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Valter Vecellio. Ambiente: appunti su esempi ed esperienze che non dovremmo trascurare 
Aveva ragione Pannella, quando proponeva di aggiungere Gore a Blair, Fortuna, Zapatero
24 Gennaio 2008
 

A quelli di Blair, Fortuna e Zapatero, Marco Pannella mesi fa propose di aggiungere il nome di Al Gore. Una proposta lasciata cadere, e col senno di oggi, è stato un errore. An Incovenient Truth, il documentario che racconta come l’umanità sia “seduta su una bomba ad orologeria” a causa del surriscaldamento dell’ambiente non sufficientemente contrastato, a detta di qualcuno, è un’abile operazione di marketing, contestabile quanto a scientificità. Non è tuttavia contestabile che negli ultimi trent’anni i ghiacci dei poli si stiano progressivamente assottigliando; che le nevi del Kilimangiaro si stiano ritirando; che lo stato del Massachusetts abbia ceduto al mare qualcosa come 26 ettari di terra; che potenti e devastanti uragani come quello che ha messo in ginocchio New Orleans, si siano moltiplicati. Né tantomeno è contestabile lo studio di Scienze Magazine secondo il quale ben 928 analisi scientifiche svolte tra il 1993 e il 2003 attestino che la temperatura sulla Terra sta crescendo a causa di attività economiche umane. In “The Progress Report” del Center for American Progress, si può leggere che quello in corso è un processo di surriscaldamento che minaccia circa duecento milioni di abitanti del pianeta che vivono in prossimità delle coste, e rischiano inondazioni del tipo di quelle provocate dall’uragano Latrina. Queste cose Gore le aveva scritte e prefigurate fin dal 1992 nel suo Earth in the Bilance. Ecology and Human Spirit.

Conosco le possibili obiezioni; valga per tutte, quella di William Gray, considerato uno dei più noti esperti di uragani, che su Usa Today di un anno fa ha bollato come “allarmiste” le tesi di Gore. Si potrebbe controbattere che forse è Gray (e quanti la pensano come lui), che sono “minimalisti”, ma si conceda pure che i “goriani” sono allarmisti. Mettiamola così, allora: che ne dite, non è arrivato il momento di cominciare a dire alle oligarchie arabe: basta, siamo stanchi dei vostri ricatti petroliferi, non vogliamo più dipendere dal vostro greggio? Non credete che sia ragionevole quello che si legge su Consequences of Us Oil Dependency, il rapporto di un gruppo di studio guidato dall’ex ministro della Difesa americano James Schlesinger, e dall’ex capo della CIA John Deutch? In quel rapporto si documenta come la dipendenza degli Stati Uniti dalle importazioni di greggio causa “una vulnerabilità che mina la politica estera e la sicurezza nazionale”, e il riferimento trasparente è a quei paesi come Russia, Iran e Venezuela che utilizzano le loro risorse energetiche per ostacolare gli interessi degli Stati Uniti: «La sfida dei prossimi decenni è di gestire le conseguenze dell’inevitabile dipendenza dal greggio e iniziare la transizione verso un’economia di minor dipendenza del petrolio». Più lunga sarà questa transizione, spiega Schlesinger, «più grande sarà il trauma che dovremo attraversare».

Per gli Stati Uniti si tratta di modificare un sistema che li vede utilizzare il 25 per cento del petrolio mondiale rispetto al 4,6 per cento della popolazione: il 66 per cento del petrolio utilizzato viene dall’estero, il 20 per cento dal Medio Oriente; da qui il rapporto del Council on Foreign Relations che raccomanda di differenziare le fonti di approvvigionamento per diminuire la dipendenza dai paesi arabi. Ma quello che vale per gli Stati Uniti non vale forse anche per noi europei?

Possiamo trovare stucchevole Gore, quando sul New York Magazine di un paio d’anni fa scrive «…quando un giorno saranno dietro di noi l’Irak, il trauma dell’11 settembre e le spaccature degli anni di Bush, l’America avrà bisogno e vorrà trovare un modo per ripensarsi in casa, riconnettersi con il mondo e ritrovare il proprio spazio naturale nell’ordine globale, come fonte di progresso, speranza e ispirazione. Ho un’idea per riuscire in tutto questo, e si chiama green».

Tuttavia dagli Stati Uniti arrivano esempi ed esperienze che di cui possiamo e dovremmo far tesoro. Uno di questi esempi e di queste esperienze si chiama Tom Vilsack: governatore dello stato dell’Iowa, ha saputo trasformarlo nello stato modello dello sviluppo dell’etanolo. Dieci anni fa, quando diventò governatore, in Iowa c’erano appena tre centrali per la produzione del carburante estratto da biomasse; ora sono 25; prima del 2010 saranno una quarantina: «Siamo diventati il serbatoio nazionale di carburante alternativo alla benzina», dice Vilsack, orgoglioso anche di ospitare «la più grande centrale di energia eolica degli Stati Uniti». Significativo che qualche anno fa appena 6.500 liceali dell’Iowa sceglievano corsi su carburanti ecologici; oggi sono circa 25mila, allettati dalla prospettiva di essere assunti in una centrale a stipendi minimi di 35mila dollari l’anno.

Vilsack non è solo. Il governatore repubblicano della California, Arnold Schwarzenegger: «Poiché il governo è in ritardo nello sviluppo di fonti alternative sono gli stati a prendere l’iniziativa. Noi scommettiamo sui carburanti ecologici, la California sul taglio dei gas inquinanti, il New Mexico sul sole e non possiamo escludere che presto New York farà lo stesso sulle fonti idriche».

Sarebbe utile studiare e analizzare la produzione elaborata dal Center for American Progress di John Podesta. Suggerisce di fare maggior uso della cosiddetta “energia rurale”, biocarburanti ricavati dalla lavorazione di prodotti agricoli: derivati da piante e rifiuti agricoli che con l’andare del tempo stanno dimostrando di costituire un’alternativa al greggio. Ambiente e potenziale economico non indifferente: tra il 2004 e il 2005 sono circa un milione i i nuovi posti di lavoro creati.

L’esempio più significativo viene dal Brasile. Grazie a incentivi fiscali e a una normativa che impone di mescolare carburanti differenti, negli ultimi anni in Brasile si è sviluppata una particolare industria dei trasporti basata su veicoli denominati “Flex”, che utilizzano sia benzina che etanolo, o una miscela composta da entrambi. Si è calcolato che alla fine del 2005 erano circa il 70 per cento delle nuove vetture vendute, in grado di andare anche solo a metanolo, venduto a un prezzo inferiore alla benzina. In questo modo il Brasile ha risparmiato circa 100 miliardi di dollari di costi petroliferi, e al tempo stesso ha creato circa un milione di nuovi posti di lavoro. Non male, vero? Rifacendosi all’esperienza brasiliana, il centro studi di Podesta propone di far ricorso a graminacee o biomasse come quelle ricavate dallo sfruttamento di rifiuti contenuti nella cellulosa. «Entro il 2025 il 25 per cento dei carburanti prodotti dagli Stati Uniti dovrà arrivare da fonti rinnovabili», si legge in Energy Security in the 21st Century, un rapporto firmato tra gli altri dall’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright, da Rand Beers e Carol Browner

Si ripete la domanda: quello che vale per gli Stati Uniti non vale forse anche per noi europei? E per noi italiani?

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 24 gennaio 2008)


 
 
 
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