Fabio, detto “Gnomo”, è l’unico sopravvissuto al drammatico incidente avvenuto in zona Prata Camportaccio, sulla statale 36, circa alle ore 23:00 il 19 febbraio 2008. Gli altri tre giovani: erano Elia Marinoni, nato nel 1986 e residente a Chiavenna, alla guida; Giacomo Martinucci, nato nel 1985, abitante a Prata Camportaccio, e Michel Curti classe 1987, anch'egli di Prata. Sulle dinamiche, dovute con tutta probabilità all’alta velocità, si esprimerà la polizia stradale. Il mio saluto riverente va ai tre giovani morti. Che però non conoscevo. Segreto terribile e oscuro è la morte. E abbisogna del silenzio, della compostezza anche impietrita, del capo chino nella mestizia. Non c’è altro da fare. Poco da dire. Tacerei se Fabio non fosse un mio studente. Anche se si è ritirato in Quarta ragioneria per andare a lavorare. L’ha fatto con serietà da adulto. Capito che il diploma di ragioniere non era nelle sue aspirazioni ha preferito cambiare radicalmente. E fare l’operaio. Ripeto: una scelta seria. Che non mortificava i genitori in vane attese e che non lo metteva in condizioni di mentire a se stesso sulla voglia scomparsa di proseguire gli studi. Ma Fabio Giacomini è rimasto mio studente lo stesso. Perché ha un talento incredibile per la genuina ironia. Con quel suo sguardo interrogativo, il naso all’insù, e i capelli chiari perennemente impomatati di gel. Assente nella classe è tornato spesso nelle mie “narrazioni” su di una mitica gita a Roma, l’anno della morte di Woytila, in cui fu protagonista di un’incredibile commedia degli equivoci in albergo. I suoi compagni di classe sanno. È esilarante. La racconteremo ancora quando tornerà a casa dall’ospedale di Lecco. Le notizie sono rassicuranti. L’ematoma è rientrato, ferite agli organi non ce ne sono. Uscito dal coma farmacologico ha stretto la mano alla madre. Queste informazioni mi vengono dalla mia classe: la V A Ragioneria, dove Fabio ha delle amicizie invincibili e generose. E un fratello in Andrea Aloisio. Una classe di gran cuore la mia Quinta. Davvero. Ne sono fiero. La solidarietà e l’umanità fino a sentire lo strazio nelle intime fibre per gli amici in pericolo di vita e per quelli morti è segno di grandezza d’animo.
Ma ora, dopo il dolore del funerale e l'angoscia di essersi misurati con l’evento della Morte, tutto non può rimanere come prima. Le autorità religiose e istituzionali e giornalistiche hanno espresso le loro umanissime considerazioni. Come altre volte. Credo che le parole del capo dei vigili di Mese, Claudio Persenico, racchiuse in una lettera, siano le più “utili” affinché la scuola imposti qualcosa di efficace in merito alle morti sulle strade. E da qui parto. La lettera-testimonianza (anche su questo giornale on line) racconta di un vigile, alle soglie della pensione, che la morte accartocciante le auto in corsa l’ha vista spesso. E prova mestizia nell’udire che questi eventi tanto reali quanto spettrali possano essere definiti, da qualche giovane, come un fatto di “sfiga”.
No. Non è così. Non può bastare!
Come insegnante, anche perché ne ho parlato con i miei studenti del Corso Ragioneria, provo ad aggiungere qualche considerazione. Alcune saranno scomode. Scelgo di affidarmi ad un didascalico ABC.
A. Il mito del giovane con l’auto rombante, nato con il James Dean degli anni cinquanta, che con la Porche si distrusse in un albero, è diventato un modello di scanzonata follia. Di Massa. Su di esso, anche ben sapendo come i giovani, psicologicamente abbiano e vivano una sorta di “senso di immortalità” dato dalla loro giovane età, sono state costruite le fortune della case automobilistiche. Quest’ultime propagandano la somma assurda auto fiammante + velocità + successo… di fatto spargono un veleno comportamentale estremamente dannoso. La mitizzazione poi di airbag e barre rinforzate e freni speciali diffondono la convinzione, sbagliata, che non ci si ferisca. Mai.
Se ciò accade, se La Morte compare, se ghermisce, distrugge, annichilisce, è pronto il modello televisivo alla Maria De Filippi. Una coazione a mostrare i propri sentimenti, magari anche a spettacolarizzarli, ma senza eliminare o riflettere sulle cause di un disagio, di una follia, di scelte sbagliate e non umanamente accettabili per una comunità: come le corse oltre ogni regola su strade che pure hanno dei limiti di velocità, dei passanti, delle corsie dove transitano ignari viaggiatori. Nessuna strada anche la più perfetta può essere vista e praticata come un autodromo.
B. Migliaia di giovani, appena in età, si dedicano a prendere la patente. A studiare in modo forsennato i quiz. Di fatto lo studio scolastico in questi mesi cessa. È proprio necessaria tutta questa fretta? Non credo. Come non dovrebbe esserci fretta, da neo-patentati, di guidare auto assolutamente troppo veloci. E costose. Ma il modello di dedicare la propria vita all’auto diventa assolutamente preponderante. Su questo la Chiesa dovrebbe interrogarsi. L’auto nuova e veloce è un feticcio fra i più alienanti. Adorato come un vitello d’oro. La tecnica e la meccanica messa al posto dello spirito e del proprio essere. Se poi questo è parte integrante del modello occidentale di vita, come non pensare a una decadenza, da noi, di ogni valore.
Un cerchione in lega, un carburatore, vale più di un pensiero, di un libro, di un dialogo.
C. Il mito dell’auto porta con sé le corse, notturne. Anche per le strade della Valchiavenna. Ad orari assolutamente idonei: notte fonda. E per correre ci vogliono motori potenziati, benzine particolari. Ci sono officine che offrono questo servizio oppure è tutto un fai da te da parte di giovani che vogliono somigliare ad un meteorite?
Il mio auspicio è che questo sintetico ABC, che dedico al mio studente Fabio Giacomini, al quale conto di farlo leggere presto e con lui parlarne, serva a qualcosa. Ai tre giovani che ora riposano in un piccolo cimitero di montagna non posso che indirizzare un fiore di tristezza.
Claudio Di Scalzo