Quando alla fine degli ’80 andai a trovare a Roma alla casa generalizia dei Gesuiti padre Antonio Baragli - studioso di comunicazione ecclesiale - per avere da lui lumi per la mia tesi all’istituto di Scienze Religiose dell’università di Urbino [tesi interdisciplinare su la Comunicazione nella e della Chiesa, edita da Marietti col titolo Comunicazione: crisi della Chiesa?, Genova 1991], la prima cosa che mi disse fu questa, lapidaria: «per me – sappia bene – l’opinione pubblica nella Chiesa non esiste e non deve esistere». Non l’ho più rivisto, ma lui recensì il mio libro su Civiltà Cattolica con una nota non certo gratificante. Oggi a distanza di un quarto di secolo posso dire che l’impostazione baragliana è ancor’oggi l’impostazione della Chiesa, anche se sono trascorsi così tanti anni ed è passata così tanta acqua conciliare sotto i ponti della storia ecclesiale. Il concetto di opinione pubblica nella Chiesa non ha sfondato e ci ritroviamo ogni volta a rileggere le stesse cose sia in chiave teologica, sia in quella pastorale come pure sociologica e magisteriale, seppur con i dovuti aggiornamenti. Ma il nodo è sempre lì stretto tra le buone intenzioni e i buoni strumenti dove però mancano gli ‘spazi’ reali del contendere… Si dice che è “fuori discussione” che l’opinione pubblica “possa” esistere e che se ne “debba” tenere di conto, senza identificare l’opinione pubblica con il sensus fidei, senza togliere la parola nella Chiesa. Semmai affermare che “tale diritto è ben più radicale”. Invece il sociologo Diotallevi è più possibilista e dice che la Chiesa «può» avere un’opinione pubblica interna. Rusconi sembra rispondergli dicendo come non sia utilizzabile un concetto ‘democratico’ come opinione pubblica per un’istituzione che democratica non è. Uno che coglie invece il problema di fondo è Enzo Bianchi – proposto da Zanacchi – che dice: «Abbiamo nella Chiesa grandi raduni, incontri imponenti ma non il confronto interno, né un’opinione pubblica; ancora adesso alcuni hanno paura di parlare di esprimere il proprio dissenso. Tutto ciò impedisce quella libertà che farebbe percepire agli altri (aggiungo io – agli ‘esterni’ –) che il vivere cristiano è una buona notizia». Ma anche per dire questo – che dice Bianchi – occorre una buona dose di libertà sia personale sia rispetto al suo vescovo… Ecco, il vero problema!: “la libertà nella Chiesa”.
Quanto siamo liberi di dire quel che pensiamo dentro gli ‘spazi’ della Chiesa cattolica?
Di documenti se ne forgiano ancora tanti dalle cattedre ecclesiastiche – vedi pure l’ultimo Direttorio “Comunicazione e Missione” –, con tante belle parole come si riporta: «sincero scambio di opinioni tra i fedeli e i pastori» dove «tutti sono chiamati a esercitare il nativo diritto di esprimere liberamente le proprie idee […], con franchezza, ma anche con l’avvertenza di evitare atteggiamenti e interventi pubblici che possano nuocere alla verità, alla comunione e all’unità del corpo ecclesiale…»(!). Eccoci dunque al vero nodo teologico trattato dal teologo pisano don Severino Dianich, cioè al rapporto tra le componenti della Chiesa: magistero, teologi, popolo e dove e come questo rapporto viene esercitato. Dianich si premura di dare consistenza teologica al teologo dicendo che egli «non potrà mai dimenticarsi di essere un credente, di essere membro della Chiesa e di dover esprimere nelle sue parole, e soprattutto nei suoi atteggiamenti, la sua fede». Perché non sono solo i vescovi a poterlo e doverlo fare ma “ogni battezzato”. Il magistero però ha totale potere, mentre i teologi ed il popolo ‘dipendono’ da esso. Il magistero – in realtà – può essere ‘giustificato’ da tre parole: “si autodefinisce, si autogoverna e si autolegittima”. E di fronte a questo, tutto il resto discende. Non a caso Dianich ricorda la Dichiarazione di Colonia del 1989 – firmata anche da lui come da altri 63 suoi colleghi italiani e 165 stranieri –, quale critica teologico-pastorale alla conduzione della Chiesa Cattolica da parte di Giovanni Paolo II considerando il corso di Wojtyla come tendente a divergere dall’insegnamento conciliare diversamente interpretato. E conosco dei teologi che oggi come oggi si mangiano ancora le mani per aver sottoscritto quel documento che li ha ‘marchiati’ e quindi esclusi dall’essere nominati vescovi... Ed anche questo fenomeno – di teologi che divengono vescovi e vescovi che fanno i teologi – è il segno di un bisogno di chiarezza di ruoli nei rapporti infra-ecclesiali; ed anche un pericolo che alcuni vescovi ravvisano in alcuni teologi, di un “magistero parallelo”. Però non bisogna dimenticare come pure – dall’altra – vi sia una certa sudditanza verso un episcopato che può condizionare una nomina, una carriera. Contrasti, conflitti, dispute più o meno sotterranee ed emergenti che fanno ravvisare in una diocesi e in una conferenza episcopale dei malumori serpeggianti che non trovano una chiara luce nella quale potersi esprimere e confrontare liberamente… perché “…uno solo è il Pastore e tutti voi siete fratelli…”. Sembra strano, eppure molto tempo fa è stato pubblicata la lettera apostolica “Il rapido sviluppo” (firmata in data 24/01/05 nella festa di S. Francesco di Sales, patrono dei giornalisti), in cui il Papa parla-va del “dialogo” e della “partecipazione” nel mondo dei mass-media in campo sociale. Strano perché questi due concetti che vengono indicati da parte del capo della Chiesa come prioritari, importanti, necessari per una vera convivenza nella società della comunicazione e dell’informazione della nostra società civile, in realtà non sono applicati né valgono realmente per la comunità dei credenti. Perché? Ed è Maurilio Guasco a darcene spiegazione: «è difficile trovare luoghi di vero dialogo e confronto», «è la gerarchia ecclesiastica che, in modo aperto o in privato suggerisce le linee da sostenere anche nelle cose opinabili», cioè pre-giudica e pre-costituisce tutto l’andamento ecclesia-le/-stico. Allora, noi teologi e noi fedeli in che Chiesa siamo? In quella pre-conciliare o in quella post-conciliare?: «Chi non si adegua al sistema [voluto dalla gerarchia], difficilmente trova canali ufficiali in cui esprimersi… corre il rischio di essere considerato uno che canta troppo fuori del coro, che non fa il bene della comunità, che contribuisce a creare problemi ai cattolici più disciplinati» – dice ancora Guasco. Non si può confondere l’“opinione pubblica” con il “dissenso”: infatti abbiamo molti che intervengono anonimamente sui giornali cattolici evitando di azzardare critiche perché altrimenti rischiano la certa “emarginazione” e di venire considerati “nemici” del vescovo, del papa, del parroco, cioè tacciati da “contestatori”. E perché succede questo? Non avremmo forse bisogno di essere accolti per come ciascuno di noi è e solo in virtù della comune Fede cattolica in Gesù Cristo che ci lega in un’unica comunità credente sia vescovi, preti e fedeli? Tutti coloro – singoli e gruppi, movimenti, associazioni – che dissentono, che avanzano critiche, che hanno da proporre qualcosa perché non hanno titolo nei vari luoghi dell’ekklesia? Perché non vengono ascoltati e considerati degnamente come persone e come battezzati? Quando si parla di “pastori d’anime” vuol dire comportarsi come Cristo ha fatto nella sua vita e come ce lo racconta attraverso le sue parabole… ma come mai non succede così? Perché Cristo è Cristo e i vescovi e i preti sono un'altra cosa, cioè dei discepoli-umani che cercano di ‘imitarlo’ sempre più e sempre meglio, ma che a volte sbagliano pure loro e non riescono a comportarsi come Cristo, obiettivo irraggiungibile... Ecco che oltre alla libertà occorre anche l’umiltà, la capacità di riconoscere – anche da parte dei vescovi – i loro errori e i loro sbagli e cercare con i fratelli nella Fede – preti e fedeli – di trovare insieme nella comunione e comunicazione l’aiuto reciproco a crescere nell’Amore di Cristo, cioè suoi imitatori. C’è bisogno di un’esigenza comune per tutta la Chiesa – pena il suo snaturamento e soffocamento spirituale –, cioè di avere più amore da parte dei suoi vescovi verso i fedeli e i teologi e cioè più veri spazi reali di dialogo, di comunicazione, d’informazione, di confronto, di comunione… con tutti al di là dei pregiudizi e delle etichette che ognuno può avere e che dà…
Come fare allora a ‘cambiare’ una gerarchia che si perpetua per lo più con questo stile e che non permette – nonostante tutti i documenti del mondo – a realizzare di fatto una Chiesa-dialogo, una Chiesa-comunicazione-comunione?
Sull’onda del Concilio, il Vaticano II, si sperava qualcosa in questo senso. Invece non è riuscito a smuovere abbastanza neanche dopo 40 lunghi anni… E i ripetuti dossier della rivista Vita Pastorale lo testimoniano. Ma non tutto è fallimento anche se la consapevolezza di questo stato lo tocchiamo con mano. E negli ultimi due decenni abbiamo visto richiudersi certe aperture conciliari, e far passare il “rinnovamento” e l’“aggiornamento” conciliari come mal interpretati e quindi combattuti come un tentativo pericoloso di “protestantizzazione” della Chiesa. Una linea neo-conservatrice di cui molti, sia vescovi, sia soprattutto teologi hanno avuto e hanno ancor oggi molta paura e si sono rifugiati nella propria intimità spirituale aspettando che questo ‘ciclone’ passi... o adeguandosi…pur di avere vita tranquilla e una sperabile carriera ecclesiastica…
Le alternative sono solo due. Entrambe non possono essere che il frutto della Grazia, cioè dono dello Spirito Santo, secondo la Fede: una nuova stagione della Chiesa è necessaria per ‘ricostruire’ nel senso più pastorale, spirituale e mistico possibile la comunità dei credenti in Gesù Cristo secondo la dottrina Cattolica; ed un nuovo Concilio mondiale ecumenico potrà far ritrovare il segno di Cristo Salvatore e Redentore nell’Amore e nella Comunione fra gli uomini del nostro tempo a partire dal loro cuore.
Piero Cappelli