Caro Claudio,
il mio rapporto con la religione per la verità è piuttosto “problematico” (ma qual è il rapporto non problematico con la religione? Neanche Cristo, da quanto ci risulta, doveva avere un rapporto lineare con il Padre se dalla Croce gli grida che si sente abbandonato...).
Sia come sia, ti proporrei questa volta una mia breve recensione su di un libro di “poesia religiosa”. So che l'argomento non ti è sgradito, se TELLUS vi ha dedicato un intero memorabile volume... Dunque il mio testo troverebbe su TELLUSfolio una sua collocazione armonica e adeguata.
L'autore del libro, Vincenzo Leotta, è stato fraterno amico di Bartolo Cattafi ed era molto apprezzato da Giovanni Raboni.
Rimango in attesa di una tua conferma.
Grazie e ciao
Alfonso
PS: vedo inoltre che Tellusfolio, anche con l'innovativa sezione TellusMostre, dedica attenzione alla poesia visiva: se pensi possa interessarti, ti spedirei volentieri qualche immagine di mie “poesie visive” (o “poesie oggettuali”) da inserire dove riterrai più opportuno...
Caro Alfonso,... la mia risposta è l'immediata pubblicazione su Critica della Cultura della tua recensione. Sono molto interessato ad offrire un viatico a libri come questo di Leotta da te recensito. Ritengo che la poesia religiosa sia stata occultata nella manualistica, anche scolastica, e nel dibattito sulle sorti della poesia tout court. Ho pubblicato TELLUS 28: “Cattolicesimo”, per ovviare a questa situazione. Ti ringrazio per il giudizio sulla mia fatica letteraria. E, ovviamente, hai capito quanto o dogmatici cattolici o laicisti ferrati non hanno inteso. Che Tellus Annuario non è mai scontato quando tratta temi di grande rilievo, e che soprattutto è parte del progetto on line di TELLUSfolio. E per capire la linea editoriale dell'uno ci vuole anche sott'occhio l'altro. Lo consiglierei, TELLUS “CATTOLICESIMO”, anzi lo consiglio, e agli epigoni romani della contestazione sempre e comunque al sacro (ma ora spettacolarizzata dai media e da ogni miracolo politico curiale) e ai credenti solerti negli stessi organi di stampa cattolici che il volume, pur ricevendolo, lo ignorano perché edito da una casa editrice laica come la Labos che poi in TELLUSfolio esprime opinioni in difesa delle libertà civili. Ma qui chiudo, tanto avremo modo di riparlarne.
E per le tue opere visuali non hai che da spedirmele. Conosco la tua lunga dedizione verso quest'arte e i risultati estetici che hai ottenuto. Dovresti però, per rendere tutto più rapido, confezionare tu stesso le didascalie. Anche con testi di altri critici. Indicando titolo, formato, data e collocazione. TellusMostre è pensata per il collezionismo, i musei, le gallerie e anche la scuola.
Un caro saluto,
Claudio Di Scalzo
VINCENZO LEOTTA
Il roveto ardente
(Prefazione di Giovanni Raboni)
Collana “Il ghiaccio e la rosa”
Viennepierre edizioni, Milano 2007, pagg. 129, € 15,00
Se, come è risaputo, il ritmo della poesia si sovrappone alla risacca del respiro, allora quello che asseconda i versi (peraltro metricamente misuratissimi) della più recente raccolta di Vincenzo Leotta è un respiro caldo e acceso, che richiama l’ansimare di chi si trova a vivere una straordinaria vicenda d’amore, di quelle più intense, traboccanti passione e tormento. E il libro, secondo la tradizione della poesia amorosa, si struttura infatti nella forma del canzoniere, un canzoniere concitato e ardente, scandito poesia per poesia da reiterate dichiarazioni di amore assoluto. L’oggetto di questo amore è però esso stesso assoluto, non è di questa terra: è l’alterità cangiante di Dio, “inseguito inseguitore”. Come da ogni passione amorosa, anche da questa si dipana un conflitto, una “lotta all’ultimo sangue”. Così amore divino e amore umano si colorano di un’unica valenza allegorica, diventano nei versi di Leotta facce di una stessa medaglia, di un'unica tensione problematica.
Non c’è dunque ascetismo o fideismo in questo Roveto ardente. C’è piuttosto un’amara, umanissima coscienza del limite. Certo, siamo sul terreno della poesia religiosa, ma per come è possibile scriverla dal Novecento in poi, cioè come tensione tormentata e irrisolta, conflittuale appunto, sottesa da una consapevolezza wittgensteiniana che impone un problematico “tacere” su ciò di cui non si può parlare. Ma su questa base fortemente novecentesca risaltano echi remoti, atmosfere che si direbbero persino cavalcantiane, perchè come quelli stilnovisti di Guido Cavalcanti (che davanti all’incommensurabile superiorità della donna angelicata si dichiara privato della voce), i versi di Leotta si fondano sull’impotenza, sulla difficoltà del dire l’amore e insieme sulla difficoltà di accedere non a una qualsiasi verità, ma a quella, assoluta, potenzialmente “devastante” (in senso cavalcantiano), che concerne il divino. Il filo conduttore che marca le pagine, infatti, è proprio il tema dello squilibrio, della radicale sproporzione fra l’uomo e il suo creatore, simile a quella che in Cavalcanti segna una distanza abissale fra il poeta e la donna amata: «Io qui ferito, Tu lontano / milioni di anni-luce». Quelle che l’uomo può pronunciare rivolgendosi al “Diverso” sono “parole avventate, incaute” e quando prova a trovargli un possibile appellativo si dovrà accontentare di “un pronome ed un verbo senza nome”.
Dunque «Per fingere di poterti parlare / Ti devo pensare sferzato a sangue / o sulla croce, morto». Bisogna che l’uomo umanizzi Dio ridimensionandolo alla sua misura, perché possa stabilirsi una qualche parvenza di comunicazione. L’alternarsi degli stati d’animo che scandiscono la ricerca, questo filo di dialogo che il poeta sembra afferrare e che subito dopo sembra sfuggirgli di mano, diventa quasi un respiro cosmico, «un’ombra che si allunga e si contrae».
Eppure in questi versi non c’è traccia di scacco esistenziale. La ricerca si svolge in positivo e specialmente nella seconda parte del libro, la presenza divina si fa sempre più prendibile sino a farsi “pienezza” che spoglia l’individuo della sua individualità. I testi assumono sempre più la forma di un diario intimo sino al punto che è quasi imbarazzante mettersi in ascolto di un colloquio così privato (ma insieme di valenza universale). Ed è a quel punto che il parlare si fa addirittura “peccato”, la voce umana rivela la sua insufficienza, su tutto prevale il silenzio e leggiamo nella penultima pagina, in fondo, una icastica citazione di Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie».
In quanto poesia religiosa, Il roveto ardente trova infatti in Rebora un collegamento naturale, ma i versi di Leotta hanno un più ampio spettro di riferimenti all’interno di un arco che va da Bartolo Cattafi (di cui l’autore, oltre che grande studioso, è stato carissimo amico) a Giovanni Raboni (che non a caso firma una partecipe prefazione composta nel luglio del 2003, pochi mesi prima della morte).
Alfonso Lentini