Ragionando di educazione si diceva che le comunità educanti si sono trasformate.
Colpa della globalizzazione, dirà qualcuno, che omogenizza tutto, o forse c’è una ragione più sottile. È il mondo dell’informazione che è cambiato e ha rotto gli argini territoriali e mentali.
Chi ha contribuito maggiormente è stata la TV che in Italia, dal 1954, ha portato nelle nostre case il globo terrestre, poi, dagli anni '80, è avvenuta la rivoluzione digitale, che ci ha condotto a una effettiva mondializzazione.
C’è chi sostiene di non avere più limiti nel campo dell’informazione e della comunicazione, ed è vero, dipende dal numero di strumenti che possediamo. Anche se occorrerebbe trovare una authority di controllo su quanto circola sui siti. I libri, infatti, sono sottoposti al vaglio di persone autorevoli, chi controlla l’informazione web?
Molta parte del mondo ne è all’oscuro per mancanza di mezzi, ma i paesi occidentali sono tutti dentro la rete.
Questa globalizzazione, e prima ancora il mezzo televisivo, ha prodotto e continua a produrre idee anche molto diverse da quelle condivise nelle comunità antiche dove vigeva l’autorità che le riconosceva.
I valori della tradizione hanno perso gradualmente il loro senso assoluto, si sono relativizzati al gruppo, poi al singolo, quando capita di vederli estesi riguardano qualche strana comunità che è riuscita a mantenersi coesa.
Ciascuno è punto di riferimento di se stesso, quasi a dire che ciò che io penso rappresenta il pensiero, ciò che io sono rappresenta il mio mondo che diventa il mondo. Io divento il perno o l’ombelico del mondo.
Come si può ragionare di regole, di valori, di idee da far maturare ai bambini in crescita in un quadro così impostato?
La nostra filosofia di vita occidentale offre modelli irreali da imitare che forzatamente fanno emergere le crisi di identificazione se il modello diventa irraggiungibile.
La fatica dell’educare è palpabile.
Ad adulti così impostati corrispondono bambini che non sanno vedere oltre il loro naso, che non si accorgono degli altri loro coetanei, che diventano adolescenti centrati su loro stessi e futuri adulti con un grado molto basso di socialità, che pensano alla felicità come soddisfazione immediata di un desiderio o di un bisogno.
Molte volte l’adulto gioca il ruolo del bambino, per risultare simpatico, per non dire di no, per non fare fatica in un continuo scambio fra gioco e serietà. L’atteggiamento ludico di fronte alla vita diventa per molti adulti la condizione permanente.
Ma agli occhi degli adolescenti suscita reazioni di serietà proprio perché i ragazzi hanno bisogno di modelli di crescita. Ci si stupisce del perché i nostri ragazzi si abbandonano alla depressione, alle diete come regole, alle idee rigide e moralistiche piuttosto che alla trasgressione pura (alcool, sostanze, guida veloce, comportamenti sfrontati, violenza,…).
Eppure è lo stile di vita sociale ad essere strano. Diventa difficile trovare in molti adulti oggi attenzione, comprensione, assunzione di responsabilità, maturità e saggezza perché centrati su loro stessi e sui loro bisogni. Sembra non esista più l’età della maturità.
Infanzia e vecchiaia sono le età riconoscibili, il resto, il periodo di mezzo, è confuso. Ciò che era definito il momento produttivo della vita, con il rispetto dell’età, la biografia, il ruolo sociale, si è perso dentro una religione delle cose, del possedere, dell’apparire, all’insegna del gioco e dell’infantilismo scambiato per ottimismo.
È una trasformazione sociale non indifferente, questa nuova antropologia, forse sintomo di un declino civile. Le nuove generazioni che crescono su questo terreno dovranno fare uno sforzo in più per emergere e costruirsi un quadro di valori.
Ma ciascuna generazione ha compiuto il suo.
Fausta Svanella