IL VERO ASPETTO DELLE SIRENE
In un mondo dominato dalla pubblicità l’argomento non è ozioso, e specialmente in periodo elettorale (ma quando non lo è in Italia?), in cui siamo frastornati da così tante Sirene. Ci si chiede: perché tormentarsi come Ulisse, ad ascoltarle legati alla sedia davanti allo schermo televisivo? Meglio turarsi gli orecchi e continuare a remare nella nostra barchetta familiare, passando davanti alla spiaggia delle Cantatrici, dove stanno ossificate generazioni di illusi. (Ma sì, andremo a votare, non temete…) E comunque, se la questione è motivo di indagine da tremila anni, di certo non è contingente.
È risaputo che nell’antichità le Sirene erano immaginate come tre uccelli con teste di fanciulle, e che solo con il mondo post-antico, in specie nordico, avrebbe preso campo la Sirena con il busto di donna e la coda di pesce, soppiantando la precedente. Non è del tutto vero. Orazio nella sua Ars poetica, naturalistica e quindi avversa a ogni metaforica commistione di uomo e animale, raccomanda ai versi 3-4: «Humano capiti cervicem pictor equinam / iungere si velit, et varias inducere plumas / undique collatis membris, ut turpiter atrum / desinat in piscem mulier formosa superne,/ spectatum admissi risum teneatis, amici?» Cioè: «Se a un pittore venisse in mente di attaccare a una testa umana un collo di cavallo e rivestire di penne variopinte membra raccolte da ogni specie di animali, sì che una donna bella nel volto vada a finire sconciamente in un brutto pesce; ammessi, o amici, a veder ciò, potreste trattenere le risa?» Perché nel mondo classico non esisteva solo la raffigurazione dell’uomo-pesce, Tritone, ma pure quella della donna-pesce, come talvolta sono rappresentate quelle Nereidi che suscitavano il riso di Orazio & Amici (epicurei, e poi illuministi, leopardiani, ecc.). Dal che si capisce che il politeismo era fradicio prima ancora che lo seppellisse il cristianesimo e che Giuliano l’Apostata fu, come intellettuale e politico, un sognatore fuori tempo massimo.
Per chi volesse approfondire l’argomento fornisco una bibliografia che più minima non si può. Il primo titolo: Meri Lao, Il libro delle Sirene, Di Renzo Editore, Roma 2000. Il libro della Lao è un’amorevole, gigantesca raccolta di informazioni che dall’antichità arriva ai giorni nostri, dal vaso attico all’accendino a forma sirenica. È come entrare nell’antro favoloso di un rigattiere in cui si trova di tutto e di più. Sorprende vedere come la Sirena abbia impregnato di sé tutte le epoche e ormai ogni angolo del globo. Di certo è la figura della mitologia occidentale più diffusa al mondo e variamente sfruttata in ogni cultura (da noi basti pensare al cristianesimo, a Dante, e così via). Nel secolo testé defunto si contano decine di film con la donna-pesce, e in letteratura non se ne parli. Ricordo qui, solo per quella italiana, il bellissimo, tragico racconto di Giuseppe Tomasi, prence di Lampedusa, Lighea, riferito al quale consiglio il gran bel saggio di Basilio Reale (nome e casato squisitamente tautologici), Sirene siciliane, Sellerio editore, Palermo 1986; e di Mario Soldati La verità sul caso Motta, un’opera insolita, profonda e deliziosa, e pertanto misconosciuta dalla critica ufficiale, storicistico-realistica-blà-blà. Il culto della Sirena — non letterario, ma vissuto e popolare! — è praticato nel sincretico Brasile, nelle acque della laguna di Abaeté a Itapoà, a Bahìa de são Salvador, dove i pescatori adorano la bellissima e terribile Yemanjà. La si onora, testimonia la Lao, il 2 febbraio con una sagra grandiosa, con l’offerta del sangue di due galli e di suoi innumerevoli simulacri gettati in acqua. Seguono danze in trance che imitano le onde del mare, con tutto quanto di vitalmente festoso sanno donare i tropici, forse meno tristi di come ci hanno fatto intendere gli strutturalisti (questi sì, tristi davvero). No, di fronte alla Dea caudata di Bahìa niente risum teneatis, non ce lo possiamo permettere, specie al presente, in Italia. Dateci, o politici, la nostra Yemanjà!
E poi il saggio di Loredana Mancini, Il rovinoso incanto, Il Mulino, Bologna 2005. È uno studio erudito, vasto e capillare, su tutto quanto è dato di sapere sulle Sirene nel mondo antico. Vi manca, è vero, quel piccolo riferimento a Orazio, ma tutto non si può avere dalla vita. (Alla letterina in proposito che scrissi alla studiosa non fu mai risposto, ma tutto non si può avere, specie da un ricercatore/trice universitario/a: gente sospettosissima, permalosissima.) L’autrice chiarisce perfettamente l’essenza delle Sirene omeriche (pp. 72-4). Senza qui scendere in dettagli filologici. Le Sirene promettono a Ulisse la beatitudine del canto epico e, in generale, «tutto ciò che accade sulla terra nutrice»: suadenti antenate di un rappresentante di enciclopedie. Ma il modello delle Muse che esse ricalcano cela una impostura. Non è vero, come esse promettono, che chi le ascolta tornerà sapiente e felice in patria: bastano a smentirle le ossa di quanti hanno sedotto, sparse d’intorno a loro. La voce delle Sirene «soggioga la volontà (thelgei) e i sensi (terpei), immobilizzando chi incautamente si fermi ad ascoltare in un torpore generato dall’aspettativa del piacere» (p. 74). Non un gioioso canto di gloria è il loro, dunque, ma un voluttuoso canto (incanto) funebre. Di tutto ciò è un volgare e brutale surrogato, oggi, l’uso pandemico delle droghe, le incantatrici supreme.
Credo che chiunque abbia affrontato l’argomento Sirene sia caduto in un equivoco (ma non sono onnisciente, e sarei lieto se qualcuno mi smentisse nei fatti). Il punto è questo: l’aspetto delle Sirene. Omero non le descrive, e del resto lo fa parzialmente pure col Ciclope (perché arcinoto), né i compagni di Ulisse, né lui stesso, le vedono: sul prato fiorito dell’isola, che essi rasentano con la nave, ci sono solo ossame e cadaveri. Le prime raffigurazioni di Sirene sulla ceramica ci mostrano uccelli anche con volti maschili, barbuti; ma ben presto prevalgono, e rimangono, solo corpi di uccelli con volto di fanciulle, più o meno dotate di strumenti musicali. Ma perché questa raffigurazione teratomorfica, che un poeta razionalista quale Orazio più non ammette? La risposta è in una semplice constatazione: gli uccelli sono i soli animali che cantano, e il fatto che le Sirene cantino in un linguaggio umano, e non emettendo meri suoni “strumentali”, è significato dal volto di donna (e da prima anche di aedo barbuto). Come altro poteva raffigurare questa realtà mitica il pittore ceramista o lo scultore, se non con la metafora visiva della donna-uccello? Da qui, tutti sono caduti nell’equivoco che quello fosse l’aspetto delle Sirene, così come se lo immaginavano gli antichi. Ma tutta l’arte antica, di àmbito mitografico, è metaforica e come tale deve essere interpretata. No, nel mythos, nel racconto originario, alle Sirene non competeva alcun aspetto, in quanto erano solo una voce armoniosa, senza un corpo di supporto. E la invisibilità rende la Voce ancora più temibile: si pensi al Dio biblico. Né mi soffermo sulla invenzione letteraria della voce pura, canora, che si ritrova anche nell’Asino d’oro di Apuleio.
Oltre che per premunire il lettore nel frangente elettorale e nel perenne flusso pubblicitario, mi è parso doveroso chiarire questi particolari, dato che ho scritto un poema intitolato Sirene (ETS, Pisa 2004), in cinque libri e sessanta canti, il quale conclude (ma per quanto tempo?) il mito delle Sirene. Che forse non finirà mai finché ci culleremo nelle illusioni. E non ditelo poi ai pescatori di Bahìa de são Salvador: ci riderebbero a fauci spalancate. Ah, i tropici! A Bahìa, a Bahìa, il prossimo 2 febbraio!
Marco Cipollini