Se nella passata puntata abbiamo trovato Vanni Schiavoni, diviso tra Roma e il Salento, per questa nuova restiamo nelle terre di Puglia incontrando Vincenzo Mastropirro.
Vincenzo Mastropirro nasce a Ruvo di Puglia nel 1960. Inquadrarlo con esattezza non è semplice, essendo artista poliedrico, costantemente immerso nella poesia come nella musica, nella composizione tramite parola o nella stesura su spartito.
Dopo la maturità nella scuola di Musica Comunale frequenta la classe di flauto al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari. Si diploma inoltre in musicologia e pedagogia musicale alla scuola superiore di Fermo (terra natia di un grandissimo poeta, Luigi Di Ruscio).
Da qui in poi è un salendo: suona Jazz con partecipazioni a festival in Italia, Germania, Francia e Inghilterra (e segnaliamo l’aver suonato nella prestigiosa Queen Elizabeth Hall di Londra) ed esibendosi in sale concertistiche a Milano, Palermo, Napoli, Madrid, Atene, Casablanca, Calcutta, Il Cairo, Salamanca, La Valletta, New Dehli, Bombay, Rabath, Chambery, Baghdad…(tutte le informazioni possibili sulla sua produzione musicale sono disponibili sul sito che ha creato, www.vincenzomastropirro.it)
Ma che c’entra la poesia?
La composizione musicale, l’interpretazione (sia in ambito classico, di ricerca o Jazz) non basta più: dapprima mette in musica poesie di altri ma qualcosa preme, deve trovare una voce, la propria voce.
La voce avviene con la pubblicazione nel 2007 di Nudosceno per i tipi di LietoColle editore sua opera prima di poesia, pubblicazione che arriva però matura alle stampe, con una voce definita e bene mantenuta e “testata” – se cosi vogliamo definirla – grazie a precedenti pubblicazioni in antologie.
I testi – come anche sottolinea Enzo Mansueto nel Corriere del mezzogiorno sono diseguali per ispirazione. Rimarco io: se da una parte la formazione musicale dell’autore influenza i testi creando una linea di connessione immediata e percepibile, dall’altra è qualcosa di più sottilmente attento al disagio dato dall’essere corpo/uomo. Non esistente scevro di errore come può essere una composizione, scritta, provata sino a cancellare qualunque disarmonia bensì intriso di una scelleratezza inconsapevole, una impossibilità di perfezione perché questa verrà data esclusivamente dall’errore e – strada facendo - dalla vita.
L’esistenza del corpo/uomo, seppure ancorata alla natura è fonte di continua imperfezione, esiste per una serie di “coincidenze”: il concepimento dapprima, come atto corporeo che salderà successivamente alla maturazione tramite l’uso dei cinque sensi (tatto, vista, olfatto, gusto, udito). La memoria genetica però e la memoria successiva, quella data dalla formazione portano con sé, necessariamente, un terzo bagaglio scomodo: le azioni. L’uomo è imperfetto perché agisce e non nascendo perfetto ma formandosi (come prima detto) strada facendo, compirà errori. La composizione della tragedia – per iscritto – avverrà tramite la scrittura di una partitura poetica, il libro appunto, dove ai primi due attori apparentemente primari (musica e uomo) si avvicenda uno sguardo attento alla terra, entità ospitante e contenitore di memoria. Osceno quindi è quanto viene compiuto e la successiva interrogazione: cosa è “scandalo” e quanto viene invece relegato ai margini solo perché motore che svela le ipocrisie della società corrente. E come le due polarità si invertono? (e per quale volontà?)
La silloge (prendendo a prestito il titolo di una composizione di Musorgskij) svolge per mezzo di quadri di un’esposizione o meglio detto, una esposizione che avviene per più rappresentazioni (quadri). Il lessico è a tratti violento, sanguigno, civilmente mosso a scavare senza perdono. S’infila il dito nella piaga, si indica poi la decadenza. Si indica quanto sia necessario anche il travestimento, la mimesi (come insegna Giampiero Neri) per dissimulare, cosa che avviene anche nei versi, a tratti con l’uso del vernacolo (in specifico è il dialetto di Ruvo di Puglia) o per mezzo di un verso frantomi che rinuncia quindi all’iperlirismo per una distensione fragorosa e stringata, ad una contraddizione tra il “tanto da dire” e l’uso parco del verso.
C’è – posso dire – una ricerca ultima di fede, un intreccio che trasmette il senso totale di sofferenza anche se a tratti i testi vengono minacciati da un eccessivo uso “dell’Io” (ma senza indulgere in egocentrismo), una declamazione “oraziana” che avviene grazie alla “capacità di tocco”, una presa diretta di quella partitura che conduce alla fusione tra poesia e musica, una chiave scelta – dal poeta – riassumibile in quanto scritto da Seamus Heaney: «nel tutto che scorre, nell’andare saldo del mondo».
Fabiano Alborghetti
Poesie tratte da Nudosceno (LietoColle, 2007)
*
Ricordati di me
ma dimentica il suono della mia voce,
la poltiglia dei miei occhi,
lo squallore della mia carne.
Fai emergere
il raffinato senso del pudore
chiuditi nelle tue braccia
e contieni quello che ti appartiene.
Il lasso di tempo a venire
distruggerà l’occasione.
La sagoma svanirà
tra confusione e rumore
nella densità del previsto.
*
Abito in un posto dove volano gli aerei
la discarica non lontano emana profumo
la mia testa vola con loro e si nutre di godimento.
Come è bello il posto in cui abito
la discarica è piena ma i bulldozer scavano
fanno monti d’immondizia e rassettano copertoni.
Vedo gli aerei come li vedono i vermi
insieme con essi mi inebrio di romantica follia
sappiamo entrambi della fortuna che ci tocca.
Non è uno spettacolo comune sapendo che
in altri buchi c’è gente che ci vive nutrendosi di vomito
si ciba a piùnonposso e gode della vita come nessuno mai.
*
I porci ingannano,
il loro sguazzare nel fango
è sintomo d’amore
è la loro felicità.
Provate a tenerli puliti
e non si riconosceranno più.
Le bestiole si accoppiano
per la fragranza del medesimo fetore
per l’unto della loro merda.
Noi, gli umani avvertiamo il disagio
ci profumiamo distinguendoci
ma è solo questione di marche, di mercato.
Puzziamo, non ce ne accorgiamo ma è così
noi sì che maleodoriamo
non ci rendiamo conto
di quanto facciamo schifo.
L’amore tra i porci è sano e duraturo
l’altro sprofonda negli spot.
*
Auspico la porta sbarrata
quando il prezzo della colpa
è troppo elevato.
Bussando più volte
lo spiraglio diventa spelonca
enorme cavità
dove incunearsi e
scoprire cose mai viste
meraviglie inconsuete.
Mi riterrò dannato
se non ti saprò felice
murerò la porta
pagherò caro il mio prezzo.
dall’antologia Istant Anthology, 100 poeti per raccontare Roma (G. Perrone, 2007)
Negli occhi miei rimbalza il vicolo arroccato
viuzza senza tempo che al tramonto scivola
sotto quel cielo rosso maturo come il fuoco
dove il calore estivo tutto può sospendere
lo sguardo cade indietro e il tempo si ricorda
del vicolo opulento ma scarno per la storia
le mille giravolte di un bimbo prepotente
i tavolini ai bar zuppi di cappuccio
È Roma che alla sera con i tedeschi in brache
nell’afa di quel luglio chiamò la sua frescura
che invano arrivò e mai arriverà
è l’ora del rimpianto per la città di sempre
quella dei miei sogni di quando ero bambino
quella che non c’è per via del mio rifiuto
quella del sogghigno per non averla amata
dall’antologia Logos (G. Perrone, 2006)
Stringi il cappio
intorno al collo di bottiglia
e mesci il liquido nero
nel bicchiere di un povero vecchio.
Oh, bimba
meraviglia oscena
sono vecchio,
lento e insicuro,
guardo
cum’ pass u’ timb...
il futuro non dà tregua
La vita che ti spetta
dilata il tuo spazio.
La vita che mi resta
non giova più a nessuno.
*come scorre il tempo…
Dall’antologia Poesie d’amore vol. IV (Aletti ed, 2007)
Il gioco dei potenti
è colmo di inquietudine.
Quando il mondo
scoppierà
sarai costretta a dirmi
t’amo.
Non sentirò.
La curva della mia spina
forerà il cemento
fino allo scontro frontale
prima del definitivo risveglio.