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Ann Jones. La guerra contro le donne: una lettera dal fronte occidentale africano
11 Marzo 2008
 

Kailahun, Sierra Leone. Saluti da una zona di guerra che non è l’Iraq. E neppure l’Afghanistan. La sto sperimentando nell’Africa occidentale, dove ho sino ad ora lavorato con le donne in tre paesi confinanti, tutti recentemente dilaniati da guerre civili: Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio. Il disastro iracheno ha monopolizzato l’attenzione ed oscurato queste guerre “minori”, peraltro ora ufficialmente “cessate”, ma milioni di donne africane ne stanno subendo le conseguenze. Per esse, la guerra non è finita per nulla, e neppure se ne vede la fine in distanza. Questo è il reportage di guerra che non viene mai fatto veramente. Lasciate che vi spieghi.

Di sicuro ricordate i conflitti di cui parlo. La guerra civile in Libera si dispiegò in tre successive ondate, durando complessivamente 14 anni, dal 1989 al 2003. La guerra civile in Sierra Leone ebbe inizio nel 1991 quando i guerriglieri del Fronte rivoluzionario unito (FRU) della Sierra Leone, addestrati in Libera, invasero il loro stesso paese. La guerra attirò parecchi partecipanti, e durò sino al gennaio 2002, un decennio. In Costa d’Avorio, una guerra civile ebbe inizio nel 2002 quando i ribelli del nord tentarono un colpo di stato per rimuovere il Presidente Laurent Gbagbo, ma questa volta la comunità internazionale ha deciso di agire prima che la regione venisse ulteriormente destabilizzata: intervennero i francesi, poi altri africani, ed infine i peacekeeper delle NU, ed un trattato di pace fu firmato nel 2003.

Perciò, ufficialmente, questi paesi non sono più “zone di guerra”. Accordi sono stati siglati. Forze di interposizione sono in servizio o a portata di mano. Le NU e le agenzie umanitarie internazionali stanno fornendo assistenza. Qualche arma è stata deposta. Qualche rifugiato è tornato dall’esilio. Alcuni uomini stanno facendo mattoni di fango e costruendo capanne per rimpiazzare le case spaziose di cemento, con le loro tegole, che una volta erano fruibili nei villaggi di tutta la regione. Ufficialmente, Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio sono ora designate quali “zone post-conflitto”, ma sono paesi così frantumati, così traumatizzati e, in special modo Sierra Leone e Liberia, così devastati ed impoveriti che entrambi non possono dirsi al sicuro e in pace. La Sierra Leone ha rimpiazzato l’Afghanistan come paese più povero del pianeta e, come l’Afghanistan, è una nazione di vedove.

Visitate uno di questi paesi e vedrete da voi che, al meglio, la pace prenderà un tempo assai lungo per manifestarsi. La devastazione del distretto di Kailahun in Sierra Leone è, per esempio, altrettanto scioccante di quel che ho visto a Kabul. Il termine “post conflitto” suona vagamente speranzoso, anche se è riferito ad un luogo disperato, impegnato in un difficile periodo di “ripresa” che potrà o non potrà essere riconoscibile fra un decennio o due, o persino dopo una generazione o due, come pace. È questo che i nostri politici non si curano di menzionare (è possibile che persino non lo capiscano) quando parlano di pace e guerra come se si trattasse delle due facce della stessa medaglia, ottenute con eguale facilità tramite un lancio a “testa o croce”. Qualsiasi idiota può dare inizio ad una guerra molto rapidamente, con un’aggressione come quella lanciata dall’aria da George Bush in Iraq, o dal FRU in Sierra Leone via terra: ma la pace non si acquisisce altrettanto facilmente.

Giusto il mese scorso, il Tribunale speciale per la Sierra Leone all’Aja ha ripreso il processo, iniziato lo scorso giugno, a carico di Charles Taylor, l’affascinante signore istruito negli Usa, ex presidente della Liberia. Taylor deve rispondere di 11 accuse per crimini di guerra, relative ad atti di terrorismo contro civili, omicidi, stupri, amputazioni, servitù sessuale e riduzione in schiavitù. Si tratta di atrocità commesse contro il paese confinante. Era Taylor a finanziare i “ribelli” del FRU mentre terrorizzavano la popolazione e rimpolpavano le loro fila con i rapimenti di civili. Pare che entrambi, Taylor e il leader del FRU Foday Sankoh (foto), abbiamo avuto aiuto tecnico dalla Libia, a cui farebbe comodo una destabilizzazione della regione occidentale africana. Pure queste guerre non hanno per la maggior parte a che fare con le ideologie, e neppure con la politica. Sono guerre di avidità, di potere e controllo e sfruttamento delle risorse naturali della regione: le foreste pluviali della Liberia, i diamanti insanguinati della Sierra Leone. Gli analisti politici e gli storici militari potranno eventualmente avanzare altre teorie per spiegare queste guerre, anche se dovranno fare una gran fatica per trovare qualsiasi istanza che le redima, una qualsiasi “giusta causa”. Gli africani vi diranno che esse accadono perché “uomini assai malvagi” anelavano potere e ricchezze.

Comunque, ecco quel che volevo ricordarvi: quando pensate a questi uomini che danno inizio a guerre, ricordate che non si tratta di guerre combattute da due opposti eserciti, sono guerre alla popolazione civile: e in special modo alle donne. Oggi sono i civili a contare il maggior numero di vittime di guerra. Ogni conflitto che si è succeduto, in tempi recenti, ha aumentato le percentuali di civili esiliati, profughi, assaliti, torturati, feriti, mutilati, scomparsi o uccisi. In ognuna di queste guerre moderne, la maggioranza dei civili che soffrono sono donne e bambini. E vengono contati, se vengono contati, meramente come “danni collaterali” (è il caso dei 3.000 innocenti cittadini che morirono durante il primo bombardamento Usa sull’Afghanistan nel 2001). Nelle guerre dell’Africa occidentale, i civili sono diventati i bersagli primari. Foday Sankoh intendeva conquistare la Sierra Leone, ma avendo all’inizio solo 150 combattenti, si diede al reclutamento forzato. Come le forze di Charles Taylor in Libera, Sankoh ha distrutto interi villaggi, uccidendo la maggior parte dei residenti e portandosi via quelli che gli servivano come soldati, facchini, cuoche e “mogli”. Di nuovo, la maggioranza degli uccisi e dei rapiti erano donne e bimbi. Ed eccovi una verità poco conosciuta: quando ogni conflitto cessa ufficialmente, la violenza contro le donne continua, e spesso addirittura peggiora. Quando gli uomini smettono di attaccarsi l’un l’altro, le donne continuano ad essere bersagli convenienti. Qui nell’Africa occidentale, come in numerosi altri luoghi dove lo stupro è stato usato quale arma da guerra, lo stupro è diventato un’abitudine trasportata tranquillamente nell’era “post conflitto”. Dove le normali strutture della legge e della giustizia sono state rese inabili dalla guerra, i soldati e i civili maschi possono predare su donne e bambini impunemente. E lo fanno.

Perciò vi sto scrivendo, nell’Africa occidentale “post conflitto”, da quella che è una zona di guerra in corso. Sto scrivendo dal cuore, sto scrivendo della guerra contro donne e bambini. Sentite questo rapporto di Amnesty International. Descrive l’ultima delle guerre di cui parliamo, la relativamente breve guerra civile in Costa d’Avorio: «La portata degli stupri e delle violenze sessuali in Costa d’Avorio nel corso del conflitto armato è stata largamente sottostimata. Numerose donne hanno subito stupri di gruppo o sono state rapite e ridotte a schiave sessuali dai combattenti. Lo stupro si è accompagnato spesso a pestaggi e torture, incluse torture di natura sessuale, delle vittime. Tutte le fazioni armate hanno perpetrato e continuano a perpetrare violenza sessuale in impunità».

Human Rights Watch sottolinea che «i casi di abusi sessuali vengono scarsamente denunciati» perché le donne temono «la possibilità di vendette da parte dei perpetratori, l’ostracismo di famiglie e comunità, e tabù culturali». Il rapporto di Amnesty documenta caso dopo caso di ragazze e donne, dalle minori di dodici anni alle sessantenni, assalite da uomini armati. Il più recente rapporto di Human Rights Watch documento lo stupro di bambine di tre anni. Durante la guerra civile, donne e bambine sono state rapite dalle loro case, nei villaggi, o ai posti di blocco militari, o sono state scoperte mentre si nascondevano nelle boscaglie. Alcune sono state violate in pubblico. Altre sono state violate di fronte a marito e figli. Alcune sono state costrette ad assistere all’omicidio di mariti e genitori. Venivano portate agli accampamenti dei soldati, per essere tenute prigioniere assieme ad altre donne. Dovevano cucinare per i soldati durante il giorno, ed ogni notte venivano stuprate, anche da 30 o 40 uomini. Sono state picchiate e torturate. Alle donne che resistevano al trattamento poteva essere tagliata la gola di punto in bianco. Molte di loro sono state stuprate così incessantemente e così brutalmente (con bastoni, coltelli, canne di fucili, carboni ardenti) che sono morte. Molte altre si portano dietro ferite e dolore che dureranno ben oltre la fine della guerra. Molte che da bambine erano state sottoposte a mutilazioni genitali sono state letteralmente strappate in due parti.

Il rapporto di Amnesty freddamente dice: «La brutalità degli stupri frequentemente causa serie ferite fisiche che richiedono tempi lunghi e trattamenti complessi, incluso il prolasso uterino e fistole retto-vaginali, ingiurie che sono spesso accompagnate da emorragie interne od esterne e aborti». Nota anche che le donne di solito «non hanno accesso alle cure mediche di cui hanno bisogno». Alcune non riescono a star sedute, o a stare in piedi, o a camminare. Molte hanno contratto malattie a trasmissione sessuale, e l’Hiv. Nessuno è in grado di fare una stima su quante ne siano morte, e quante ne moriranno. E di molte non si sa ancora nulla: forse sono state trascinate oltre confine dalle milizie di delinquenti che tornavano a casa. Forse sono state uccise lungo il tragitto.

Storicamente, è da un lungo periodo che le donne vengono contate tra le “spoglie di guerra”, che si possono prendere in libertà, ma nella nostra epoca, grandi numeri di donne sono anche state pedine in deliberate strategie militari e politiche intese ad umiliare gli uomini a cui esse “appartengono” ed a sterminare il loro gruppo etnico (pensate alla Bosnia). Il rapporto di Amnesty traccia l’intero quadro della violenza contro le donne in Costa d’Avorio dal dicembre del 2000, quando delle donne vennero arrestate, stuprate e torturate alla scuola governativa di polizia di Dioula: perché le loro presunte appartenenze etniche e politiche le affiliavano all’opposizione. Secondo Human Rights Watch, questo non fu che uno dei casi incitati dalla propaganda governativa prima dello scoppio della guerra civile. Nessuno dei responsabili è mai stato portato davanti a un tribunale.

Nella vicina Libera, quando le ostilità cessarono nel 2002, un milione e quattrocentomila liberiani erano profughi interni. In circa un milione erano fuggiti all’estero. In un paese che conta tre milioni di cittadini, ciò significa una persona su tre. In circa 270.000 morirono: il 10% della popolazione. E di nuovo, i bersagli più facili sono state le donne. Uno studio dell’OMS del 2005 stima, ed è scioccante, che il 90% delle donne liberiane abbiano sofferto violenza fisica o sessuale; tre su quattro hanno subito uno stupro. In modo tipico, la fine della guerra non ha messo fine alla violenza contro le donne. Uno studio in preparazione dell’International Rescue Committee, l’organizzazione in cui sono attualmente una volontaria, si conclude con queste parole: «Mentre la guerra ufficialmente terminava nel 2003, la guerra contro le donne continuava». Più della metà delle donne liberiane intervistate è sopravvissuta almeno ad un’aggressione fisica durante i 18 mesi successivi al termine ufficiale del conflitto. Più della metà ha riportato un’aggressione sessuale nello stesso periodo. Il 72% ha testimoniato di venir forzata ad atti sessuali dai propri mariti. Tra le rifugiate liberiane in Sierra Leone, il 75% aveva subito uno stupro prima di lasciare il proprio paese: il 55% dei esse sono state nuovamente assalite nel nuovo paese. Quando finisce la guerra, per le donne?

Moltissime non guariranno mai dalle ferite che hanno subito durante la guerra. Le ho incontrate in Libera. Durante una visita che ho fatto a Kolahun, nella contea di Lofa County dove i combattimenti erano stati pesanti, una donna mi ha mostrato le sue cicatrici: una serie di linee orizzontali parallele che cominciano sotto un’orecchia e scendono verso la gola. Un guerrigliero dell’armata di Charles Taylor si teneva questa briciola di donna contro il petto e lentamente, centimetro dopo centimetro, le apriva la carne del collo in rivoli di sangue. Ma non basta. Gli uomini di Taylor le hanno rotto tutte le dita delle mani, che ora sono rivolte all’indietro o piegate ad angolature impossibili. Le hanno colpito la schiena con i calci dei fucili così pesantemente e così a lungo che ora ha un braccio ed una gamba paralizzati. Può ancora camminare, reggendosi su una gruccia di legno fatta in casa, ma questo le impegna il “braccio buono”, e non può reggere cose sulla testa, avendo perso la capacità di bilanciamento. Ha cinque bambini. Alcuni di essi hanno lo stupro come padre. I soldati l’hanno tenuta prigioniera per lungo tempo. Non sa dire in quanti l’abbiano violentata.

Nel piccolo villaggio di Dougoumai ho incontrato una donna a cui la gente si riferisce come alla “signora malata”. Giace su un letto, in una casa di una sola stanza fatta di mattoni di fango. Quando sono entrata ha fatto grandi sforzi per mettersi seduta, usando le mani maciullate per muovere le gambe inerti. Sua sorella mi ha raccontato che è stata rapita da una milizia che combatteva contro Taylor, e ha subito uno stupro di gruppo da dieci uomini. Le hanno picchiato la schiena con i calci dei fucili, evidentemente è una tecnica comune, e le hanno paralizzato le gambe. Non può camminare. Le hanno distrutto le mani. Non può reggere niente nei palmi, non può portarsi il cibo alla bocca, pettinarsi i capelli. L’accudiscono la madre e due sorelle, fortunatamente sopravvissute alla guerra. Le loro vite sono ora dominate dalle conseguenze della violenza fatta a questa donna.

Di recente, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie e il Fondo NU per i popoli hanno censito le donne sopravvissute nella contea di Lofa, il centro delle operazioni di Charles Taylor. Più del 98% hanno perso la propria casa durante la guerra (1999/2003); più del 90% i mezzi per vivere; più del 72% almeno un membro della famiglia. Circa il 90% sono sopravvissute ad almeno un’aggressione fisica, più della metà ad almeno un’aggressione sessuale. Nessuno ha censito quante di esse sono ora disabili in modo permanente.

In Sierra Leone, dove il terrorizzare la popolazione civile è stata la principale tecnica di guerra, la violenza contro donne e bambine è stata persino più brutale. Tutte le parti in causa hanno commesso atrocità senza fine. I documenti ufficiali riportano crimini indicibili: padri costretti a stuprare le proprie figlie, fratelli costretti a stuprare le proprie sorelle, soldati-bambini che stuprano in gruppo donne anziane e poi tagliano via le loro braccia; donne incinte sventrate vive, e il feto estratto dal grembo per soddisfare le scommesse dei soldati sul suo sesso.

Un ragazzo viene ucciso a colpi d’accetta e sventrato; il suo cuore e il suo fegato sono dati in mano alla sorella di 18 anni e le si ordina di mangiarli. La giovane si rifiuta. Viene condotta in un campo dove sono prigioniere altre donne, fra cui sua sorella. Assiste all’omicidio della sorella e di altre prigioniere. Mano a mano che le decapitano, le tirano in grembo le loro teste.

Questi delitti, che violano tabù primordiali, mirano a distruggere non solo le vittime individualmente, ma un’intera cultura: nella maggior parte dei casi, le vittime sono donne e bimbi. Forse il peggior crimine degli “uomini assai malvagi” è stato trasformare i bambini, in maggioranza i maschi, in guerriglieri armati, “malvagi” quanto loro. Nella sua nota autobiografia A Long Way Gone, Ishmael Beah descrive vividamente la sua esistenza come soldato-bambino. Separato dalla propria famiglia per la guerra, viene catturato da effettivi dell’esercito della Sierra Leone, addestrato a combattere, tenuto “su” con droghe (come tutti gli altri soldati) e forzato ad uccidere. Quando i ragazzini cominciano a stuprare bimbe e donne su istigazione degli uomini, la civiltà è crollata.

In questi anni ogni tipo di orrore è stato inflitto alle bambine e alle donne in Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio, per il loro essere femmine. Se le femmine fossero un particolare gruppo etnico, diciamo albanesi, o tutsi, o se fossero identificate con una religione particolare, come i musulmani bosniaci, riconosceremmo quello che sta capitando come “pulizia di genere” o “femminicidio di massa”. Ma noi non parliamo dei crimini commessi contro le donne in questo modo. E quand’è l’ultima volta in cui avete persino sentito nominare i crimini contro le donne?

Intervistato dalla tv per un documentario sugli stupri di massa nella Repubblica democratica del Congo, un sorridente guerrigliero dice che sì, ha “fatto l’amore” con numerose donne. L’intervistatore chiede se le donne erano consenzienti, e il guerrigliero scoppia a ridere. Ammette che molte oppongono resistenza e, ancora sogghignante, aggiunge: «Se sono forti, chiamo i miei amici ad aiutarmi». Nonostante gli eufemismi che usa, quest’uomo sa esattamente quel che ha fatto e fa. Quando l’intervistatore dice che il suo “fare l’amore” è stupro, il guerrigliero ripete più volte che ciò accade in tempo di guerra, e che quando la guerra sarà finita lui non lo farà più. Lo stato di guerra scusa i crimini commessi dagli uomini contro le donne perché lo stupro, dicono loro, è qualcosa che succede “naturalmente” in guerra.

La guerra contro le donne nell’Africa occidentale e ovunque è diversa dalle altre guerre, siano esse mosse da ideologia, politica, avidità o ambizione personale: ogni fazione, ogni parte in causa fa guerra alle donne. Tutti rapiscono donne, stuprano donne, costringono donne al lavoro coatto. Tutti uccidono donne. In Sierra Leone, solo le Forze di difesa civile sono si sono astenute dagli stupri per un tempo considerevole. Si trattava di cacciatori tradizionali, reclutati dal governo affinché difendessero le loro stesse zone dai ribelli. I loro costumi indicano che un guerriero deve astenersi dal sesso, se non vuol perdere il proprio potere, e operavano vicini a casa, dove erano conosciuti. Ma con il perdurare della guerra iniziarono anch’essi ad agire come tutti gli altri combattenti. L’astenersi iniziale resta importante, ad ogni modo, perché offre l’evidenza che lo stupro non è qualcosa che “capita” in guerra, ma una scelta. Nel cosiddetto dopoguerra, persino alcuni peacekeepers internazionali si sono uniti alla guerra contro le donne. Human Rights Watch ed altri hanno documentato i casi di stupro commessi dai soldati delle forze di interposizione nell’Africa occidentale, e nessuno di essi è stato perseguito. I perpetratori sono stati semplicemente rimpatriati o spostati da un’altra parte. Human Rights Watch riporta anche come pratica diffusa fra i peacekeepers il servirsi di bambine che si sono date alla prostituzione per sopravvivere. (Ci sono poche altre opzioni per queste bambine, che sono già state usate come schiave sessuali durante la guerra). Qui nel distretto di Kailahun, il luogo in cui la guerra in Sierra Leone è iniziata e terminata, le donne sono furibonde per gli abusi commessi sulle loro figlie adolescenti. I genitori, in questa parte del paese, sono per lo più vedove di guerra e prendono sul serio l’invito a mandare a scuola le loro figlie, scuola che costa sempre più di quanto potrebbero permettersi. Se una studentessa resta incinta, la si caccia da scuola. Considerate l’impatto su un villaggio che stia tentando di riprendersi dalla guerra, e deve avere un’insegnante, un’infermiera, un’assistente sociale in meno. Se il padre del nascituro è un altro studente, costui può continuare i suoi studi e negare qualsiasi responsabilità. Spesso, tuttavia, non sono gli studenti a dover essere biasimati. Molte ragazzine ancora vergini lasciano prematuramente la scuola per sfuggire ai loro insegnanti, e le donne riportano che la percentuale di gravidanze di adolescenti cade a picco quando le forze di peacekeeping lasciano la zona. E comunque gli stupri di donne e bimbe continuano, quasi del tutto liberamente. È difficile indicare i numeri, perché coloro che subiscono violenza provano di solito vergogna a denunciare i fatti: in guerra è stato più facile, perché era chiaro che venivano forzate da uomini armati; ma con la guerra “finita” lo stupro torna ad essere una colpa delle donne. Le madri, come dicevo, sono però furibonde, e continuano a denunciare sempre di più le violenze subite dalle figlie. Qui nel distretto si sono mobilitate per costringere la magistratura locale ad occuparsi del caso di una bimba di sette anni vittima di violenza sessuale. Il magistrato, che pare sia parente del reo confesso, continua a prevenire il processo posponendolo, ancora e ancora.

Violenza domestica, stupro maritale, abusi, torture, deprivazione economica: tutta roba comune. Donne immiserite dalla guerra, con parecchi bambini a cui dar da mangiare, sentono di non avere scelta se non quella di sopportare dei “normali” livelli di violenza. Ma, esattamente come in tempo di guerra, la violenza abituale invita il brivido dell’eccesso. Giusto ieri, nel distretto di Moyamba, un uomo ha ucciso la propria moglie e poi l’ha decapitata.

Perché gli uomini “assai malvagi”, agendo il terrorismo contro i civili, ottengono vantaggi che vanno al di là dell’immediata gratificazione dell’abuso di potere. Gli atti che infliggono terrore possono guadagnargli posti importanti nel governo. Quando le atrocità diventano sufficientemente orrende e cospicui, come la notoria amputazione di braccia e gambe in Sierra Leone, la comunità internazionale si muove per dare inizio al processo di pace. Usualmente, portano alla tavola dei negoziati tutti gli uomini “assai malvagi” che hanno causato così tanti guai, e li comprano con posti di potere nel nuovo governo ad interim o “transitorio”. È testimone di ciò un’altra parte del mondo in cui le donne vengono trattate malamente: tutti i ben conosciuti signori della guerra che il popolo afgano voleva portati davanti alla giustizia sono stati messi insieme nel gabinetto del Presidente Karzai e, dopo le cosiddette elezioni democratiche, siedono in Parlamento.

Da negoziazioni di pace similari, Foday Sankoh è emerso come capo della commissione governativa incaricata della gestione delle risorse naturali della Sierra Leone, inclusi i diamanti che hanno finanziato la sua guerra. Charles Taylor, nel mentre ordinava saccheggi e stupri nei campi profughi, è stato eletto Presidente della Liberia. Sembra quasi che gli elettori abbiano pensato, come spesso fanno le donne vittime di violenza domestica, che il miglior modo per fermare la violenza di quest’uomo fosse lasciarle spazio, sebbene la direzione di questo sentiero sia il disastro.

Gli “uomini assai malvagi” sono svelti ad imparare dai rapidi successi dei loro fratelli in ogni parte del mondo. Laurent Kunda, riconosciuto nella Repubblica democratica del Congo come il principale candidato ai processi per crimini di guerra, sta ora contrattando la consegna delle armi con un posto nel governo. L’attuale svelto precipitare del Kenya nella “guerra tribale” deve molto alle stesse teorie: Raila Odingo, avendo perso delle elezioni presidenziali chiaramente fraudolente, usa la violenza genocida con la prospettiva che l’intervento internazionale lo rimetta sulla sedia presidenziale facendolo entrare dalla porta posteriore. Sebbene la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle NU chiami all’inclusione delle donne in tutti i processi di pace è molto raro che esse vengano invitate ai tavoli.

Qui nel distretto di Kailahun le donne raccontano la storia, probabilmente apocrifa, di una vecchietta che fu sorpresa accanto al suo fuoco per cucinare dai ribelli del FRU che stavano invadendo il suo villaggio. La circondarono, guardarono dentro la pentola, ed uno di essi disse: «Siamo combattenti per la libertà del Fronte Rivoluzionario Unito. Siamo venuti a salvarti dal governo». L’anziana, per nulla impressionata, replicò: «Allora dovete andare alla capitale. Il governo non sta nella mia pentola». Le donne del distretto di Kailahun continuano a raccontare questa storia, e ridono, ridono. Sono così orgogliose di quella solitaria, coraggiosa vecchia che chiuse le bocche ai ribelli. È lo spirito della sopravvivenza, che vive e ride in loro, sebbene debbano sapere che con ogni probabilità i ribelli uccisero l’anziana, e mangiarono il suo pranzo.

 

Ann Jones

(per The Sunday, 17/02/2008 - Trad. Maria G. Di Rienzo)

 

 

Scrittrice e fotografa, Ann Jones sta lavorando come volontaria con l’International Rescue Committee ad uno speciale progetto contro la violenza di genere dal nome “Crescendo globale: voci di donne dalle zone di conflitto”. È l’autrice di Kabul in inverno: vita senza pace in Afghanistan, Metropolitan Books, 2007.


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