Per gli amici che seguono la mia vicenda giudiziaria -e in particolare quelli francesi, spagnoli, portoghesi, belgi, olandesi, tedeschi, australiani, canadesi, statunitensi, inglesi, vietnamiti, israeliani, namibiani, congolesi, biafrani e, dulcis in fundo, anche per i sudditi dell’italica Colonia del Vaticano- comunico il resoconto dell’udienza che si è tenuta, ieri 21 febbraio 2008, dinanzi al Tribunale penale dell’Aquila, allestito in scrupolosa osservanza dello stile dei Tribunali della Santa Inquisizione, cioè con quello stesso criminale crocifisso che è oggi appeso sopra i giudici della Repubblica Pontificia Italiana e che, a suo tempo, troneggiò sopra i criminali giudici della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Il 21 febbraio 2008, mi sono presentato in udienza con una telecamera perché intendevo chiedere, nella mia qualità di imputato, l'autorizzazione a riprendere lo svolgimento dell'udienza penale, per far vedere poi agli amici che mi seguono “come” viene celebrato il processo a mio carico. Chiedere la videoregistrazione dell’udienza a mio carico è peraltro un diritto che mi viene garantito dalla legge.
Ebbene, prima ancora che i giudici entrassero nell'aula per iniziare l'udienza, un capitato dei Carabinieri della Procura della Repubblica -che mi permetto di definire, pubblicamente, come un vero gentiluomo ed una persona squisita, sperando di non arrecargli un qualche pregiudizio- si è presentato in udienza facendomi presente che doveva asportare e custodire (cioè sequestrare) la telecamera, per “ordine superiore”. Gli ho subito fatto presente che la telecamera era la mia e che mi serviva per fare le riprese: io, infatti, intendevo chiedere al Tribunale di essere autorizzato ad effettuare le riprese, non appena i Giudici fossero entrati in aula: se mi fosse stata sequestrata, come avrei potuto esercitare il mio diritto?
Mentre si stava discutendo su questa questione, sono entrati in aula i tre giudici e il Presidente, ancor prima che venisse chiamato il mio processo, ha ribadito al Capitano dei carabinieri l’ordine di sequestrare la telecamera perché la ripresa del processo “non era stata autorizzata”.
Sia io che i miei avvocati abbiamo ovviamente obiettato che il processo non era stato chiamato e che la domanda di effettuare riprese non era stata ancora formulata: dunque, non esisteva alcun provvedimento di rigetto della domanda.
Il Presidente replicava affermando, con una notevole dose di arroganza, che la domanda era rigettata. Gli si è allora ribadito che il processo non era ancora stato chiamato e che la domanda non era dunque stata fatta e che io intendevo farla. Senza neppure ritirarsi in camera di consiglio e senza neppure interpellare gli altri due giudici, il Presidente dichiarava, allora, che la richiesta di riprese audiovisive era respinta e che gli altri due giudici la pensavano come lui.
Piccola nota personale. Quando si tratta di processare i “mostri” Olindo e Rosa Romano, i “giudici” autorizzano centinaia di televisioni a riprendere il processo, anche contro la volontà degli imputati; quando la richiesta, però, proviene da un imputato che, come me, non ha nulla da vergognarsi, i giudici impediscono, senza fornire una briciola di motivazione, la ripresa dell'udienza: e questo per impedire che i cittadini si rendano conto che i giudici stanno processando non il vero “mostro”, cioè il Ministro di Giustizia, ma la vittima del razzismo della repubblica Pontificia Italiana.
Delirante è la circostanza che i giudici possano decidere se autorizzare o no le riprese, senza fornire giustificazioni plausibili del perché essi adottino pesi e misure diverse a seconda dei casi: questo è puro arbitrio, e l’arbitrio è la negazione assoluta della garanzia di imparzialità del giudice.
Archiviata questa questione, il Presidente del Tribunale aquilano ha esordito chiedendo come mai io fossi lì, in aula, e come mai fossero presenti i miei difensori, visto che nella precedente udienza mi ero allontanato ed avevo revocato la nomina ai miei difensori, perché non era stata accolta la mia richiesta di celebrare il processo senza il criminale crocifisso dei Tribunali dell’Inquisizione, che ancora oggi troneggia sopra le loro teste, o con l’apposizione dei miei simboli a fianco del crocifisso. Per quel che ho capito, il Presidente ha manifestato una sorta di rammarico per il fatto che io fossi lì a difendermi e che ci fossero anche i miei difensori di fiducia, presagendo quello che poi sarebbe avvenuto: e cioè che mi sarei difeso, mettendo alla berlina le Istituzioni razziste italiane e la Chiesa Cattolica.
I miei legali hanno respinto queste astruse contestazioni del Presidente, rappresentandogli che io avevo per iscritto revocato la nomina del difensore di ufficio il quale aveva pubblicamente dichiarato, anche sulla stampa, che, essendo cattolico, intendeva rifiutarsi per obiezione di coscienza di difendere un giudice che aveva chiesto di togliere i crocifissi dalle aule di giustizia.
A questo punto ho chiesto la parola per far presente tre questioni: la prima era che il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi alla precedente udienza sull'eccezione di nullità dell’udienza preliminare; la seconda era che il Tribunale aveva respinto la mia richiesta di rimuovere i crocifissi perché “non davano fastidio” ma, guarda caso, si era dimenticato di pronunciarsi sulla richiesta di esporre a fianco del crocifisso i miei simboli che, guarda caso, anch’essi “non davano fastidio”; la terza era un invito ai tre giudici ad astenersi dal processo se erano stati battezzati ed appartenevano ancora alla religione cattolica. Il processo a mio carico, infatti, implicava che essi dovessero preliminarmente decidere se la presenza dei crocifissi nelle aule di giustizia della Colonia del Vaticano fosse o meno legittima: i giudici cattolici, dunque, avevano un interesse personale nel mio processo perché, se mi avessero assolto, avrebbero pregiudicato in modo irreversibile il “privilegio” che viene tuttora accordato ai giudici cattolici dalla Repubblica Pontificia, cioè quello di avere sopra le loro auguste teste di cattolici soltanto il LORO simbolo.
Ebbene, il Presidente, senza ritirarsi in camera di consiglio e senza minimamente interpellare gli altri due giudici, ha respinto tutte e tre le questioni, affermando che nessuno intendeva astenersi e che, poi, il Tribunale non poteva autorizzare l'esposizione dei miei simboli, perché questo poteva essere fatto solo dal Ministro: motivazione, quest'ultima, tanto vera quanto irrilevante. In effetti, io non avevo invitato i giudici ad autorizzarmi ad esporre i simboli, bensì a chiedere al Ministro siffatta autorizzazione, provvedendo poi a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale solo se la stessa fosse stata respinta.
Uno dei miei avvocati, a questo punto, rappresentava al Presidente del Tribunale che il giudice dell'udienza preliminare aveva affermato che, se un legittimo impedimento dell'imputato a presenziare all'udienza si realizza dopo che egli è comparso, l'udienza può legittimamente proseguire perché l'imputato è rappresentato dal suo difensore. Questa affermazione -proseguiva il mio avvocato- contrastava col codice di procedura penale che disponeva in senso contrario, tant’è che, se egli fosse ad esempio caduto in coma, il tribunale avrebbe dovuto rinviare l'udienza.
Il presidente, allora, interrompeva il mio avvocato con questa obiezione, allucinante: «ma questa è un’ipotesi, che non si è realizzata!!». Al che il mio legale replicava: «ma potrebbe realizzarsi e, allora, il tribunale dovrebbe decidere se rinviare rinviare o meno il processo».
Di fronte a questa elementare obiezione, il Presidente se ne usciva con questa risposta che faceva imbestialire il mio avvocato fino al punto da indurlo a chiederne la ricusazione: «Avvocato, vuol dire che quando lei andrà in coma, noi decideremo!!!».
Volavano parole pesanti: il tutto non ripreso dalla mia telecamera, accortamente fatta sequestrare in via preventiva.
Il Presidente dichiarava di non volersi astenere ed invitava pertanto il mio avvocato a formalizzare la richiesta di ricusazione nei suoi confronti. Io invitavo il mio avvocato a non farlo, perché intendevo portare a termine il processo a mio carico (era già la quarta volta che ero costretto ad andare all'Aquila).
Passati alla fase dell'ammissione delle prove, il Pubblico ministero, guarda caso, rinunciava al suo teste di accusa, cioè il Presidente del Tribunale di Camerino Aldo Alocchi, e questo per evitargli le domande imbarazzanti alle quali sarebbe stato sottoposto dai miei difensori. Dal momento, però, che anche io ne avevo chiesto l'audizione, la sua richiesta di “soprassedere” all'audizione di questo teste non sortiva gli effetti sperati.
Iniziava, dunque, l'interrogatorio del Presidente Alocchi.
Al dr. Alocchi i miei avvocati ponevano le domande che io avevo scrupolosamente scritto, allo scopo precipuo di porre in evidenza quanto fosse stato contraddittorio e criminale il comportamento posto in essere nei miei confronti: io, infatti, ho subito una palese e criminale discriminazione religiosa da parte del Ministro di Giustizia e dei miei superiori i quali, non solo non hanno rimosso i crocifissi nelle aule dove ero costretto a lavorare, ma mi hanno vietato di esporre i miei simboli. Io non sono né un prete né un frate che ha fatto la scelta volontaria di frequentare chiese e conventi, dove vengono esposti i crocifissi. Io sono un pubblico funzionario che non può essere costretto dallo Stato italiano a frequentare aule giudiziarie nelle quali vengono esposti quegli stessi criminali crocifissi che vennero esposti nelle criminali aule giudiziarie dei criminali Tribunali della Santa Inquisizione della criminale associazione denominata Chiesa Cattolica e fondata da Dio in persona.
Ebbene, gran parte delle domande formulate per il teste Alocchi sono state vietate dal Presidente del tribunale, su opposizione del PM, senza nemmeno interpellare gli altri due giudici: e questo per togliere dall'imbarazzo il teste, che non avrebbe saputo a quale santo votarsi per fornire giustificazioni logiche o giuridiche del suo comportamento contraddittorio e discriminatorio.
Eguale sorte è poi capito al mio esame: dopo che io ho dichiarato, in pubblica udienza, che tra i motivi che mi spingevano a non tenere le udienze sotto il crocifisso vi era quello che non avrei mai tenuto le udienze sotto l'incombenza della svastica nazista e che, quindi e a maggior ragione, non intendevo tenerle sotto l'incombenza del vessillo della Chiesa Cattolica, cioè di quella che era stata ritenuta e che io avevo già definito in pubblica udienza, dinanzi al CSM, come la più grande associazione per delinquere e come la più grande banda di falsari che sia esistita sul Pianeta Terra, le domande successive venivano “stoppate” per evitare che io fornissi tutti i puntuali riscontri storici della criminalità della Chiesa Cattolica, citando le crociate, i tribunali dell'inquisizione etc.
Il PM ha iniziato ad interrompere continuamente il mio esame -cioè l'esame che mi permetteva di difendermi- e il Presidente del Tribunale ha accolto tutte le opposizione del PM, senza interpellare gli altri due giudici. Si è innescato un violentissimo diverbio tra uno dei miei difensori e il PM: diverbio che, grazie all'oculata e solerte censura preventiva del Presidente del Tribunale dell'Aquila, gli italiani non potranno mai ammirare. Ad un certo punto il Presidente ha addirittura interrotto il mio esame, “spedendomi” al mio posto.
È iniziata allora la discussione finale.
Il PM ha chiesto la mia condanna sulla base di questo ragionamento.
È irrilevante valutare se la motivazione del dr. Tosti di non tenere le udienze a causa della presenza del crocifisso sia o meno fondata, perché ciò che conta è che egli, di fatto, non ha tenuto le udienze e questo comportamento ha arrecato un disagio agli utenti che chiedevano giustizia. Se la presenza del crocifisso sia lecita o meno e se essa sia lesiva del principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione e, inoltre, dei diritti inviolabili del Tosti e dei cittadini italiani alla libertà religiosa e all'eguaglianza, sono dunque questioni del tutto irrilevanti, ad avviso del PM aquilano.
Non una parola, però, il PM ha speso in merito alla circostanza che io ho comunque manifestato la piena disponibilità a tenere le udienze sotto l'incombenza del crocifisso, purché il Ministro mi autorizzasse ad esporre i miei simboli a fianco del crocifisso. E non si tratta di circostanza secondaria, perché essa al contrario evidenzia che la responsabilità del presunto “disagio degli utenti” - che mi si vuole appioppare - è semmai da imputare al Ministro di Giustizia, “razzista”, che mi ha impedito di esporre i miei simboli.
Se al PM aquilano stessero realmente a cuore gli interessi dei poveri cittadini italiani, egli avrebbe dovuto incriminare il Ministro di Giustizia che, con comportamento arrogante e razzista, mi ha vietato di godere della stessa dignità e degli stessi diritti che la Repubblica Pontificia Italiana accorda alla Superiore Razza Cattolica Italiana. Se fossi stato autorizzato ad esporre i miei simboli, io avrei seguitato a tenere le udienze: se questo non è stato fatto, ciò è dovuto al fatto che la Repubblica Pontificia Italiana è razzista.
Ma di questo il PM aquilano non ne ha tenuto conto, perché se ne avesse tenuto conto avrebbe dovuto incriminare il Ministro Cattolico: e questo, in una Colonia Pontificia, non si può fare.
Che le motivazioni del mio rifiuto siano poi irrilevanti, è un qualcosa di aberrante, che neppure una persona completamente digiuna di diritto potrebbe concepire.
Se un chirurgo si rifiuta di eseguire interventi chirurgici perché la Direzione sanitaria si rifiuta di togliere dalla sala operatoria un crocifisso radioattivo, che pregiudica la salute e la vita del chirurgo e dei pazienti, solo un imbecille patentato potrebbe affermare che le motivazioni addotte dal chirurgo siano assolutamente irrilevanti, perché quello che conta è soltanto il fatto che i pazienti hanno dovuto subire dei disagi perché, a causa del suo rifiuto, essi sono stati operati da altri chirurghi!!!
Si tratta di un vero deliquio giuridico che, ovviamente, è stato accolto dal Tribunale dell'Aquila, che mi ha giustamente inflitto un'ulteriore condanna che, sommata alla precedente, porta ad un anno di reclusione ed un anno di interdizione dai pubblici uffici.
Il che, francamente, mi riempie di gioia e di orgoglio, perché ho così maturato i requisiti per candidarmi alle prossime elezioni politiche.
Sottolineo che questo processo è stato attivato su mie autodenunce e che, dunque, questa condanna non solo non mi scalfisce, ma anzi mi onora: altri quattro magistrati si sono uniti alla lista, già cospicua, dei magistrati che, a vario titolo, hanno condannato il mio comportamento, sia a livello penale che disciplinare.
Se a ciò si aggiunge che nella Repubblica Pontificia Italiana esiste un solo giudice - l’anonimo Luigi Tosti - che si rifiuta di calpestare la Costituzione Italiana e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, alla quale il Vaticano non ha potuto aderito perché contraria al suo regime liberticida, l’onore si trasforma in orgoglio: l’orgoglio di essere stato l’unico, in questa Colonia del Vaticano, che non a caso si colloca come fanalino di coda tra gli Stati membri della Comunità Europea, a lottare per questi valori.
Cari baciapile e cari sudditi del Vaticano, carissimi Veltroni, Berlusconi, Prodi, Fini, Bertinotti, Di Pietro, Santanchè, Storace, Mastella, Dini, Pecoraro, Ferrero e via dicendo, ci rivedremo a Strasburgo: cominciate, nel frattempo, ad inventarvi qualche trojata giuridica per convincere i Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che imporre ad uno sporco ebreo il crocifisso, e vietargli di esporre la sua menorà, non è un atto discriminatorio.
Carissimi Napoletani, smettetevela di sbraitare per la monnezza che vi seppellisce: i vostri beneamati Politici e il Vostro augusto Pontefice hanno dovuto lottare per altre incombenze ben più pressanti e prioritarie, e cioè per preservare la presenza degli idoli del Dio biblico incarnato nelle aule scolastiche, in quelle dei tribunali e in quelle degli ospedali. Sono stati spesi milioni per comprare centinaia di migliaia di idoli da esporre negli uffici pubblici: gli idoli non sono mica monnezza!
Perché non cominciate ad esporre sulle strade pubbliche, a fianco della monnezza, i crocifissi? Non lo sapete che “Dio vede e provvede”?
Amen
Luigi Tosti
(da Notizie radicali, 25 febbraio 2008)
(*) Il giudice Luigi Tosti chiede allo Stato italiano che vengano rimossi dalle aule giudiziarie i simboli religiosi per rispettare il principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.