Camillo de Piaz, un prete sulla frontiera
– Giuseppe Gozzini ha scritto recentemente un libro su di lei, intitolandolo Sulla frontiera. Che cosa rappresenta per lei, la frontiera?
La frontiera per me rappresenta due cose apparentemente contrastanti tra loro. Da una parte, la separazione, e dall’altra qualcosa da attraversare.
– La spinta ad attraversare le frontiere, i confini, è dunque sempre stata tra le sue caratteristiche, fin dagli anni in cui era a Milano?
Appena finita la guerra, a Milano è nato il centro culturale Corsia dei Servi, promosso e fondato da padre Davide Turoldo, da me e da alcuni amici nostri. Un centro culturale con una libreria aperta al pubblico, con attività editoriali, dove si organizzavano dibattiti e incontri. Noi ci siamo sempre rifiutati, ed è stata dura, di far parte dell’associazione dei circoli e dei centri cattolici, perché ci ponevamo, ed eravamo ed operavamo all’interno del dibattito culturale generale, non volevamo starne fuori. Questa è stata una cosa caratterizzante la Corsia dei Servi. Anche questo, naturalmente, non senza critiche e scontri.
– Chi erano i promotori della Corsia dei Servi?
C’ero io, c’era Davide Turoldo, però insieme a noi, a parità di condizioni, c’era un gruppo di laici, e di laiche. La grande Lucia Pigni, ad esempio. Noi siamo stati degli anticipatori, a nostro rischio e pericolo, di quello che sarebbe stato poi il concilio e tutto quello che sta intorno al concilio.
– Il vostro voler operare all’interno del dibattito generale, oltre le frontiere, anche politiche, coinvolgendo anche i laici, non è stato visto di buon occhio…
No, nel 1954 è giunto a Davide un ordine del Sant’Uffizio, che lasciasse non solo Milano, ma l’Italia. La famosa espressione del cardinale Ottaviani: “Fatelo circolare”. E ha dovuto andare. Ha vissuto un po’ di tempo in Austria e poi a Londra. Poi ha girato un po’. Gli è servito, però. Ha girato un po’ il mondo. Invece a me è l’ordine di lasciare Milano, che veniva anche in quell’occasione dal Sant’Uffizio, è capitato dopo, nel 1957.
– Come ha reagito a quell’ordine, allora?
Il mio priore provinciale, del quale ero amico, mi ha lasciato scegliere. A quel punto io mi sono sentito perso e mi sono detto: “Torno al mio paese, torno a Tirano”. E sono tornato a Tirano.
– Non ha mai pensato di andarsene, di lasciare la chiesa?
Turoldo, e anche io, siamo sempre rimasti dentro. Anche negli anni in cui ci sono stati molti esodi. Anni difficili, anni critici. Davide era durissimo con chi abbandonava. Se si usa la parola obbedienza si capisce poco, ma la sua caratteristica dominante era la fedeltà. Il grande padre domenicano Clerissac, diceva che ciò che distingueva il vero religioso era anche la sua capacità di soffrire non soltanto “pour l’eglise”, ma anche “par l’eglise”. Fedeltà e libertà, giustamente viste e concepite, vanno assieme. Davide è stato un esempio di grande libertà proprio in quanto era fedele. Queste sono cose difficili da far capire alla mentalità dominante dei nostri giorni, che non riesce a vedere assieme le due cose, mentre vanno assieme.
– Lei, come anche padre Turoldo, è stato un precursore di alcuni sviluppi avvenuti nella chiesa con il concilio e ha vissuto con entusiasmo gli anni del concilio. Quali erano i tratti salienti, le novità maggiori portate dal concilio?
Se andiamo a vedere i testi del concilio, prendiamo la Lumen Gentium, che è il testo sulla chiesa, vediamo che mette al centro dell’organismo ecclesiastico il “popolo di Dio”, quello che viene chiamato lì per la prima volta il “popolo di Dio”. Tutto il resto viene di conseguenza: l’apparato, i vescovi, il papa stesso. Prima viene il popolo di Dio. È molto importante, questo: è stata chiamata la rivoluzione copernicana. Ed è quella che negli anni successivi viene un po’ esorcizzata. E il culmine di questa esorcizzazione del concilio avviene con l’attuale pontificato.
– Quali conseguenze può avere il rovesciamento delle priorità nell’organizzazione della chiesa indicato dal concilio?
Bisogna ritornare a concepire lo stesso papato come un primato tra gli altri. Non l’unico primato. Quindi anche un ridimensionamento di quello che ha finito col diventare il papato, soprattutto in questi ultimi tempi. Non per niente uno dei grandi teologi del concilio, Karl Rahner, parlava di “papolatria”. Questo poi è diventato più evidente con alcuni papati. Io l’ho poi anche scritto, un po’ pericolosamente, a proposito del papato polacco, che era come se sulla scorta di Luigi XIV dicesse “l’eglise c’est moi”. Il re diceva “la France c’est moi”, lui diceva “l’eglise c’est moi”. E non è vero.
– Lei appartiene all’ordine dei Servi di Maria. Quali tratti caratterizzano questo ordine?
Quello che caratterizza gli ordini nati nel Duecento, come quello al quale appartengo, dei Servi, è la completa reversibilità dei mandati. Nell’ordine servita sono vivi quattro di quelli che sono stati priori generali: sono tornati a essere dei semplici frati. Questa è una distinzione importante col resto del mondo ecclesiastico. E questi ordini poi partivano dal basso della società. Lo indicano anche i loro nomi: minori, minimi, servi. Siamo lontani da certi movimenti dei nostri anni, facciamo pure i nomi: Opus Dei, o Comunione e Liberazione - Opus Dei più a livello mondiale, Comunione e Liberazione più a livello italiano o anche svizzero - che fanno un altro percorso. Loro partono dal punto di vista che la società moderna è scristianizzata. E allora cosa si fa? La si occupa, la si occupa occupando i posti di potere. È quello che stiamo vedendo, no? Un’altra cosa che caratterizza gli ordini nati nel Duecento è la povertà: non tanto intesa nel senso letterale di povertà, ma nel senso di rinuncia alla proprietà personale. Cioè, c’è la comunione dei beni. Anche il voto di obbedienza, vuol dire sottrarsi alle servitù a cui si va incontro vivendo nel mondo. Cioè, è in funzione della libertà.
– È ancora attuale la proposta di questi ordini?
Secondo me questi ordini mantengono e hanno in serbo una loro grande attualità. Anche se col prevalere di quegli altri che ho nominato sono stati messi un po’ in quarantena.
– Lei ha spesso denunciato la debolezza della classe politica italiana. E ne ha attribuito la causa, almeno in parte, alla chiesa. Come vede il rapporto tra fede e politica?
La mancanza di valore etico nella politica italiana, secondo me dipende anche dalla invadenza della chiesa. E questo è un problema che mette in causa la chiesa. La politica deve avere un suo habeas corpus etico che non può essere surrogato dalla chiesa. Ciò non vuol dire che la politica non possa avere ispirazioni provenienti dal cristianesimo, però autonomamente, perché se la chiesa pretende di essere l’unica ispiratrice etica, abbiamo il disastro che abbiamo in Italia.
– Oggi sembra prevalere, nelle chiese, come in tutta la società, un ripiegamento sulla propria identità; c’è un rafforzamento, in chiave spesso difensiva, delle identità. Come valuta lei questo fenomeno?
Il prevalere della sindrome dell’identità può diventare pericoloso. Gesù non dice a un certo punto: “Rinneghi se stesso”, cioè, “rinneghi la propria identità”? Lo so che dico una cosa grossa, ma è questo il punto. Oggi bisognerebbe invece parlare delle co-identità, le identità viste assieme. E non un’identità contro le altre, come fa ad esempio la Lega. Guardiamo all’Italia: in realtà gli italiani non sono mai stati veramente razzisti. Magari i settentrionali prendevano in giro i meridionali, e viceversa. Ma non era proprio razzismo. Oggi, per la prima volta, anche l’Italia rischia di diventare preda di un movimento xenofobico.
– Il cattolicesimo come reagisce a queste spinte xenofobe?
Almeno a livello concettuale, cattolico è l’esatto opposto di razzista. Cattolico vuol dire universale, universalista. E questo è presente anche in certi risultati concreti seguiti al concilio. Ad esempio, non si dice più la chiesa di Tirano, o la chiesa italiana, ma si dice la chiesa di Dio che è in Tirano, che è in Italia. Cioè, questa capacità, sapienza, in fondo anche misteriosa, di coniugare assieme l’incarnazione locale con l’universalità, è tipica della tradizione cristiana, ed eminentemente della tradizione cattolica. Malgrado le derive che ci sono state e che ci possono ancora essere.
– Come valuta il movimento ecumenico, che tra l’altro, nella chiesa cattolica, si è imposto proprio con il concilio Vaticano secondo?
È da una vita che mi sono occupato di ecumenismo. Però vedo anche i limiti di un certo ecumenismo che rischia di finire in qualcosa di semplicemente diplomatico - un coltivare buoni rapporti - mentre credo che debba essere qualcosa di più. Un sentire in proprio anche le posizioni degli altri, viverle. Quindi al di là del semplice dialogo, l’ecumenismo è qualcosa di più profondo, è il ritrovarci assieme, dalla stessa parte. Ed è anche una valorizzazione delle differenze come una ricchezza. Le differenze sono una ricchezza, non una povertà. Le disuguaglianze sono una povertà, ma non le differenze. Vedo le varie confessioni religiose, per restare in tema di ecumenismo, come sorgenti, come acque che vanno a finire nello stesso invaso. Alla fine sarà così. Anche perché, ci si può dire, il mondo si aspetta questo. Volere o no, manifestamente o no, se lo aspetta
(intervista a cura di Paolo Tognina)