Fa male vedere Napoli che affoga nella spazzatura. Fa male vedere il libro di Saviano, Gomorra, strumentalizzato a seconda delle opportune esigenze. Fa male vedere la Campania soggiogata allo strapotere di una classe dirigente che ha condannato questa regione all’abbandono, all’oblio.
Fa male sì, terribilmente male specialmente quando quella terra è anche un po’ tua.
Ma quando poi una città come Firenze si lascia andare ad una vera ovazione per uno spettacolo come Il sindaco del rione Sanità, torna la voglia di pensare che qualcosa possa ancora accadere. Il personaggio di Antonio Barracano interpretato da un commovente e straordinario Carlo Giuffrè non solo ti rimette in pace con te stesso ed il teatro, ma ti restituisce la speranza per una prospettiva di vita migliore.
Lo so, è solo un testo teatrale, ed è difficile esprimere quello che in esso è contenuto. Io sono solo un teatrante e non un critico, per me parlano le emozioni, le suggestioni e le atmosfere. Andrebbe visto, anzi perdonate va visto. Ci sono un insieme di componenti drammaturgiche, narrative e soluzioni registiche che si risolvono brillantemente nella reale e compiuta messa in scena dell’opera. Infatti lo spettacolo non va solo guardato, va ascoltato, goduto, spiato; senza superficialità, ma come se fosse una cosa davvero importante, sincera e formativa.
Il sindaco del rione Sanità è un testo antico, ha più di quarant’anni, ma la sua attualità è spiazzante; ci si trovano anzi quei temi e situazioni proprio tipici del nostro tempo: omertà, prevaricazione, giustizia, odio, vendetta, amore e senso della famiglia. E don Antonio Barracano, questo vecchio e stanco padrino, sembra un predestinato e un condannato ad un destino scritto da regole che egli stesso negli anni ha deciso.
Regole ferree, rigide basate su un rispetto materiale, che nel quartiere vecchio e povero di Napoli, “La Sanità” appunto, tutti sembrano seguire con devozione e onore. Sembra di primo acchito che il modus operandi del vecchio padrino non sia alla fin fine così sbagliato. Il suo particolare senso di giustizia basato sul protettorato e la corruzione lasciano intravedere mirabili risultati almeno sul piano dell’ordine e soprattutto dei morti.
«Da quando ci siete voi, Don Antonio, alla Sanità non si spara più» dice uno dei personaggi rivolgendosi con stima e ammirazione al padrino.
Eppure, e qui ribadisco il concetto che il lavoro andrebbe visto, il grande Eduardo sa scavare negli antri più bui e nascosti dell’animo umano rivelando che certi codici devono esistere nell’interesse della comunità e non del singolo. Comunità intesa come insieme di persone che godono degli stessi diritti che tutti insieme fanno di tutto per rispettarli a partire dalla famiglia.
Il mio è un pensiero appassionato non solo perché sono una persona che lo guarda il teatro, ma anche perché ne ha fatta una ragione di vita.
Per concludere vorrei solo aggiungere che ho visto lo spettacolo al Teatro della Pergola di Firenze. (Dal 22 al 27 gennaio al Teatro della Pergola di Firenze ed è tuttora in tournée in altri teatri d'Italia. Per essere più precisi fino al 17 febbraio sarà al teatro comunale di Treviso e poi il 19 e 20 al Teatro Cristallo di Bolzano per poi tornare nuovamente in Toscana.)
Il teatro era esaurito e per due terzi posso garantire che c’erano solo scuole, cioè ragazzi dai quindici ai diciotto anni. E dopo due ore e mezzo di spettacolo hanno accolto tutta la compagnia con un applauso di chi, per una sera, ha visto davvero qualcosa d’importante.
Giovanni Esposito