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Gabriela Fantato: “Sotto il vulcano” di Tiziano Salari.
Gabriela Fantato
Gabriela Fantato 
04 Febbraio 2008
 

Per una disciplina di umiltà.

Osservazioni sulla poesia italiana contemporanea

a partire da Sotto il vulcano di Tiziano Salari.

 

 

Ritornare a Leopardi?

 

In questi anni in cui il tempo della miseria è totalmente compiuto è necessario ritornare a Leopardi e ritrovare la spietatezza del suo sguardo che seppe cogliere il “tragico vero” dentro e oltre la superficie del mondo, sentendo al contempo la “forza delle illusioni”, quella potenza immaginativa che segna la vita umana e la poesia. Credo che la lezione di Leopardi sia determinate oggi più che mai, in quanto con lui ebbe inizio a una poesia che nasce nel chiasmo (intreccio/incontro, e penso a Merleau-Ponty) tra Io e mondo, in cui esperienza del reale, riflessione e immaginazione si danno in un’unità inseparabile, così che si coglie nella parvenza del reale l’essenza, nella superficie la profondità. Questo è quel realismo intensivo di cui ho già scritto altrove [1] e che connota certa poesia italiana, trovando in Leopardi un grande maestro. È dunque importante Sotto il vulcano, [2] il nuovo libro di Tiziano Salari, un’opera che ci riporta a Leopardi non solo riprendendo i fili di una sterminata (e mai conclusa) lettura critica di questo maestro italiano, riportando i punti salienti di un dibattito vivo, ma riproponendo anche all’attenzione alcuni temi centrali di quella scrittura inesauribile che fu del recanatese. Sotto il vulcano è opera ricca e complessa, nutrita di poesia, letture critiche e filosofia: in un tessuto di spunti e analisi mai accademiche ci troviamo immersi in una sorta di narrazione, che ne fa un romanzo-saggio che, a partire da Leopardi, avanza sino a noi, analizzando anche in relazione a Leopardi l’opera di Clemente Rebora, Gioacchino Belli, Giorgio Vigolo, Carlo Michelstaedter. I vari saggi di Salari aprono domande ineludibili sul senso del fare oggi una poesia come quella del recanatese: poesia nata dall’intreccio tra vita e pensiero, dove quest’ultimo si alimenta di esperienza e immaginazione. È da notare che la lettura critica si svolge qui dando evidenza sia agli elementi gnoseologici riscontrabili nelle opere, sia alla tensione ontologica sottesa alle stesse, evidenziando così un legame stretto tra estetica ed etica. È questo che, collegando tra loro i diversi saggi, dilata e approfondisce l’orizzonte di analisi di Salari in un libro rizomatico, potrei dire usando un’immagine cara a Deleuze: “lo sguardo” del critico, infatti, procede in varie direzioni e su più piani quasi contemporaneamente e il lettore è condotto in un movimento sia “orizzontale” - attraverso le varie opere di Leopardi e nel dialogo con i maggiori autori della critica leopardiana nel tempo - sia “verticale”, verso la profondità dei temi e delle tensioni interne alla ricerca leopardiana, tanto da mostrare come tutta l’opera del grande recanatese, sia un vero “organismo vivente”, potrei dire, di poesia e riflessione insieme. Dalle intuizione di Sotto il vulcano intendo partire per azzardare alcune domande (e tentare risposte) sulla poesia italiana contemporanea: “È possibile delineare una sorta di linea poetica 'leopardiana' in Italia che, oltre Michelstaedter e Pavese, di cui scrive Salari stesso, e anche oltre Montale, riguardi alcuni poeti italiani contemporanei?” E ancora: “Esiste oggi una poesia che - rifuggendo dal nichilismo, intimismo e minimalismo dilaganti - abbia in sé una tensione etica, tale da porsi nel solco de La Ginestra?”. A queste domande dedicherò la parte finale del mio saggio. Vediamo ora alcune riflessioni offerte da Sotto il vulcano.

 

 

Il senso del tragico: attualità e classicità

 

Tra le acute intuizioni della prima sezione del libro mi preme sottolineare l’analisi del rapporto tra Hölderlin e il giovane recanatese. Tra i due grandi poeti, scrive l’autore, vi era al contempo vicinanza e distanza: Leopardi diceva che ogni illusione era stata allontanata dal mondo, tanto che il vuoto, il nulla sono condizione del presente (è quella che Hölderlin chiama “la povertà del presente”), ma era ben lontano dal provare nostalgia per il “tempo degli dei” e dal sentire la possibilità di un ritorno al tempo dell’armonia tra uomo e natura. Leopardi, prima di Nietzsche, sa che “dio è morto”, che tutti gli dei sono morti. Nessun nostos è possibile: la sacralità del mondo è perduta irrimediabilmente, tanto che l’eros è espunto dalla fusione panica con la Natura. Tuttavia vi è anche un legame tra i due: Hölderlin e Leopardi appartengono a quella che Salari propone di definire «poesia pensante» invece di «pensiero poetante». L’espressione di Antonio Prete, relativa allo Zibaldone, crea secondo Salari un’ambigua commistione tra i due termini, sino a rischiare di presentare l’opera di Leopardi come «un ibrido» e annullarne la peculiarità. Leopardi «non ha affatto bisogno del suo filosofo di elezione, in quanto il suo “canto” contiene già il suo “controcanto” filosofico» (p. 63), da ciò possiamo concludere che è possibile parlare di una poesia «pensante» che in Italia viene da Leopardi. Nella sezione successiva - che dà titolo al libro - Salari attraverso “La Ginestra” svolge un intenso colloquio interiore con Leopardi. Davanti al Vesuvio il poeta scrisse un vero «testamento estetico ed etico», nota Salari, in cui si rivela la particolare natura del suo pensiero e della sua poesia: «nessuna parola è diretta ad ispirare un abbandono lirico e sentimentale sulla disperante condizione umana, ma è piuttosto tesa a far riflettere sulle ideologie e filosofie che velano e mistificano l’orrore (il male) connaturato a tale condizione» (p. 77). Ne “La Ginestra” emerge il tema del deserto, svelando la sfiducia leopardiana nel progresso, con il conseguente rifiuto di ogni ideologia dominate a suo tempo, da cui consegue la critica all’antropocentrismo. La visione che attraversa quest’opera è simile a quella della Waste land di Eliot, ma nel poeta italiano - nota Salari - il deserto «rompe gli schemi temporale della modernità per diventare la forma pietrifica ed eterna dell’esistenza stessa» (p. 74), ponendosi emblema della condizione ontologica dell’uomo e anticipando così l’esistenzialismo novecentesco. L’attualità di Leopardi, dunque, è grande ma si tratta di assoluta classicità: il recanatese, infatti, fa proprio il senso del tragico che fu di Empedocle, dei tragici greci, di Petrarca e Shakespeare e che ritroviamo nelle opere di altri grandi poeti, artisti e filosofi di tutti i tempi, tra cui - per citare alcuni nomi con Salari - Ibsen, Beethoven, Schopenhauer, Rilke, Michelstaedter e Pavese, due poeti su cui il nostro autore si soffermerà in seguito. Tale senso del tragico si fonda su un pessimismo che scaturisce dalla consapevolezza dell’insuperabilità del male e dell’ineluttabilità del destino di dolore dei vivente, ma non cade in esiti “remissivi”, in quanto non arriva al nichilismo che, invece, pone una sorta di “scacco” dell’arte e della poesia. Ma se per tutti i viventi il destino è dolore e infelicità; se tutti sono parte della Natura - e lo sono persino la ginestra e il vulcano - che cosa spetta al poeta?

 

Salari procede citando lo Zibaldone: «il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’m mi son un che quando Natura parla etc. vera definizione del poeta. Così il poeta non è se non imitatore di se stesso» (10 settembre 1828). Pare forte la contraddizione tra soggettività e destino, tra immaginazione e realismo, ma il grande poeta di Recanati indica una via d’uscita che, nota Salari, è «nella purificazione interiore, che è uno svuotamento, un superamento dell’uomo in quanto Natura, non un superuomo o oltreuomo nietzschiano». L’utopia etica di Leopardi nella Ginestra si fonda su una posizione di umiltà dell’Io, da cui trae origine quello che Salari definisce «nichilismo solidale (p. 119): un atteggiamento che coincide con la saggezza antica degli Stoici e dei tragici greci e che io definirei di fratellanza nella debolezza, di cui il poeta è portavoce. Come la ginestra è contenta dei deserti, tanto che la sua presenza è per tutti consolazione, possiamo dire che l’uomo (il poeta, soprattutto!) che accetta il destino e depotenzia il proprio narcisismo può “comunicare” agli altri la sua consapevolezza e, attraverso la poesia, realizzare una sorta di “resistenza solidale” tra gli umani. Com’è possibile attuare l’umiltà dell’Io che annulli la “volontà di potenza” e come ciò incide sul ruolo del poeta e sul fare poesia? La Natura stessa, nota Salari pensando a Freud, ha in sé pulsione di vita e pulsione di morte: la volontà di vita coesiste nei viventi con l’acquietarsi della stessa. L’esistenza umana si dà come insanabile tensione tra desiderio e fine dello stesso, tra volontà dell’Io e accettazione del destino, quindi, tra spinta vitale e oblio dell’Io: proprio in questa tensione mai conclusa ha origine la poesia, che proprio per questo - come ho già sostenuto in vari editoriali della rivista La Mosca di Milano - è conoscenza liminare, parola che nasce “sul confine”, là dove si sospende il sapere noto e gli opposti (Io e mondo, interiorità e realtà esterna) si fronteggiano, si intrecciano e si contaminano. All’inizio poesia e filosofia erano un’unica cosa, annota Zambrano [3] e solo in seguito si sono separate, scindendo l’unità del rapporto tra uomo e mondo, tra sentire e pensare. Ma a quell’unità si può tornare.

 

 

L’umiltà dell’Io e il linguaggio della poesia

 

Nel saggio successivo - “Sull’oblio. Navigazione babelica” - Salari partendo dall’interrogazione del rapporto tra vita e morte pone il tema dell’oblio, per giungere all’analisi del rapporto tra scrittura poetica e oblio dell’Io. Epicuro, Spinoza e Montagne concordavano nell’allontanare come negativo e inutile il pensiero della morte, pur su motivazioni diverse, ma alcuni secoli dopo Blanchot «attribuisce alla scrittura la stessa funzione di ricreare come un assaggio e una sembianza di morte» (p. 145), nota Salari, così anche Heidegger, che vide centrale il momento in cui l’Esserci assume su di sé il peso della propria morte come destino e non la rifugge più accogliendola. Per il mistico medioevale Meister Echkart l’oblio era la via verso un sentire/conoscere ampio e dilatato, proprio come per Rilke, il grande cantore dell’impossibilità di vincere l’oblio, per il quale la consapevolezza della morte è rinascita e inizio di poesia. Per Leopardi - ateo e materialista - la morte è pura e semplice “fine del male”, termine del nostro soffrire, ma senza per questo pensare al suicidio. Si può dire con Salari che, pur nelle diverse vie seguite, i poeti, superando la logica aristotelica del tertium non datur, vanno oltre il Logos univoco e legislativo di Cartesio e Kant, dicendo «la Krisis dei fondamenti come apertura alla molteplicità attinta attraverso la riduzione o l’estinzione del principium individuationis dell’io», il che apre la strada «alla comprensione dell’essere» (p. 148). È l’umiltà dell’Io - la riduzione delle pretese interpretative e giudicanti del Logos sul mondo, la limitazione della volontà di potenza - che dà la possibilità di una conoscenza più profonda. La poesia nasce da questo. Salari sottolinea che l’essere umile del poeta, però, non consiste in «pratiche yoga o esercizi spirituali o estati mistiche, ma unicamente porre la centralità di ogni esperienza nel linguaggio». Affermazione decisiva: l’umiltà dell’Io in poesia è testimoniata dalla lingua. A tal proposito cito Gertrude Stein che, con l’insistente identità della sua nota frase: “a rose is a rose, is a rose, is a rose” invita a stare di fronte al puro enunciato che rivela il darsi simultaneo nelle parole di essere e non-essere, esponendoci all’allarmante e disarmante nudità delle cose. Franco Rella, di cui Salari rilegge l’Introduzione alla traduzione delle Elegie udinesi, cita la tesi di Marina Cvetaeva «secondo la quale Rilke disegna con la sua opera “uno spazio che non è né vita, né morte, ma una terza nuova cosa”. Quel culmine poetico raggiunto con le Elegie udinesi e i Sonetti a Orfeo – la salvezza del mondo attraverso la verità della poesia – è stato possibile dopo la scoperta, descritta nel Malte, della precarietà del mondo» (p. 152). La poesia, dunque, nasce dalla consapevolezza del limite umano, dall’accettazione del nostro essere fragili e caduchi. Nell’esperienza odierna, invece, l’oggetto dell’oblio è proprio la fragilità dell’umano: la morte, la malattia, la vecchiaia e ogni elemento che dica il nostro essere carnali e morituri è “espulso” dalla cultura, rimosso. La crisi dell’età contemporanea è data dalla tracotanza, che segna la cultura contemporanea e la luigua, come direbbe Cristina Campo: dove regna hybris con la sua potenza distruttiva la lingua stessa si snatura in chiacchiera e volgarità.

 

Se la lingua è incapace di dire la profonda essenza del nostro essere umani - il nostro essere corpo tra altri corpi, diviene anche incapace di dire la realtà, le cose che ci circondano e il nostro rapporto con esse. Partendo dalla crisi del linguaggio ci si può avvicinare al pensiero della filosofa Maria Zambrano, autrice di cui condivido gran parte della ricerca, che in Chiari del bosco [4] invita a sospendere la «funesta domanda che crediamo costitutiva dell’essere», abbandonandosi ai «chiari del bosco», dove forse può avvenire «un evento non cercato». È nel punto dove «non si dice e non si nasconde, ma dove solo si accenna» che - secondo la filosofa spagnola - può mostrarsi una conoscenza non dicotomica, ma unitaria eppure mobile, prossima alla complessa unità che è la vita stessa. Una conoscenza prossima, dunque, alla sapienza degli oracoli antichi? Vicina all’illuminazione di Rimbaud? No, non credo che oggi sia questa la via da seguire in poesia. Limitando la presunzione dell’Ego, il poeta si apre al mondo e alle cose e le coglie nella loro nuda presenza: nessuna “rivelazione”, quindi, ma semplice esposizione del poeta al mondo. Zambiano, infatti, in Filosofia e Poesia definisce la poesia «pratica erotica del mondo»: un sentire nel proprio corpo l’essere corpo del mondo stesso, il che ci riporta a Merleau-Ponty. In Leopardi tra pensiero ed esperienza c’è la potenza del corpo: il desiderio. Infatti, nella sua analisi dell’Infinito, [5] Antonio Prete vede che in Leopardi l’origine di uno “sguardo” che superi il limite del finito e il suo scacco conoscitivo sta nel desiderio, dove si radica l’esperienza simbolica e la forza immaginativa, avvicinandoci al piacere.

 

L’eros, apogeo e oblio del corpo, è potenza desiderante che ci rivela - come dice Pier Aldo Rovatti nel suo famoso libro - che il nostro esistere sia un abitare la distanza, un essere in bilico tra possesso e perdita, tra presenza e assenza al mondo e a noi stessi. È la potenza desiderante dell’eros che apre al mondo, all’altro da sé, dando inizio a una diversa conoscenza e a una lingua nuova. L’umiltà dell’Io, dunque, è da intendersi come condizione interiore che dà inizio a una conoscenza nata dalla «ragione del corpo», come direbbe Nietzsche.

 

 

Nichilismo o realismo intensivo?

 

Mi soffermo sui due capitoli finali di Sotto il vulcano, ricchi di spunti per la mia riflessione sulla poesia contemporanea, dedicati l’uno a Carlo Micheltstaedter e l’altro a Cesare Pavese, ricordando solo brevemente - per motivi di spazio - che vi sono altre parti saggistiche interessanti. Un saggio sul rapporto tra Clemente Rebora, Leopardi e la musica; uno su Giocchino Belli che, dice Salari, ebbe la stessa visione tragica del mondo di Leopardi ma “vista dal basso”, in senso più corporeo che linguistico, creando una sorta di “commedia umana”, un macrocosmo balzachiano di tragico e grottesco. Interessante la riflessione su Giorgio Vigolo, «l’eremita di Roma», nella cui opera convergono l’orfismo di Campana e la poesia discorsiva di Cardarelli (p. 218). Ma torniamo a Micheltstaedter e Pavese. La persuasione e la rettorica e I dialoghi con Leucò sono, per Salari, l’espressione più alta di quel “tempo dell’ansia”- parafrasando W.U.Auden - che accomunò molte generazioni europee.

Il giovane poeta goriziano, infatti, approda alla tragica consapevolezza che l’esistenza è dolore, non appartenenza e, dunque, mancanza di vita: solo chi ha accolto in sé il dolore e la morte non si dibatte, non perde se stesso, ma avverte una profonda comunanza con tutte le cose e sceglie, dunque, il suicidio come “verità di vita”. La persuasione (la scelta di poter morire) per Micheltstaedter è vera vita: atto di libertà, vittoria sulle lusinghe e falsità della vita con le sue ideologie e i falsi miti della rettorica. Tesi questa che slitta - va detto - verso un nichilismo eroico ma insieme remissivo, che sottrae il poeta al mondo e dichiara lo scacco della poesia, cosa che Leopardi non disse mai, in ciò dunque va colta una differenza sostanziale tra i due.

La nota dominante dell’opera di Pavese, secondo Salari, è l’ansia e il racconto più emblematico di tale atteggiamento interiore è Fine d’agosto in Feria d’agosto che, insieme a Dialoghi con Leucò, è centrale per capire lo scrittore piemontese. Mi interessa però mettere in luce come Salari colga il «platonismo» di Pavese a partire da Il mestiere di vivere. Conoscere è riconoscere, per Pavese, in quanto per il grande scrittore si conosce solo ciò che è parte della vita, per cui sono inscindibili vita e arte, poesia e pensiero. Questo emerge anche nel senso che Pavese diede ai simboli: intensificazione del vissuto in cui si svela la potenziale valenza universale di ogni esperienza individuale, allorché il dato concreto si fa simbolo e mito, acquisendo una forza insieme ontologica e gnoseologica. Il suicidio per Pavese non è un gesto eroico e, infatti, leggiamo «non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla» (p. 268). Il suicidio, lo scacco della poesia: questo è il problema del nichilismo che ha segnato il Novecento e - in altre forme - giunge sino a noi.

La consapevolezza del “tragico vero”- che Leopardi aveva colto già nel 1824 - è di fatto divenuta patrimonio comune della cultura dal 1910, nota Salari, raggiungendo il suo apice nel secondo Novecento soprattutto con l’esistenzialismo e il conseguente nichilismo che ha segnato (e segna ancora!) la cultura e la poesia italiana. Frutto di un impasto strano di ideologia e senso di impotenza, di cinismo e narcisismo che ha visto accomunati i più diversi pensatori, il nichilismo si è diffuso, generando un atteggiamento che, di fatto, è stato connotato dalla negazione della possibilità che arte e poesia avessero “diritto di parola”, il che ha finito per essere - e lo dico con la lucida espressione di Franco Romanò - «un’apologia dell’esistente», [6] che ha determinato una “chiusura” di sguardo della cultura e il ripiegamento intimista di molta poesia su se stessa.

 

Che fare? Se la poesia è «educazione all’intensità», come afferma Giancarlo Majorino e come credo anch’io, un’attenta rilettura di Leopardi permetterà forse di lasciarci alle spalle le secche del nichilismo e dell’intimismo.

A mio avviso occorre una poesia che colga il complesso rapporto tra Io e mondo, il legame tra esperienza del presente e memoria, tra visione e riflessione, mostrando ciò che nella vicenda individuale è universalmente condivisibile. Poesia di realismo intensivo e che, ripeto, ha in Leopardi un grande maestro: per andare oltre il Novecento occorre… tornare indietro…

 

 

Leopardi e la poesia contemporanea: umiltà dell’Io e tensione etica

 

Superati gli anni della Neoavanguardia con tutta la carica dirompente e gli eccessi di ideologia sulla poesia, scordato oggi, ormai, anche il vivace dibattito degli Anni Settanta sorto attorno alla Parola innamorata, [7] vediamo che la poesia contemporanea … ristagna. Nonostante le molte antologie edite in questi anni e le tante dichiarazioni di “giovani poeti” (spesso giovanissimi!) che si dicono “oltre il Novecento”, in buona parte della poesia italiana prevale (anche per scelte della “grossa” editoria!) una scrittura ancora nichilista, connotata da un esasperato individualismo, spesso minimalista. Poesia priva di tensione e di sguardo, perlopiù si tratta di «una poesia della traccia», come la definisco in un editoriale de La Mosca di Milano, [8] che non coglie il telos della vita, il destino comune ai viventi, ma si limita a dire la superficie del reale, i fatti meramente fenomenici, scivolando spesso nel resoconto minutamente esperienziale e, dunque, privato del vivere.

Superficie e profondità, nota Merleau-Pointy, [9] non sono mai separate e, infatti, partendo dai dati sensibili dell’esperienza Leopardi seppe svelare la fragilità dell’umano di fronte alla natura e il destino di sconfitta che ci spetta se non si trova una diversa “solidarietà” tra viventi: il suo pessimismo non giunge mai al ripiegamento intimista o dichiarazioni sulla “inutilità della poesia”!

Entro il panorama italiano contemporaneo, però, vi sono alcuni poeti “leopardiani”,almeno per certi versi, nel senso che la loro poesia non approda né al nichilismo, né all’intimismo ma si fonda sulla messa di lato dell’Ego e sulla consapevolezza della condizione tragica del vivere, trovando anche una tensione etica. Per motivi di spazio mi soffermo solo su tre poeti che penso indicativi di diversi modi di essere prossimi a Leopardi: Giampiero Neri, Guido Oldani e Mauro Ferrari. Di altri, che ritengo vicini alla ricerca leopardiana e sui quali ora non scrivo, spero di potermi occupare in una successiva riflessione.

  

Nella poesia di Giampiero Neri «la vocazione alla fedeltà descrittiva fin dall’origine è un questione di giustizia dell’osservazione e insieme della lingua, e come tale appare tutt’uno, perché la richiede, con la tensione a un’alta centralità umana, con la decisione di una presenza morale», nota Roberto Galaverni. [10] Tale posizione di singolarità e originalità di dettato poetico si coglie già in L’aspetto occidentale del vestito, [11] opera che si distingueva nettamente nel panorama poetico italiano del tempo, in quanto è stato notato da Daniela Marcheschi che la ricerca di Neri di una lingua “antipoetica” si poneva allora ben lontana sia dall’Ermetismo del primo Novecento, sia dalla Neoavanguardi. Neri, infatti, attua una commistione di poesia e prosa che,sebbene sia in linea con una tradizione che viene dalla Vita Nova di Dante, trova un modo nuovo di porsi, avendo a riferimento soprattutto due autori, che sono secondo questa critica: Gozzano, in particolare con il poema incompiuto Le farfalle, e Campana, il primo che in Italia realizzò una poesia in prosa. Neri non separa mai i due momenti e tiene viva la «continua tensione fra i due generi». [12] Dobbiamo dire che la poesia impassibile e crudele, laconica e sentenziosa di questo poeta spiazza il lettore, spingendolo a soffermasi, a ritornare indietro e rileggere il testo per interrogarsi sul senso. È poesia di significato, nota tra gli altri Adam Vaccaro, facendo anche riferimento al recente testo di Neri La serie dei fatti [13] contenente preziose riflessioni del poeta stesso che vanno dal 1990 al 2003, raccolte a cura di Victoria Surliuga, che ha dedicato a Neri anche una monografia. [14] In una frase di “Nota personale”, contenuta nel suddetto volume, Vaccaro sottolinea come la scrittura poetica di Neri «è posta tra due corni: da un lato “mettere in guardia” dall’altro essere una “pietra d’inciampo, una forma di opposizione alla superficialità delle chiacchiere», infatti tra i «compiti e uffici della letteratura», secondo Neri, ci sono «il far parte, l’informare…solo in apparenza pacifico», [15] il che evidenzia la tensione etica intrinseca alla scrittura del poeta comasco. È stato detto da Marcheschi, nel saggio già citato, come proprio l’attenta registrazione dei particolari naturali e storici funga da “messa in guardia”, verso il lettore, come un “avviso”, tanto che il mimetismo degli animali e vegetali - che troviamo sia in Teatro naturale, [16] sia di Erbario con figure, [17] ora in Armi e mestieri [18] «può diventare il nucleo stesso della poesia di Neri, poiché l’autore ne utilizza tutte le potenzialità etico-semantiche (e il mimetismo si trasforma allora in figura di pensiero), tutte le ricadute formali», nota Fabio Pusterla, [19] come vediamo chiaramente in un testo di Teatro naturale : «Si nasconde il gufo sul ramo/ durante il giorno,/ si adatta a una diversa parte/ nel suo breve travestimento./ Ma col variare della luce/ abbandona la sua muta inoffensiva,/ nella sua forma e figura/ si presenta al rituale appuntamento».

Occorre vedere, occorre sapere, pare dirci Neri e la sua poesia si riconosce proprio per la chiarezza di un dire distaccato, come si diceva, che fa perno sulla precisione del dettaglio, cosa che è propria anche della più antica tradizione della prosa scientifica, di un Buffon per esempio, o della notazione cronachistica di storici come Guicciardini, Villani e, in certa parte, anche di Machiavelli. In questi versi, dunque, l’Io si dà non come soggetto psicologico, ma come chi osserva, registra e documenta e spesso troviamo termini tratti anche da linguaggi settoriali, tecnico-naturalistici, a volte anche molto specifici, ma mai di tono didascalico, emotivo o introspettivo. E come esempio, leggiamo un testo di Teatro naturale: «Della villa romana/ sul lago/ il pavimento musaico era scheggiato/ da punte di freccia./ Con buona approssimazione/ si poteva ricostruire la scena,/ la provenienza degli assalitori/ la proditoria stagione». A tal proposito Franco Romanò nota che «i versi di Neri […] si offrono al lettore come veri e proprio piccoli quadri; in questo senso Neri è certamente un poeta della vista», [20] come si nota leggendo la poesia “Nel giardino”: «Da quell'intrico di rami/ si tendeva il germoglio di un kiwi/ incontro al ramo di una betulla./ Si formava un nuovo viluppo/ come un piccolo arco di trionfo/che vede il kiwi prevalere/la betulla vicina a soccombere/e l'ospite a meditare nel giardino. Romanò rileva, inoltre, che tale precisione avvicina il particolare “sguardo” di Neri alla pittura orientale, dove «chi ammira il quadro ha la sensazione di vedere tutto con facilità; ci vuole un'osservazione molto attenta, costante nel tempo e meditativa, per cogliere l'architettura nascosta del dipinto». [21]

Possiamo dire che nei testi di Neri è annullato il soggetto emotivo-psichico, ma esiste come sguardo lucido e oggettivo che, partendo dalla superficie del mondo, scende in profondità: ciò che rende possibile tale movimento di conoscenza è - a mio avviso - la memoria, che si insinua… dentro lo sguardo e lo modifica, dilatandolo e accogliendo le fratture, gli abissi di vuoto e di non-senso. La memoria è centrale nei versi di Giampiero, ma seppure al passato si torna, non c’è mai nostalgia, bensì lo si fa per svelare il presente, poiché «il compito che Neri si assume è coltivare il ricordo, pur sapendo che il ricordo non potrà far altro che delimitare uno spazio vuoto, una fossa comune». [22] Spesso nei testi del poeta comasco il lettore viene come precipitato in un grande silenzio che circonda la parola poetica ed emerge un diffuso senso di tragica minaccia che segna sia la Natura, sia la storia umana. La Natura, infatti, nei versi di questo poeta è una forza violenta: non c’è idillio possibile. Puro movimento meccanico, secondo la legge darwiniana di sopraffazione e lotta, la Natura come la Storia, è segnata dal polemos che agita ogni evento e ogni vivente. Tutta l’esistenza appare, quindi, senza senso e senza scopo ma, di fatto, se si guarda bene sotto e dentro la superficie c’è e i versi di questo poeta mirano proprio a svelare il telos interno al reale. Il male, la minaccia di morte e lo scacco segnano la vita e nessun vivente viene risparmiato: è questa la “legge interna”, che Giampiero scorge e su cui ci sospinge a soffermarci, scardinando così tutte le certezze fondate sull’antropocentrismo. Di fatto se la scena poetica nei versi di Neri pare darsi come “registrazione” di dati e fatti, scopriamo che invece c’è una sentenziosità gnomica, soprattutto nelle affermazioni lapidarie poste in chiusura dei testi, parole capaci di dislocare ogni elemento e gesto in un tempo sospeso, non più cronologico. Come ha notato sia Surliuga nel testo già citato, sia in un recente saggio anche Alessandra Paganardi, [23] si può parlare di «prospettiva di rarefazione del segno ma anche di attraversamento/oltrepassamento della tendenza puramente realistica - una poetica che Neri condivide con De Chirico, Hopper, e con altri artisti». Sulla pagina, continua Paganardi, resta spesso «il senso perturbante di un non detto, di una soluzione impossibile proprio perché apparentemente così limpida, così a portata di mano e magari già significata». La poesia di Giampiero, dunque, nel suo darsi apparentemente semplice, vive invece di continue scarnificazione e sottrazione del dicibili, vibrando di sentenze inappellabili, tanto che le stesse unità logiche sono a volte frammenti dislocati in spazi e tempi diversi tra più testi e, per coglierli, occorre attraversarli tutti. Smontato il senso comune del procedere logico, scosse le fondamenta del consueto stare al mondo, Neri ci svela il destino tragico che segna ogni esistenza e ci porta a interrogarci, il che è molto vicino al senso che aveva la poesia ne “La Ginestra”, come è stato notato anche da altri critici. Certo la distanza tra i due poeti resta evidente soprattutto nelle scelte linguistiche ed espressive: il poeta comasco, infatti, ha una scrittura scabra e antipoetica, come si è detto, di contro ricordiamo la complessità contabilità di endecasillabi e settenari che troviamo negli idilli e nella canzoni del recanatese. Tuttavia resta il fatto che il tono distaccato da naturalista o da cronachista di Neri va visto in una prospettiva etica, in quanto il poeta comasco non vuole né testimoniare, né denunciare secondo la poesia tradizionalmente detta etica o civile, eppure la sua «non è poesia di sopravvivenza. Anzi, è il contrario. L’atteggiamento, anche psicologico, che sostiene questi testi non è in nulla remissivo o residuale, ma propositivo, di fondazione, e in ciò possiede addirittura una sua aspirazione ambiziosa», [24] un’aspirazione che è conoscitiva ed etica.

 

Per parlare della poesia di Guido Oldani prendo spunto da ciò che nota Franco Romanò in un recente saggio sulla poesia dell’autore lombardo: «in questa oscillazione tra invettiva e ironia, indignazione e pietas, si gioca il senso di una poesia che costituisce uno dei pochi esempi di poesia civile contemporanea», il che deriva dal pessimismo radicale che è di Oldani, aggiungo, che però come nota anche Romanò, non appartiene al «pessimismo novecentesco, di origine filosofica»,in quanto in esso «c’è un elemento irriducibile di concretezza che ha che fare con la percezione immediata delle cose […]. Il lavoro poetico di Oldani è fatto di oggetti e sentimenti che si muovono su un teatro dove lo spettacolo in corso manca completamente di regia[…]. Nella poesia di Oldani sembra agire - e va ricordata in questo contesto la sua formazione scientifica - una sorta di sotterranea seconda legge della termodinamica». [25] Il saggio ora citato si conclude sottolineando come il pessimismo di questo poeta nasca chiaramente «da una visione entropica che sembra poter cancellare la fede stessa», evidenziando la forte terrestreità di questa poesia, cosa che fu anche del Pavese di “Lavorare stanca”, citato tra l’altro da Oldani come riferimento poetico, seppure si deve dire che in quest’ultimo non vi sia la tensione mitica che fu del piemontese. È il legame tra pessimismo e terrestreità del dire poetico che pone Oldani in una sorta di “linea leopardiana”, pur avendo il poeta lombardo un modus espressivo molto differente dal recanatese, in quanto i versi di Guido sono fondati spesso su un’ironia tagliente e “corposa”, quasi vicina all’invettiva, che fu solo di certe poesie di Leopardi, come nel cosiddetto ciclo di Aspasia o in certi passaggi de “La Ginestra”. Alle acute osservazioni di Romanò aggiungo inoltre ciò che alcuni anni fa notavo in un mio saggio: [26] la poesia di Oldani rivela la sua «natura indagativa» proprio nell’uso di un linguaggio “corposo”, teso a scardinare l’ordine logico, reinventandolo però in un preciso ritmo poetico che, se da un lato si avvicina alla tradizione dell’endecasillabo, dall’altro ci porta ancora più indietro, alla potenza visivo-visionaria della lingua di Dante, grande maestro per Oldani. Il poeta lombardo, dunque, fa della sua poesia “un’arma” che scende nei dati della superficie, per cogliere il “tragico vero” e per fare ciò scardina il comune modo di vedere le cose e … urta, ustiona il lettore con una lingua intensificata, intesiva e carnale, anche impudìca direi a volte, che entra dentro gli spazi minimi del senso comune, scendendo tra le crepe di senso del reale. Tale “intenzione indagativa” che entra nel corpo stesso della lingua si coglie bene in alcuni versi di Stilnostro: [27] «certe volte mi asciugo/ di parole/ capitolando mi slargo/ nell’interstizio tessuto/  e pocopoi/ e doposecolo», versi che si concludono nella domanda: «Ma il miglior comprendimento/ non è forse in fondo/ o fuori?», con cui si chiarisce la doppia natura dello sguardo di questo poeta che, come noto nel saggio già citato, sa darci sia una visione della superficie - con la chiara attenzione alla concretezza dei dati e degli eventi - sia una della profondità, cogliendo il telos interno al divenire storico ed esperienziale. Infatti, nota Giovanni Raboni che nei testi di Guido vi è un «dire, insomma, ma non per l’in sé del dire (né tanto meno descrivere per l’in sé dell’oggetto), ma per l’in sé di ciò che il dire sollecita e incalza; dire per capire, per essere». [28] La tensione della poesia a cogliere la verità dell’essere avvicina i versi di Oldani anche a quelli di Clemente Rebora, che usava il linguaggio non per comunicare, ma « per essere, per cercare di essere», e infatti notò Angelo Romanò a proposito di Oldani che «lo stesso titolo Stilnostro non è riferito alla letteratura, ma alla vita: stile è inteso come qualità non dell’arte ma come modo di essere, come condizione: l’angoscia, per altro la condizione più intimamente familiare al pensiero moderno. Solo chi è angosciato rinuncia a usare il linguaggio per farsi capire […] e usa invece il linguaggio per far baluginare una realtà, che alla storia non è riconducibile, che sta dove gli uomini e i loro prodotti non possono stare». [29] Oldani mira, dunque, a scorgere il “tragico vero” e a fare della poesia una voce di consapevolezza dell’esistente, come leggiamo nel testo “Il marcio”, nella raccolta Sapone: [30] «il marcio inseparato si nasconde/ e non c’è modo di levarlo in volo/ disgusta già di sotto di una suola/ compare in una smorfia nel suo troppo/ e ha un raspo sordo che ingrama fermentando./ senza le mani adatte a discrostarlo,/ e la foglia di pudore per coprirlo/ allora sogni mutilarlo netto/ o almeno abbia una veste di relitto./ ti avvezzi intanto al lento cronicario/ mentre si fugge la grazia con delirio». In Oldani vediamo una forte tensione conoscitiva che svela il male radicale che segna non solo le cose naturali e la vita, ma anche i corpi e le stesse anime, rivelando il degrado degli umani che vivono nei versi come dentro scene da Malebolgie, come si legge in “Stradario”, poesia tratta da Sapone: «l’ombrello spiegazzato è aperto tondo/ e dai suoi buchi proclamano le stelle,/ gli stracci dei cespugli e delle fronde/ s’inzuppano nel piscio della pioggia/ su d’una cartolina in cui il quartiere./ è dentro allo stradario a coordinate/ che sono i viali e i corsi tratteggiati/ inclusi quando i nati e di deceduti/ e il tram da cui se è sorte io ti scorgo/ lamenta in questo cardo urbanizzato». Possiamo sottolineare che la tensione conoscitiva si svolge in Oldani con precisa intenzione di svelamento e denuncia: poesia civile? Non proprio, a mio parere, ma poesia di una forte tensione etica, che non sorge da un’ideologia politica o dalla filosofia, bensì dal radicarsi del poeta nella terrestrietà e corporeità del vivere, dove si scorge il senso profondo della vita. E avvertiamo in ciò una certa vicinanza tra i versi di Sapone - e anche della più recente raccolta La Betoniera [31] - e il lavoro dei due grandi dialettali Belli e Porta, con la capacità di disegnare una sorta di balzachiana “commedia umana”. L’Io del poeta in ogni raccolta di Oldani si mette di lato e “registra” il reale, lo svela con occhi freddi, taglienti seppure ironici nel suo carattere “contusivo”, come afferma l’autore stesso, assiepato, confuso, insensato e anche ostile verso ogni vivente. Il dolore, l’infelicità, la non comunicazione e la violenza sono destino comune a tutti, sembra dire il poeta, e dominano incoscienza, meschinità e bassezza, tanto che la vita umana si trascina, sospinta dagli appetiti più bassi e dalla ricerca del guadagno. Ecco che ogni poesia di Guido, dunque, ci mostra una tragica commedia in atto nel presente, di cui la poesia si fa testimonianza, svelando il degrado profondo. È possibile allora scorgere in questa poesia tracce dell’utopia etica de “La Ginestra” leopardiana? È possibile pensare a una “vicinanza solidale”? Forse sì, poiché in ogni raccolta poetica di questo autore, proprio il mostrare/denunciare l’esistente svela l’intima convinzione del poeta che la poesia, dicendo “l’arido vero” senza infingimenti e senza slanci lirici, spinga alla consapevolezza, da cui potrà nascere forse anche una diversa modalità di vita.

 

Lorenzo Moradotti a proposito di A fondo delle cose, raccolta di Mauro Ferrari il cui titolo è di per sé indicativo, scriveva che tutto in questi versi «ruota attorno al fulcro costituito dal dialogo e dall’attrito che, a volta a volta si manifestano fra due poli simbolicamente eletti, la superficie dominata del tempo che “aggira ostacoli/ o li dissipa a fior d’acqua” e la dimensione eterna, solenne della profondità: “lento il micelio intesse/ sotterraneo le sue trame e cresce / lenta una frenesia d’autunno/ d’acque che calino agghiacciate/ su ciò che si attarda a sopravvivere». [32] C’è un doppio sguardo in questi versi e, per coglierlo appieno, è determinate leggere la prima sezione del libro, “Il libro di Francesco Stilita”, dove compare la figura di un poeta-asceta che, dall’alto di una rupe su cui si è ritirato, osserva il mondo, meditando sulla condizione umana. Il mondo è dimora ostile, un inganno: tutto è putredine e gli umani devono navigare vigili: «Macrophilus contempla ovunque il Male,/ orrore e corruzione di carne spirito; / altri si perdono cercando il bene. Ed io/ non percepisco amore in questa serra/ nessun germoglio dalla pianta vizza», leggiamo. La domanda se ha senso vivere e, soprattutto, se lo ha persistere nella scrittura sorge spontanea a Ferrari : «ma avremo Storia a sufficienza/ per rimediare la stoltezza […]» e appena oltre: «il gesto quotidiano e antico/ che logora la penna e la coscienza/ avrà lo stesso avuto una ragione?». Ferrari/Stilita scopre però possibile un altro modo di abitare la vita, in contrasto con Procuro - il personaggio di un’altra sezione del libro, poeta mondano e cortigiano – che consiste nel vivere di lato al mondo, possiamo dire, circondandosi di poche cose, imparando l’umiltà estrema di avere … solo una ciotola e un sasso accanto, il che fa scoprire una verità prima celata, tanto che Ferrari/Stilita può scrivere in un altro testo: «solo la carpa/ sonnacchiosa al fondo conosce/ la superficie delle cose/ così increspata ed insidiosa,/ l’eccitazione e il dubbio/ prima che il buio raggeli». Vivendo senza alcuna presunzione, il poeta capisce che il senso del tutto va oltre la ragione e si svela solo a colui che è «giorno su giorno ostaggio della morte», leggiamo altrove. Chi accetta di appartenere al flusso del tempo, al suo divenire, conosce il telos interno al divenire che muove ogni cosa: il tempo, che nel suo trascorre rode ogni cosa e noi stessi. Il tempo è il tema centrale della poesia di Ferrari, che si avvicina alle tesi heideggeriane sull’Esser-ci, il Dasein, secondo cui il nostro “esser gettati nel mondo”, in balia di una vita in autentica, segna l’esistenza e si esce da tale condizione solo trasformando l’originaria “deiezione” in esistenza autentica, in consapevolezza della propria mortalità e finitezza. Solo rigettando l’impersonalità della “chiacchiera” e del “si dice” - secondo Heidegger - si potrà aprire la propria esistenza all’alterità e alle altre possibilità interindividuali, e la parola poetica è veicolo di tale verità. La consapevolezza del nostro essere “temporali” è determinante anche per Ferrari, in quanto scardina ogni antropocentrismo e ogni umana presunzione, rendendoci “ricchi” di una sapienza che ci fa scoprirsi di essere solo creature tra altre creature. In questo modo Ferrari si pone lontano da ogni slancio superomistico o narcisistico e, infatti, leggiamo nel “ringraziamento”, scritto dall’autore stesso in Il bene della vista, [33] come il poeta si pone «ostinatamente fuori di ogni canone imperante, perché considera l’Io un punto di vista e non un oggetto di poesia», il che equivale a dichiarare di voler fare una poesia nata da quella che abbiamo denominato umiltà dell’Io. La poesia diviene allora voce, capace di dire la realtà che ci circonda, cogliendo però anche nel reale il comune destino di caducità che tutto sospinge. Molti di questi temi si trovano già nell’opera del 2003, Nel crescere del tempo, [34] riproposta come sezione del libro del 2006; per questo voglio soffermarmi sul testo di apertura del Il bene della vista, “Pensarsi liquidi”, una poesia di riflessione e anche di slancio etico. «È questo il limite, credersi forme solide/ e risentirsi degli spigoli che s’urtano/ e non combaciano; la nostra vita/ balza allora dallo sfondo, fuori fuoco” e poi “ Si cresce senza troppo merito/ svolgendo la banale funzione del nautilo/ che prospera in silenzio e grida sogni eterni» e nella terza strofa, leggiamo: «Meglio pensarsi liquidi, legami atomici più deboli,/ quell’inumana miscibilità dei corpi che solo un attimo/ un angelo in delirio può aver immaginato/ chissà da dove cadendo». Senza consapevolezza ognuno vive da naufrago, pare dirci Ferrari, trascinato dagli eventi, dall’accadere delle cose, chiuso nel proprio solipsismo. È la nostra “chiusura” narcisistica che ci fa credere di essere «forme solide», in realtà siamo «sperduti», scrive il poeta piemontese, e la nostra stessa probabilità di “urtare” negli altri corpi non sancisce che «masse estranee che si sfiorano», tanto che lo «stridore di un tocco» è solo immaginato. Ma anche nel «pensarsi liquidi» il risultato non cambia: non c’è scampo, non c’è speranza che venga dalla mera volontà o dal sogno individuale. Scrive Gianni Caccia, a proposito del libro del 2006, che «in sostanza Ferrari propone di reagire all’ineluttabile scorrere del tempo onorando la principale funzione della poesia, la sua portata etica e conoscitiva; così si può affrontare la circolarità e ricorsività del tempo, ben simboleggiata dalla clessidra i cui grani sono specchio della condizione umana», [35] come leggiamo nel testo “Parole dei grani di clessidra”.

Per Ferrari la poesia è fonte e insieme forma di una conoscenza che è scavo nel reale, creazione di cunicoli e passaggi: certo il “bene” non riesce a vincere la tenacia e il perdurare del “male”. «Il Male fu nell’intraprendere la rotta, ab ovo/ Poi tutto fu conferma», leggiamo in alcuni versi e, infatti, stato è notato ancora da Caccia che « il poeta vede il mondo in preda a un laico peccato originale, una culpa naturae di matrice lucreziana» e tale aspetto possiamo dire che trova la sua migliore incarnazione nel paradigma ferrariano delle «devastate geografie/ che ammiccano dall’erba verde sangue [...] sui campi che la storia umana ha concimato». Era stato detto da Sergio Spadaro come nei testi di Nel crescere del tempo «i colori, le atmosfere, di tutte quelle che dovrebbero essere le “presenze” umane che residuano nei testi di Ferrari, si fanno sempre più invernali (“inverno” è una parola-chiave)», così che «ci possono essere momenti leopardiani di un “rammemorare” il tempo giovanile della spensieratezza immemore, ma invano l’uomo cerca appigli di salvezza: non può che sognare un Eden perduto, vagheggiare nostalgicamente un nostos, che porti a una primigenia e prenatale pienezza», [36] che però non è più possibile poiché, leggiamo nei versi di Ferrari, resta solo «la crocefissa nudità del tutto». Ne Il bene della vista come in ogni altra raccolta di questo poeta c’è anche una chiara attenzione alla vita quotidiana: trovimao una poesia-cronaca di una partita di calcio, per esempio, anche il testo “Leggenda delle spigolatrici”, dedicato al nonno defunto, altri con scene di vita quotidiana e i suoi fastidi, o altri ancora dedicati a poeti e poetesse amiche. Va detto che proprio grazie alla presenza di testi più prettamente riflessivi e altri di taglio più esperienziale-quotidiano emerge la particolarità della poesia di Mauro, la complessa varietà delle sue scelte espressive che - scrive Alberto Cappi - rivela come in Ferrari «il linguaggio trova il rito espressivo: evocazione, convocazione, citazione culta, lessico e con ornamenti aurei, nobiltà delle movenze sintattiche, scadenza dell’andatura». [37] Ha rilevato Spadaro, nel saggio sopra citato, che il dato esperienziale e realistico in questa poesia è posto in una lingua piana e consueta, mentre gli slanci lirico-elegiaci e le quasi-invettive, spesso riscontrabili in questo poeta, sono offerte al lettore in modalità “alte”, con uso di antichismi, come ugne oppure dispitto e speme, citazioni dantesche e foscoliane, oppure animula, sorta di calco adrianeo (vagula blandula), così pure con qualche francesismo (mot juste, comme il faut) e con latinismi/grecismi (humus, nostos). La poesia di Ferrari è in linea con la tradizione novecentesca del verso libero, ma ancora Spadaro sottolinea come «raggiunge tuttavia il suo più alto grado di connotazione, la sua più evidente caratterizzazione stilistica, nell’impiego delle figure della ripetizione, di vario genere e modalità», tra cui vengono ricordate dal critico le paronomasie («le sue regioni/ le sue ragioni oscure»); le ripetute anafore e le epifore; l’epanalessi in “Leggenda delle spigolatrici”, ma anche l’anadiplòsi, come nei versi: «sentivi il fiato della terra/ ti sentivi fiato della terra». Tutti gli elementi retorici evidenziati rivelano come il poeta piemontese valorizzi fortemente la musicalità dei versi, in linea con la grande tradizione italiana, ma con poco uso di rime, il che ha senza dubbio origine nella formazione letteraria di Mauro, che ha in Rilke ed Eliot ma anche in grandi autori di area anglofona tra cui Ted Hughes, i suoi maestri. Le osservazioni formali mettono in luce il senso che Ferrari dà al suo fare una poesia come “resistenza”, permanenza dell’umano nel disastro dilagante, nel vuoto che ci circonda. È questo che gli permette di tenersi lontano sia dal minimalismo espressivo, nel contenuto come nelle scelte formali, così come dall’evitare il mero esercizio di una poesia linguistico-sonora. Non facendosi neppure tentare dal recupero delle forme chiuse, il poeta di Il bene della vista riesce a tener fede al suo intento: fare una poesia che sia scrittura “alta”, di chiaro impianto classico, una poesia capace quindi di salvaguardare la potenza espressiva della parola, senza però allontanarsi mai dal dire la vita quotidiana nel suo darsi concreto.

Tutto questo - a mio parere - è segno della valenza etica che Ferrari dà alla poesia anche nel suo costruirsi formale, ponendosi ben al di là di ogni possibile rinuncia nichilista.

 

Gabriela Fantato

 

Saggio pubblicato su La clessidra, n° 1/2007

 

 

 

NOTE

 

[1] Gabriela Fantato, “Quali poeti, quali poetiche oggi?2 In Atti del convegno “Poesia: il futuro cerca il futuro”, Firenze, 4 e 5 marzo 2005, Quaderni della Fondazione Il Fiore, LietoColle, 2006, p. 156.

[2] Tiziano Salari, Sotto il Vulcano, Rubettino, 2005. Si precisa che tutte le pagine indicate nel saggio, se non riportata diversa indicazione, si riferiscono a questo libro.

[3] Maria Zambrano, Filosofia e poesia, a cura di Pina de Luca, Edizioni Pendragon, 1996.

[4] Maria Zambrano, Chiari del bosco, Mondatori,2004; p. 36 e seguenti.

[5] Antonio Prete, Il pensiero poetante, Feltrinelli, 2006, p. 53.

[6] Franco Romanò, nel saggio “Realtà vero sogno. Note sulla poesia di Guido Oldani”, in La Clessidra - semestrale di cultura letteraria - 2/2006; p. 67 e seguenti.

[7] La parola innamorata, a cura di E. Di Mauro e G. Pontiggia, Feltrinelli, 1978.

[8] Gabriela Fantato, nell’editoriale de La Mosca di Milano - rivista di poesia, filosofia e arte - n° 12/2005.

[9] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Studi Bompiani, 1994, p. 167.

[10] Roberto Galaverni, “Giampiero Neri. Come attraversare il deserto”, in Memoria, mimetismo e informazione in Teatro Naturale di Giampiero Neri, a cura di Silvio Aman, Edizioni Otto/Novecento, 1999, p. 91.

[11] Giampiero Neri, L’aspetto occidentale del vestito, Guanda, 1976.

[12] Daniela Marcheschi, “Giampiero Neri o della co-esietenza”, in Memoria, mimetismo e informazione in Teatro Naturale di Giampiero Neri, a cura di Silvio Aman, Edizioni Otto/Novecento, 1999, p. 19 e seguenti:

[13] G. Neri, La serie dei fatti, a cura di Victoria Surliuga, LietoColle, 2007.

[14] Victoria Surliuga, Uno sguardo sulla realtà - la poesia di Giampiero Neri, Joker ed., collana Materiali di Studio, 2005.

[15] Adam Vaccaro, “La risalita all’utopia originaria di “uomo naturale”- Il pensiero precristiano della poetica di Giampiero Neri”, saggio su ADIACENZE, rivista telematica a cura di A. Vaccaro, Febbraio 2007.

[16] G. Neri, Teatro Naturale, Mondatori, 1998.

[17] G. Neri, Erbario con figure, LietoColle, 2000.

[18] G. Neri, Armi e mestieri, Mondatori, 2004.

[19] Fabio Pusterla, “Il nervo di Arnold e altre osservazioni”, in Memoria, mimetismo e informazione in Teatro Naturale di Giampiero Neri, a cura di Silvio Aman, Edizioni Otto/Novecento, 1999, p. 29.

[20] Franco Romanò, “L'oriente di Giampiero Neri”, intervento tenuto in occasione del convegno “Insieme per il compleanno di Giampiero Neri”, a cura di V. Surliuga, 07/04/2006, Libreria Mondatori di Milano, organizzato da LietoColle Edizioni.

[21] F. Romanò, ibidem.

[22] F. Pusterla, op. cit., p. 35;

[23] Alessandra Paganardi, “Il tempo senza confini- Enigma, storia e natura nella poesia di Giampiero Neri”, intervento tenuto in occasione del convegno sopra citato, per il compleanno di Giampiero Neri, a cura di V. Surliuga, 07/04/2006.

[24] F. Pusterla, op. cit., p.32.

[25] F. Romanò, “Realtà vero sogno. Note sulla poesia di Guido Oldani”, in La Clessidra - semestrale di cultura letteraria - 2/2006; p. 71.

[26] Gabriela Fantato, “Del corpo e della parola poetica, note sui testi di Jolanda Insana, Guido Oldani, Adam Vaccaro e Lucetta Frisa”, in Sotto la superficie - letture di poeti italiani contemporanei (1970-2004), ed. Bocca, 2004, p. 141.

[27] Guido Oldani, Stilnostro, CENS, 1985.

[28] Giovanni Raboni, “Introduzione” a Stilnostro.

[29] Angelo Romanò, in “Antologia della critica”, Kamen' - rivista di poesia e d filosofia, n° 0, maggio 1991.

[30) G. Oldani, “Sapone”, Kamen’ - rivista di poesia e d filosofia, n° 17, Gennaio, 2001.

[31] G. Oldani, La Betoniera, LietoColle, 2005.

[32] Lorenzo Morandotti, “Prefazione” alla raccolta di Mauro Ferrai Al fondo delle cose, Joker edizioni, 1996.

[33] M. Ferrari, Il bene della vista, Joker edizioni, 2006.

[34] Marco Jaccond Salpare – arenarsi / Mauro Ferrari, Nel crescer del tempo, i quaderni del circolo degli artisti, 2003.

[35] Gianni Caccia, in “Saper vedere il tempo che cresce” - Mauro Ferrari, “Il bene della vista”, saggio comparso sul sito letterario www.vicoacitillo.it.

[36] Sergio Spadaro, “Mauro Ferrari: nel gorgo del tempo”, in clanDestino, n. 2/2002.

[37] Alberto Cappi, “Prefazione” alla raccolta Il bene della vista, op. cit.

 

 

 

NOTIZIA BIOGRAFICA

Gabriela Fantato (Milano 1960), insegna Lettere in un Istituto Superiore. Suoi testi e saggi critici compaiono su varie riviste. Ha pubblicato i libri di poesia: Fugando (Book editore,1996); Enigma (DialogoLibri, 2000); “Moltitudine” in Settimo Quaderno di Poesia Italiana, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2001); Northern Geography, con traduzione di E. Di Pasquale (Gradiva-New York University, 2002); Geografie a Nord (Edizioni Signum d’arte, 2001). Nel 2005 è uscita una antologia della sua produzione poetica, Il tempo dovuto, poesie (1996 – 2005), Editoria & Spettacolo, Roma 2005. Ha scritto per il teatro: Salomè Saltatrix (Teatro di Villa Reale, Monza 1999); Messer Lievesogno e la Porta Chiusa (Teatro Comunale, Bologna 1997); Ghost Cafè (Teatro Donizetti, Bergamo, 2000), Enigma (Piccolo Teatro di Milano, 2000). Co-dirige la rivista di poesia, filosofia e arte La Mosca di Milano.


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