visiva):
Procurati carta da macchina
prendi un foglio dopo l’altro
e copri il tavolo
la sedia
il termosifone
il pavimento
tutto ciò su cui
può stendersi un pezzo di carta
sino a rendere bianca l’intera stanza
Poi adagiati sul posto residuo
copri te stesso
chiudi gli occhi
e col pensiero alla neve dell’anno passato
riposa un istante.
Dal catalogo della mostra alla Galleria Peccolo: Jiri Kolar, uan scelta di opere dal 1952-1993.
Con testi di Georges Fall, Rachele Ferrario, Jiri Kolar