Ho già parlato in una puntata precedente di che cosa mi attendevo da Papa Ratzinger: una rimessa in circolazione dei classici Ordini religiosi, da quelli più antichi, gli Ordini monastici, a quelli cosiddetti di vita mista, complessivamente gli Ordini del ’200, la cui caratteristica è riassumibile nel motto, per così dire, araldico: contemplare et contemplata aliis tradere, contemplare e trasmettere agli altri le verità contemplate. A proposito del contemplare, mi sovviene una frase di Dante, terziario francescano, e quindi appartenente al maggiore di quegli Ordini, che in un suo testo latino dice: può succedermi di tutto ma niente e nessuno potrà impedirmi di contemplare altissima vera, le altissime, profonde verità. Un sottile disagio percorre sotto pelle, e non mancherà prima o poi di farsi sentire, il corpo dei grandi Ordini religiosi. Parlo di Ordini, non di semplici Congregazioni, come si chiamano quelle, cosiddette di vita attiva, sorte dopo il Concilio di Trento. Disagio di fronte all’intervento dall’alto, che vieta loro ogni commistione con movimenti esterni, del tipo di quelli, mi pare di interpretare, legati alla classica marcia Perugia-Assisi. Non dubito: quei nostri confratelli sapranno dare un esempio di quel che significa il saper soffrire non tanto, o non solo, pour l’église, per la chiesa, ma anche par l’église, per mano della chiesa, secondo l’espressione del grande domenicano Clerissac.
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Nei miei anni milanesi, che costituiscono la parte centrale della mia vita anche pubblica, mi capitava quasi quotidianamente, di passare in Corso Venezia, l’antico Corso di Porta Orientale, quella da cui fuggì Renzo Tramaglino, sotto la casa dove aveva abitato per qualche anno il “cittadino d’elezione milanese” Henry Beyle, vulgo Stendhal. Una targa lo ricorda. Accanto ai due grandi romanzi più noti, La Certosa di Parma e Il rosso e il nero, mi piace ricordare il suo Voyage en Brianza, che ce lo rende più vicino. Ne Il rosso e il nero una delle protagoniste dice di un suo amante: «Alla prima debolezza che vedo in lui, lo abbandono». Un rigore emblematicamente moderno e distruttivo. Un vero amore si piega con tenerezza e ama anche, se non soprattutto, le debolezze dell’amato o dell’amata.
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Eterogenesi dei fini: che cosa vuol dire questa espressione da intellettuale? Una cosa – qualsiasi cosa – nata con un fine che ne produce un altro, magari opposto. Qualche esempio? Uno l’ho già accennato in una puntata precedente: il movimento, intendiamoci sacrosanto, di liberazione della donna, che finisce con un di più di esibizionismo, soprattutto telematico, cioè di un uso strumentale, del corpo femminile.
Altro esempio, un po’ frivolo sulla penna di uno del mio stato, l’uso eccessivo dei cosmetici per la pelle soprattutto da parte del mondo femminile (ma ormai sempre più anche maschile) che produce un progressivo indebolimento, e quindi precoce invecchiamento, della stessa.
È un tema sul quale non mancherò di ritornare. Penso all’uso del richiamo ai valori, o alla religione, per fini impropri.
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Mi capita, talvolta, di sognare ad occhi aperti. È una cosa, questa del sognare ad occhi aperti, che auguro a quelli della mia età. Aiuta a vivere i pochi anni che ci restano in modo non residuale. Allora, che cosa sogno? Una corale che si dedichi anche qui da noi, in modo impegnativo e costante, a riprendere e a rimettere in uso il grande patrimonio canoro e musicale che ha accompagnato per secoli la nostra vita liturgica, ponendo fine a un certo canzonettismo largamente invalso, per un malinteso uso o deriva, della riforma liturgica, in questi ultimi decenni.
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In occasione del trentesimo anniversario della sua fondazione, la benemerita Biblioteca Civica di Tirano ha organizzato un incontro nella sede di casa Arcari. Vari gli argomenti e gli oratori. Ha coordinato il tutto l’assessore alla cultura Bruno Ciapponi Landi. La direttrice emerita Paola Cattaneo ha parlato del primo Consiglio, di cui ebbi l’onore di far parte. Il mio nome, suggerito dall’opposizione di sinistra, creò qualche problema, spiegabile con i pregiudizi dominanti in quegli anni. Un colpo di genio dell’allora sindaco Maganetti, tipico della tradizione trasformistica del partito da cui proveniva, fu votare il mio nome anche da parte della maggioranza, ci fece uscire dall’impasse. Una parola meritano anche i due interventi di Ennio Galanga sui romanzi di Paolo Arcari e di Enrico Beretta sui rifugiati in Svizzera dopo l’8 settembre del ’43.
I romanzi non ebbero successo, a differenza dei saggi. La ragione, secondo me, è presto detta: i principi o petizioni di principio prevalgono nettamente sulla qualità del racconto. Sull’argomento brevemente affrontato, sulla base di alcune lettere di Arcari legate all’evento dei rifugiati in Svizzera dopo l’8 settembre, resterebbe tanto da dire, e molto è stato anche detto. Quella fu una vera e propria diserzione di massa, quale non s’era mai vista dai tempi dell’Unità d’Italia in poi: uno dei molteplici aspetti della Resistenza ricca, naturalmente come caratteristica del costume italiano, di casi personali. È ancora vivo qui accanto qualcuno che lo può raccontare di prima mano, per esempio Umberto Merizzi, che fu della partita, ancora vivo e lucido.
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, gennaio 2006)