Nella poesia italiana oggi… – non prenderò tale sentiero verso la geografia letteraria. Mi orienterò piuttosto su questo punto della storia, questo presente che ci è toccato e dove ci è dato operare affinché, con i mezzi di cui possiamo disporre, giungiamo a far apparire nella parola ciò che, elevato al mistero delle cose, ci cambia e fa cambiare il mondo in cui viviamo. Ecco perché, strategicamente, non darò neanche segnali di riferimento culturale per collocare, in modo per così dire pertinente, la poesia di Flavio Ermini. Mi limiterò all’ascolto, difficile, di una parola resa difficile dal non avere altra scelta che lasciarsi sprofondare nell’oscuro per formularsi secondo l’unica necessità in grado di farla esistere:
chiamato all’ombra che si ritrae, il divenuto vivo disunisce ciò che nasce per silenzio. In tutte le figure generate nel dolore si attarda l’oscuro dentro la carne
Perché da viventi non dobbiamo smettere di diventare. Ascoltando, rispondendo con l’ascolto a ciò che, dall’«ombra che si ritrae» – dal sottratto senza apparenze, chiama. Perché è proprio dall’«oscuro», dove giace e vive quanto non sappiamo, che può venire ciò che, allora, salirà forse dal silenzio alla condizione di possibilità della conversione in parola. Là, alla condizione preliminare di aver potuto accedervi – e ciò può essere fatto solo al prezzo di un doloroso sforzo – la questione è «disunire» – ovvero: separare dal loro niente originario, dall’«oscuro» dove restano sconosciuti, gli aspetti che appaiono da quanto là appare. Questo lavoro si effettua con una doppia tensione, dolorosa, verso la comprensione delle possibili forme del mistero e, allo stesso tempo (dato che tali “cose” si sottraggono ai nostri mezzi, sensibili e intellettivi), verso la difficile conversione in figura verbale di ciò che non appartiene di per sé all’àmbito del linguaggio. Tali sono le figure che l’atto di comporle, trasformando in parola ciò che resta irriducibile al linguaggio umano, suscita nell’«orribile lavoratore», causando il «dolore» dell’essersi troppo intensamente impregnato di oscuro.
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Ciononostante, questa parola uscita dal tumulto e dal tormento non si dà se non come parola di meditazione, in una calma divenuta come assoluta. I sussulti, i soprassalti, le angosce del lavoro, se la lingua li accogliesse, minaccerebbero le figure composte fino a farle fallire in ciò che esse riescono a trasmutare solo con grandi difficoltà. Anche questa poesia perviene alla parola solo nella distanza presa rispetto al suo oggetto di indagine. La parola di Flavio Ermini si ordina secondo un pensiero – dantesco, direi – della separazione essenziale tra res e verba. Da molto lontano, a partire da un fondo insondabile raggiunto innanzitutto attraversando tutte le possibili apparenze, risalendo attraverso di esse, piegandosi e piegandole alle piú sottili e minuscole sfumature, il lavoro della parola effettua la sua propria separazione dalle cose inventando una prosodia tesa all’ascolto e alla formulazione di ciò che viene udito al limite della possibilità di ascolto – tesa e, d’un tratto, in una lingua anch’essa tesa, distesa, ma allo stesso tempo composta secondo l’ordine di una sintassi che, per essere singolare – reinventandosi ad ogni proferimento – fa pur sempre udire, attraverso i secoli, le magie della sintassi, non dell’epoca, latina: le parole, che albergano nella frase calma come il fondo di un abisso, secondo le più sottili fluttuazioni di un senso che si inventa, elaborano e costruiscono un’architettura complessa, non tanto del cosiddetto ordine “naturale” – di fatto convenzionale – delle nostre lingue fatte di articoli e preposizioni, ma dell’ordine di un pensiero che, componendosi, configura la frase sulla base di quel rapporto della lingua alle cose che consiste nel metterle in relazione designandole secondo il loro ordine proprio. Convenientia, diceva Dante:
poiché include la luce, della luce assume l’oc-chio talvolta la forma
oppure
dove la morte si sovrappone ad altri modi della vita, mutato discende il biforme che di vessilli e rostro è fatto
(Noto come cosa evidente che tali risorse prosodiche, proprie della genealogia dotta della lingua italiana, pongono il traduttore francese all’incrocio tra due tipi di soluzione: l’uniformità della nostra sintassi classica da un lato; e d’altro lato le torsioni alle quali avrebbe dovuto abituarci già da un secolo la prosa di Mallarmé. François Bruzzo ha avuto l’accortezza di ricorrere a questo secondo tipo di risorse).
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Alle proposizioni intense e definitive di questa poesia accade spesso di accoppiarsi. Allora la tensione che le unisce nella modalità di una distanza mantenuta suscita una relazione, infinitamente lontana, da cui si «sprigiona» questo «terzo aspetto» di cui parlava Mallarmé, «fondibile e chiaro, presentato alla divinazione»:
cade nel sonno il corpo spezzato comprimendo verso l’interno l’arco del viso. Nel centro preciso del piccolo cielo, comune ai venti è la sorte dell’acqua che non tocca riva
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Un tale lavoro sulla parola non è senza legame con quello che Leonardo da Vinci effettuava nei suoi appunti, inventando una lingua capace di dire nel modo più giusto e preciso i rapporti invisibili che si intessono nel mondo fisico:
Ogni corpo posto infra l’aria luminosa circulamente si sparge, e empie le circustanti parti di infinite similitudini, e appare tutto per tutto, e tutto in ogni minima parte.
Si tratta, certo, di altri misteri, che talvolta, però, diventano stranamente gli stessi:
In seguito a minimi spostamenti, diventano corpi di ogni genere le cose nell’oscurità
– anche se altrettanto presto si aprono dimensioni che non sono quelle di Leonardo, la prosodia resta come forma visibile che risulta necessariamente dalla coniugazione di una stessa acutezza dello sguardo, di una stessa intensità del lavoro mentale, e di un analogo accanimento nella precisione della parola. Alta genealogia:
Compaiono invece faglie là dove nulla esiste, formandosi nella bocca di molti e tra la pelle
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Sottolineo per finire la composizione del libro, in dieci capitoli o canti che si dànno l’uno dopo l’altro e congiuntamente come le molteplici facce di una qualche pietra sconosciuta che compone un poliedro – divenuto, grazie al rigore delle formulazioni, duro e impenetrabile come le cose che la parola è giunta a penetrare e a restituirci in figure oscure e abbaglianti.
Traduzione di Alessandro De Francesco