Gentile Claudio Di Scalzo, Le spedisco il racconto “Filanda” che fa parte di una più ampia raccolta di 35 racconti di cui 11 in dialetto calabrese. Sono all’undicesimo racconto e Filanda è il nono. Tutti i racconti sono originali, ovvero scritti da me e fantasticamente inventati, non c’è niente di reale anche se li spaccio per fatti accaduti. Ho creato un’ipotetica genealogia e vi sono per 35 persone a cui è collegato un racconto. Perché 11 in lingua e gli altri 24 no? È semplice non ho voglia di chiedere ulteriori aiuti ai miei amici pertanto solo 1 ogni generazione è in dialetto. La storia inizia nel 1688, anno in cui viene trovato davanti alla porta di un convento il capostipite Aiace Nisticò (storia, la undicesima - Vico dei Carbonai - che sono in procinto di scrivere), e termina ai giorni nostri con l’ultimo racconto “L’uomo dalle due dita”. È per me un passatempo non ho altre velleità che questo, in particolare dopo la morte di mia moglie. Ho iniziato questi racconti a fine settembre del 2007 spero a fine 2008 di averli terminati. Le dico questo perché prossimamente andrò a fare il cammino di Santiago in Spagna e starò via 3 o 4 mesi. Non ho alcuna pubblicazione effettiva solo qualche poesia con l’editrice Ibiskos perché ho partecipato ad alcuni concorsi letterari e taluni li ho vinti, altri mi sono classificato ai primi posti, altri non mi hanno considerato. Ma non ho avuto tempo di scrivere dato che ho lavorato in Banca per 33 anni. Anni faticosi duri, io che avevo fatto studi classici dover immettermi in regole, partita doppia, analisi di aziende, marketing, dirigere il personale, dirigere filiali, ecc. Concludo con qualche notizia biografica:
Sono nato a Pisa il 08/04/1943, attualmente risiedo a Pontedera. Ho fatto gli studi classici a Pisa e l’Università, Facoltà di Legge, alla “Sapienza” di Roma. Successivamente ho preso il diploma di Tecnico Archeologo agli scavi presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. Vedovo con 2 figli. Ho vissuto in varie città italiane: Milano, Roma, Napoli, Pisa, Livorno, Terricciola, S. Pietro Belvedere, Pontedera. Ho fatto tanti lavori: attore in una compagnia stabile, insegnante, assicuratore, commesso, arredatore, informatore medico scientifico, ed infine bancario per 33 anni. Ho partecipato a diversi premi letterari con buoni risultati. Ho scritto altri due libri, inediti, nel periodo in cui abitavo a Roma anni 1966/1971.
Pierluigi Macchioni Gotti
Caro Pierluigi Macchioni Gotti, ...pubblicherò in Telluserra il suo racconto. Confido possa essere di buon auspicio per il proseguo della sua vocazione a completare la raccolta. Scrivere è impresa ardua, e credo, me lo permetta, più faticosa di un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. TELLUSfolio ama, con la mia direzione, ospitare prove letterarie le più diverse, anche di chi non ha con la scrittura un rapporto di mestiere consolidato. A volte l'episodio creativo, anche distaccato nel tempo, può produrre risultati interessanti. Starei però in guardia contro le tentazioni del sentimentalismo. Ci aveva fatto i conti anche il Verga verista abbandonando le trame troppo mondane. La letteratura “rosa” è un rischio quando compaiono amori infelici, vendette, e figli della colpa. Ma forse lei proprio questi intrecci intende ravvivare. Infatti c'è anche una sorta di tradizione letteraria un tempo detta popolare o da feuilleton. E questo spiegherebbe perché con il dialetto non si spinge oltre qualche timida citazione nei dialoghi. Ma staremo a vedere. Intanto diamo ai lettori del giornale questa tessera indicativa dell'affresco che medita di realizzare.
Claudio Di Scalzo
FILANDA
È uno dei pochi toponimi che assieme a discesa Filanda, accorciatoia Filanda, vico dell'Onda, via Gelso Bianco ricorda quell'arte della Seta che costituì, per usare le parole che si leggono nei «Capituli, ordinationi et Statuti» dell'8 maggio 1969, «una delle Nobiltà di questa città di Catanzaro».
In quella rigida giornata di Gennaio, il salottino pareva ancora più delizioso, delizioso di tepore e gaiezza. Semplice quale si addiceva alla modesta agiatezza del padrone di casa. I mobili ricoperti di stoffa azzurra, i graziosi ninnoli, il soffice tappeto, alcuni pregevoli quadri, rivelavano il buon gusto di chi l’aveva disposto. In un angolo una bella pianola e, fra la vetrata interna e quella esterna del balcone, un lusso di primule primrose bianche, due purpuree camelie, alcuni vasetti di begonie, mostravano sicuramente il gusto di una persona sensibile. In quel rigido giorno di gennaio, quel piccolo asilo tiepido e profumato, sembrava il tempio del benessere e della pace.
Una ragazza era lì ferma ad attendere qualcuno, esile con vestiti alquanto abbondanti che lasciavano comunque intravedere linee perfette, nelle larghe spalle, nella diafana carnagione. I capelli castani scuri le cadevano in lievi riccioli sulla fronte, questo la costringeva, ogni tanto, a passare la mano sulla fronte per allontanare quei ribelli dai suoi neri occhi splendenti. Il suo sguardo vagava nella stanza alla ricerca di qualche imperfezione in ciò che lei aveva sistemato con tanta cura e tanto amore.
Celestina, detta Nina, aveva vent’anni e da tre era maritata con Francesco Nisticò. Avevano una figlia, nata nel Settembre del 1760, cui avevano messo nome Leda, che adesso aveva più di un anno.
Celestina e Francesco avevano avuto una banale infatuazione giovanile, somigliante ad altre vicende di gente comune. Lei abitava in Vico dei Carbonai, ove il padre di Celestina vendeva carbone, e lì con asini e muli portava carbone e carbonella ai cittadini. In quelle vie viveva anche il nonno di Francesco, Aiace, ed anche lui aveva fatto, fino a quando la salute lo aveva assistito, il carbonaio. Il padre di Francesco, Niccolò, mal sopportava quel faticoso e ingrato mestiere e aveva messo una bottega di artigiano del ferro nella scinduta de’ forgi, dove si erano ammassate tutte quelle botteghe artigiane e di commercio legate all’attività del ferro. Spesso Francesco andava a trovare i nonni, in particolare dopo la morte della madre, e lì fra un sacco di carbone e uno di carbonella era nata la storia d’amore dei due giovani.
L’amore, si sa, nella giovinezza è molto passionale, anche in quell’epoca, per cui fra un bacio e un sospiro d’amore Celestina rimase incinta. I rispettivi genitori, con l’aiuto anche delle madame della carità della chiesa di S.Rocchello, li fecero sposare e trovarono un lavoro a entrambi a servizio dal nobiluomo il conte Antonio Maroncelli, grande proprietario terriero e abitante in un antico palazzo nel rione della Filanda. Celestina entrò come donna di servizio e Francesco come giardiniere.
Quando nacque Leda, il padrone tenne a battesimo la bambina e volle che stesse nel palazzo insieme ai genitori, la villa infatti era talmente grande che una vocina in più non disturbava. Celestina dopo il parto si fece ancora più bella e il conte Maroncelli, celibe cui tante signorine di buona famiglia di Catanzaro facevano intravedere la loro disponibilità, iniziò ad accorgersi di questa sua giovane e bella domestica e per lei perse del tutto la testa.
Dapprima vi furono frasi di cortesia, poi si tramutarono in parole galanti, e infine in manifestate proposte, non certo degne di un gentiluomo qual era.
– Siete bella, affascinante, desiderabile – diceva il Conte, – meritate molto di più di quello che avete… – e aggiungeva – non potete fare la serva, non è per voi… voi dovevate nascere principessa. Rallegratevi,sicuramente siete la regina del mio cuore.
Talvolta, dopo qualche bicchierino di rum o di grappa alla pesca di troppo, pronunciava lentamente rivolto a lei – Vorrei stare con te giorno e notte… baciare la tua candida pelle… devi essere mia… vieni...
Celestina dapprima avvisò il marito di quell’interesse del padrone poi tacque. E Celestina, che non aveva mai avuto una corte così serrata, che non si era mai sentita talmente importante come la faceva sentire Antonio con quelle parole appena sussurrate e piene di adulazione, cadde nella sua trappola. Una notte, che il marito era stato mandato per lavoro lontano dalla villa, aprì la porta della camera del conte Antonio Maroncelli, ma non per riassettarla. Da quella notte, seguirono mattine, pomeriggi e ancora notti.
E adesso era lì ferma, immobile, in quel delizioso salottino tiepido e profumato di cui lei aveva curato l‘allestimento.
In quel mentre si aprì una porta per lasciar passare un uomo snello, elegante, chiuso in un abito grigio chiaro, con i piccoli baffi neri, i neri occhi vivaci, che si avanzò sorridendo verso Celestina tendendole la mano, ma rimase interdetto dinanzi all’espressione di vergogna, di timore di lei.
Celestina, pallida, con i grandi occhi disorientati, la fronte corrugata, lo guardava come se la persona che il suo cuore aveva evocato le fosse apparsa dinanzi come per magia, poi a un tratto il pallore del suo viso lasciò il posto a un rossore intenso.
Antonio attese qualche istante poi si avvicinò alla ragazza e sedendosi sul divano le prese una mano con fare affettuoso.
– Celestina che accade ? Che cosa significa codesto turbamento che rivela il tuo volto? Dimmelo …parla …se hai un po’ d’affetto per me fa parlare il tuo cuore.
Vedendola sempre più angosciata continuò – Non tenermi più oltre nell’ansia, ho il diritto e il dovere di conoscere il tuo dolore, non fosse altro per dividerli con te. Ti chiedo questo in nome del nostro amore…
Celestina con un brusco movimento, liberandosi una mano e dolcemente ponendola sulle sue labbra come a imporgli il silenzio esclamò – Tacete don Antonio, tacete! Stacitivi quetu donn’ Antò. Non mi parrati dell’ amore cchi ppè mia è rimorso e disperazione. U Signura mi castigau ppè chiddu chi cumbinavi, inesperta, spusata e ccu na fija, ppe na jornata chi persi i lumi, una follia…
Siccome il nobiluomo la interrogava con lo sguardo ansioso, lei proseguì con veemenza – A curpa é sulu a mia, aspettu nu fiju vostru e haiu ma pagu ppe chiddu cchi fici, dovrò scontarne il peccato… un figlio, un figlio da voi… – e tacque mentre lacrime, amaramente silenziose le solcavano le pallide guance.
Antonio muto dallo stupore la guardò intensamente e prendendole di nuovo le mani e portandosele alle labbra disse – Calmati, calmati Nina… troveremo una soluzione… tuo marito forse sarà il caso… e poi… conosco una… una certa Caterina...
Viveva ai margini della città una certa Caterina Monneve detta La Neve, abile cartomante, chiromante e soprattutto procuratrice di aborti, fra le sue clienti tante popolane e poi, dato che la fama si era divulgata, anche ragazze di nobili lignaggi.
– No! No, ma cchi diciti, io sta cosa on a facera mai ca u Signura poi on mi perdunera do tuttu, …piuttosto dicu tuttu a Franciscu…
– Ferma, ferma, quello sarebbe capace di ucciderti, ma anche di uccidermi… no… no. Ascolta potremmo… anzi possiamo lasciare tutto in questo modo, lui penserà che sia figlio suo. Sì, lasciamo tutto così e benvenuto al nuovo figlio di Francesco e Nina. Vivrà qui a palazzo con Leda… beh, sì, cioè sua sorella, ah... ah...
– Ma ormai e tantu tempu cchi non stacimu cchiu ‘nzema, e poi io voju bene a vui… ho sempre trovato dei pretesti …e insomma… – rispose Celestina.
– Che cosa vuoi farne di tuo figlio un bastardo? – urlò il Conte alzandosi improvvisamente – Non potrò certo assegnargli il mio nome, non vorrai questo vero? E poi a quale titolo? No, no! La cosa migliore è che tu riaccolga Francesco nel tuo talamo e poi, fra un mesetto, gli dirai che sarà di nuovo padre… i figli nascono anche prima del tempo… ah, ah... – e uscì repentinamente da quel salottino in cui il tepore iniziale aveva lasciato il posto mano a mano ad una temperatura glaciale.
Cosi fu, Celestina non trovò più nessuna scusa per non dormire di nuovo con suo marito, e in quei caldi abbracci, in quelle parole d’amore che Francesco le sussurrava, dolcemente, si accorse che lo amava ancora, anzi non aveva mai smesso di amarlo. Si era fatta ammaliare da quelle parole, da quei bei gesti signorili, da tanto sfarzo e solo per quella facciata aveva gettato via la sua onorabilità.
Nonostante le pressanti richieste del conte Antonio, da quel momento, Nina si rifiutò di stare ancora con lui e un bel giorno gli disse chiaramente – Io sbajiavi ma vegnu ccu vui, e u rimorsu mi perseguiterà ppe tutta a vita. Però a cosa finiu ormai e vui lassatimi stara si no mi costringiti ma dicu tuttu a Franciscu, mio marito…
Il nobiluomo ai ripetuti rifiuti, vedendo respinte con determinazione le sue proposte, si sentì colpito nel suo amor proprio e così, l’amore si tramutò in odio e l’odio in vendetta. Iniziò pertanto a punirla sistematicamente e, nonostante il suo stato, le commissionò lavori pesanti, talvolta inutili, come pulire e ripulire le stanze, lucidare i mobili o le posate, lucidare e lucidare di nuovo i pavimenti perché ritenuti ancora sporchi, lavare e rilavare le lenzuola, le tende, le coperte, i vestiti, inoltre le faceva molti rimproveri perché non portava a termine il lavoro dato nei tempi stabiliti. La vita era divenuta insopportabile, era un inferno.
Francesco accortosi di tutto questo livore da parte del conte verso sua moglie, un giorno le disse – Mo sai cchi fazzu?... vaju ma parru cc’u patruna, on ti po’ trattara accussì, specie mo chi hai ma sgravi!
– No, no mio caro – rispose Nina – ti pregu Francì, ormai simu quasi alla fine, parravi già ccu mammima, quando nescia u guagliuneddu, trovamu n’ atru lavoru e intantu ni stacimu alla casa sua, per un po’ di tempo.
Arrivò il giorno in cui nacque Vittorio, sembrava che tutto fosse andato per il meglio ma a causa della debolezza del fisico di Nina subentrò una debilitazione fisica post-partum con complicazioni al cuore e ai polmoni, ch la portò in fin di vita. Nina fece chiamare Don Carlo, il proposto di San Rocchello che l’aveva sposata, e prese tutti i sacramenti, poi volle parlare da sola a Francesco e gli raccontò tutto anche del bambino appena nato. Di lui disse – On sacciu si è fiju toi –, unica bugia che uscì dalle sue labbra, chiese poi perdono a Francesco, perdono per aver tradito la sua fiducia, il suo amore.
– Celestina mia, io ti perdunu ppe chiddu cchi mi facisti e speru ca u Signura perduna l’anima tua –
e mentre Francesco diceva queste parole Celestina, spirò.
Francesco dopo la sepoltura della moglie andò dal padrone e con fare minaccioso disse – Mi ‘nda vaiju , vaju in campagna, chiddu chi mi facistuvu è spregevole, siti n’ assassinu. Si avera ma staju ancora ccu vui, prima o poi v’ ammazzera, ma mo cchi orvicavi a Nina, on voju ma m’ allordu i mani. Ma v’ avvertu non vi faciti cchiù vidira e mia, sinnò a prossima vota v’ ammazzu, ricordatevi sarete un uomo morto” così, minacciando apertamente il nobile Antonio Manganelli, se ne andò.
Lasciò i figli ai suoi genitori, andò nelle campagne circostanti la città in una capanna mettendosi a fare il carbonaio come il nonno. Trascorsero alcuni anni.
Una sera d’estate, mentre il Conte Antonio faceva ritorno insieme al suo fido fattore Giuseppe dall’essere andato a trovare alcuni amici in una città vicino, d’un tratto, nel più folto della foresta, fu sorpreso da un violento uragano. La città era ancora alquanto distante e chiese al suo fattore se vicino ci fosse stata una capanna o qualcos’altro dove ripararsi dalla pioggia e dal vento impetuoso. Infatti sembrava che quei soffi violenti di Eolo, passando di albero in albero, risvegliassero, da mille bocche nascoste, gemiti e suoni minacciosi.
– Mi toccherà dunque morire affogato – disse Antonio, arrestando il suo cavallo, che scosse la lunga criniera nitrendo a più riprese. In quel momento un bagliore d’un lampo illuminò per un attimo la foresta, e abbastanza vicino apparve il profilo di una rustica capanna, tipica dei carbonai.
– Donn’ Antò, si non sbaju, mi para ca cchiu dda c’è na capanna – disse il fattore rivolto al Conte.
– Allora, non perdiamo un minuto di tempo, orsù avanti!
Giunti alla porta della capanna, il fattore scese da cavallo e bussò forte con il pugno. Poco dopo una voce si fece sentire.
– Ccu è?
– Apariti, sugnu u fattore do conte Maroncelli, e sua eccellenza è ccu mia.
La porta della capanna si aprì e un lumicino fece leggermente chiarore nel buio della notte, mentre il conte, balzando giù da cavallo, si affrettava a entrare nella capanna, fradicio fino al midollo delle ossa.
Un uomo con un’età indefinita, sciatto, con capelli e barba lunghi, fece gli onori di casa, si tolse rispettosamente il berretto alla vista del nobile signore e, deponendo su un trespolo la lanterna che aveva in mano, disse con voce tremante – A casa mia è chidda e nu poveru carbunaru, vi po’ riparara sulu da pioggia e nent’ atru.
– Fai subito del fuoco – ordinò bruscamente il Conte, che non era stato a sentire quanto quel meschino gli diceva – non ti mancheranno certo legna per accendere un buon fuoco.
– Oh certo eccellenza – rispose il carbonaio.
Dopo aver buttato sul fuoco due bracciate di legna, frugacchiò nelle ceneri per risvegliare quella poca brace assopita, poi piegando un ginocchio si chinò e vi soffiò con forza, ripetutamente. Non tardò molto che le legna secche incominciarono a scoppiettare e, in mezzo ad una piccola nube di fumo azzurrognolo, si sprigionò la vivida fiamma.
– Bravo – fece il conte intanto che Giuseppe il fattore lo aiutava a togliersi la palandrana tutta bagnata – sei un galantuomo, come ti chiami?
L’uomo ebbe un sussulto a quella domanda che probabilmente non si aspettava, le sopracciglia si corrugarono d’improvviso, parve indeciso un istante, poi quasi pigliasse una subitanea risoluzione rispose, lentamente, con gli occhi fissi sul conte.
– Mi chiamu Francesco, Francesco Nisticò, eccellé.
Il nobiluomo trasalì e istintivamente afferrò il braccio di Giuseppe, il quale, stringendosi nelle spalle, sorrise al suo padrone come per dire – non vi preoccupate che io sono qui con voi e vi proteggo.
Francesco Nisticò, con le braccia incrociate sul petto e la testa china sulla spalla destra, appoggiava la schiena sulla parete fuligginosa presso il camino fissando il nobiluomo, nei suoi occhi scintillava di quando in quando una luce sinistra, strana, selvaggia.
– Vivi qui solo? – chiese il nobiluomo.
– Sulu.
– Non hai moglie? – continuò.
– Mi l’ ammazzaru.
– E figli, figli ne hai?
– Dui.
– E sono morti anche loro? – chiese ancora imperterrito il conte Antonio.
– No! Grazie a Dio, no! Sugnu alla casa de certi parenti. Stannu boni e a vui vi auguru ma stati bonu ppe mill’ anni eccellè, salute mille anni per voi, vostra eccellenza – replicò Francesco per chiudere quell’imbarazzante e falso interrogatorio.
Antonio ritenne di scorgere una terribile e pungente ironia in questo augurio, e un brivido freddo gli corse per tutto il corpo. Poi, chinandosi all’orecchio di Giuseppe, disse sottovoce: – Guarda caso siamo capitati nella stamberga del marito di Celestina… te ne eri accorto?
– Si Donn’ Antò, ma pensavi ca si on trasivuvu vi potia pijara nu malannu, qui c’è sulu nu ricoveru e poi cci sugnu eu cchi vi guardu, on vi preoccupati!
– Giuseppe ho premura di tornare in Filanda, a casa. Voglio poi sapere in tutte le maniere, dove abitano quei due marmocchi, è necessario che mi tuteli in qualche modo. Orsù pare che il tempo si sia calmato, apri la finestra e accertatene, poi vieni qua vicino a me e non mi lasciare.
Era chiaro che il nobiluomo aveva paura, memore della minaccia a suo tempo pronunciata contro di lui.
Giuseppe andò ad aprire la finestra e guardò fuori, il temporale era cessato, stava piovigginando, in lontananza si udiva qualche brontolio nel cielo.
Nel partire dalla capanna il conte Antonio, volendo fare il generoso, mise una moneta d’argento in mano all’uomo, ma questi fece un balzo indietro come se lo avesse morso una vipera.
– Rifiuti? – chiese il Conte.
– Certamente eccellè – rispose Francesco.
– Perché? – domandò.
– Pecchì Francesco Nisticò, ficia u dovere suo e vui averevu e sapira che l’ ospitalità in Calabria si offre ccu u cora e non ppe profitto… – poi, avvicinatosi al nobile, con i pugni stretti e quella strana luce negli occhi, gli si piantò davanti in modo da impedirgli l’uscita e aggiunse a voce bassa, vicino all’orecchio, scandendo bene le parole:
– Tu mi canuscisti pecchì ti vitti ca tremavi, e mo cerca ma senti chiddu chi t’ haju e dira. Pocu prima ti potia spaccara a capu ccu n’ accettata, e u guardianu toi on potia fara nenta, ma non o fici pecchì eri ntra casa mia e l’ ospitalità ppe mia è sacra puru ppe l’ assassini comu a tia. Ora eccellenza buon viaggio e ricordate quanto vi dissi prima di andare via dalla vostra casa, adesso la vostra fine è vicina.
Poi camminando a ritroso lasciò libero il passo al nobile, che frettolosamente uscì.
Francesco seguì con lo sguardo i due cavalieri fino a quando non li vide scomparire alla curva del sentiero. Dopo con uno scatto rientrò nella capanna.
Addossato a una parete sopra un materasso, fatto con foglie di granturco, e fra due immagini di santi ormai nere dal fumo pendeva un vecchio archibugio a pietra focaia, assicurato a un grosso chiodo per mezzo di una correggia di cuoio. Tolse dal chiodo lo schioppo, se lo mise in spalla e corse fuori verso la città, su fra i viottoli sconnessi che lui conosceva bene.
Intanto il nobile saliva lentamente a cavallo per uno stretto sentiero, fiancheggiato da una folte siepe di pruni, certo ormai di aver lasciato il pericolo trovato in quell’incontro non voluto, occasionale e forte di quell’idea di usare i ragazzi del suo nemico come merce di scambio.
– Sì, farò proprio così – disse a voce alta il nobile conte Maroncelli.
Nel frattempo la pioggia era cessata e la luna risplendeva di nuovo nel cielo. Francesco che conosceva ormai il territorio palmo per palmo non gli era costato gran fatica, pigliando le scorciatoie, raggiungere i due cavalieri. Li teneva d’occhio a circa cento passi di distanza sparendo, di tratto in tratto, dietro la siepe per riaffacciarsi poi armato del suo fido archibugio.
– Nina mia, cchi t’ addormentasti ppe sempra, n’ atru pocu ti vendicu e poi stacimu ‘nsema ppe l’ eternità. E tu beddu meu… – continuò con dolcezza, carezzando la canna arrugginita del suo archibugio – ...on mi tradira pijalu propiu allu cora ma cada senza ma po’ dira un “Ah”! Senza ma si po’ raccomandara l’ anima a Dio. Ora è il momento, accorto Francesco e che la Vergine Santissima non ti faccia tremare le mani!
Francesco spianò l’arma e prese la mira, un secondo dopo rintronò uno sparo che si ripercosse nella valle e il nobile Antonio Maroncelli cadde dal suo cavallo, con le braccia distese senza mandare un grido.
Francesco ricaricò l’arma, con calma, se la puntò sotto il mento, si fece un frettoloso segno di croce, disse – Eccomi Nina – e premette il grilletto.
La luna splendeva bellissima fra un lembo di cielo turchino e qualche nube in lontananza.
Anna e Vittorio furono allevati dai nonni.
Pierluigi Macchioni Gotti