È finito un pontificato, quello woitiliano, che aveva raggiunto il massimo della spettacolarizzazione, in vita e in morte, non senza qualche disagio da parte di alcuni credenti, fra i quali mi pongo, ed ecco che i mezzi di comunicazione proseguono sulla stessa falsa riga – o cattiva abitudine contratta nei lunghi anni di regno dello stesso – con il nuovo, e il disagio cresce – penso anche in lui – data la diversità delle due persone, fra loro.
Il bello del papato è la diversità di un papa dall’altro. La diversità nella continuità e, viceversa, la continuità nella diversità, che è poi un connotato di fondo - o, se vogliamo il paradosso – dell’intera Chiesa.
Ma vai a dirglielo a quel pubblico lecca piedi, o lecca pantofole di un Vespa.
A proposito di Benedetto decimo sesto mi si permetta una impressione del tutto personale, che esula da ogni sorta di giudizio, o di pregiudizio, sul suo pontificato: io credo che sia alla ricerca di un residuo, o di un minimo, di vita personale. Non impediamogliela.
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I corifei nostrani del federalismo stanno rovinando con le loro stesse mani una grande idea; quante volte ci è capitato di rimpiangere che l’unità d’Italia sia stata portata a compimento dimenticando Cattaneo. Forse non ci sarebbe stata la questione meridionale, forse neanche la infausta parentesi fascista, forse lo stesso rapporto con la Chiesa sarebbe stato diverso. Si dimentica che il federalismo è fatto per unire, non per dividere, e la storia è lì a confermarlo. Unire culture, lingue, storie e perfino patrie diverse. Si pensi per esempio agli Stati Uniti d’America oppure, senza andare tanto lontano, a un passo da noi, all’esempio svizzero. Un federalismo ispirato all’odio per i diversi da noi o per “Roma ladrona” è una contraddizione in termini. Contraddizione rovinosa, come stiamo vedendo. Le gramsciane culture subalterne vanno rivendicate tutte assieme e insieme portate a un confronto positivo con la modernità. E resta sommamente deprecabile il fatto che la cultura di sinistra, in particolare quella comunista (basti un nome fra tutti, Ernesto De Martino) abbia improvvidamente abbandonato alle ortiche una tematica che era stata sua.
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Nella condizione in cui mi sono venuto a trovare che è quella di non poter più attingere direttamente alla lettura, che era poi il mio pane, anche per ragioni, diciamo così, professionali, mi capita di passare molta parte del mio tempo ad ascoltare alla radio, in particolare sul terzo programma, la lettura dei grandi romanzi del passato. Le mie preferenze vanno a quelli che mi sono stati familiari fin dall’infanzia. A cosa si deve il fascino che continuano ad avere? Tra molti altri titoli, alla loro capacità di indugiare sui particolari. Io sono rimasto tra i pochi a considerarlo un pregio nonché un piacere. Se si dovessero cancellare i particolari, gran parte della narrativa alla quale ci siamo nutriti per una vita, uscirebbe dimezzata. È ben questo che mi ha fatto gridare alla scoperta quando sono venuto a contatto con la prima prova narrativa del nostro Enrico Beretta. Adesso è giunta a compimento la seconda e più impegnativa, e si tratta solo di trovare l’editore giusto. Cosa non facile dato che ormai gli editori prediligono, e hanno indotto i lettori a prediligere, gli scrittori, o sedicenti tali, che sui particolari tirano via, o li danno per scontati.
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Da quel vecchio ambientalista che sono ho seguito con grande interesse il convegno internazionale promosso a Bormio da Lega ambiente su: “Quale mobilità per uno sviluppo sostenibile in Valtellina?” L’interesse si è tramutato in entusiasmo di fronte al rilancio motivato di un progetto di prosecuzione della ferrovia fino a Bormio. Rilancio perché si tratta di un ritorno alle origini, e la cosa mi tocca in profondità come figlio di un macchinista della ferrovia del Bernina, uno dei primi e unico fra gli italiani in quel rango. Già da bambino sentivo raccontare da lui che il progetto originario della stessa comprendeva un prolungamento da una parte fino a Bormio e dall’altra fino a Edolo. Quella che si frappose fu l’autorità militare italiana, forse, chissà, nel timore di una invasione via treno. Un piccolo ricordo personale: fu probabilmente l’impiego nella ferrovia svizzera che permise a mio padre, vecchio socialista e pacifista, di sfuggire al servizio militare e, poco dopo, alla guerra.
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, settembre 2005)