Non sono davvero molte le differenze fra l’ondata migratoria che sta interessando l’Italia da qualche decina d’anni a questa parte e quella costituita dai nostri connazionali d’un tempo, in quel secolo che va dal 1876 al 1976 in particolare e che fu il secolo del grande esodo per gli Italiani: 27 milioni, di cui non si trovano tracce nei libri di storia.
Ce ne parla, invece, con dovizia di particolari documentatissimi Gian Antonio Stella, nel bel saggio L’orda – Quando gli albanesi eravamo noi, edito per la prima volta nel 2002 e ristampato ora (Rizzoli Editore, pagg. 268, Euro 17,00), in questo periodo in cui le tematiche dell’immigrazione, insieme a quelle connesse della sicurezza sociale, del razzismo o della xenofobia sono carne al fuoco per tutti i mass media e argomento di conversazione sulle bocche di tutti.
L’autore illumina fin dal prologo il suo punto di vista e ne fa partecipe immediatamente il lettore: in 27 milioni se ne andarono e tantissimi fecero fortuna come Amedeo Obici, partito undicenne e divenuto il re delle noccioline americane “Mr Peanuts” dopo anni in cui sgobbò come un matto, come Giovanni Giol che diede vita all’immensa azienda agricola “Mendoza”, come il re del caffè carioca Ulderico Bernardi, come Fiorello La Guardia che divenne uno dei più popolari sindaci di New York.
«Quelli sì, li ricordiamo – avverte Stella – quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito. Gli altri no. Quelli che non ce l’hanno fatta (…) testimonianza di una storica sconfitta, piaga da nascondere». Quelli che restarono per sempre gli Italiani del “bel Paese, brutta gente”, dal modo di dire diffuso in tutta Europa e tanto a lungo portato sulle spalle dai nostri connazionali ovunque. Eh sì, perché di tutta la nostra emigrazione è stato fin troppo facile tenere solo qualche pezzo e buttar via il resto. Dimenticarsi che non fummo affatto subito accettati, in forza della nostra nomea di gran lavoratori, subito oggetto addirittura di stima. Non fu così. «A dire il vero non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati d’oggi che non sia già stato rinfacciato un secolo, o solo relativamente pochi anni fa, a noi».
Secondo testimonianze molteplici, e come riportato dagli articoli dei maggiori quotidiani del tempo e da innumerevoli atti giudiziari che li riguardavano, gli immigrati italiani venivano etichettati dai più sprezzanti nomignoli: eravamo i black dagoes per gli Americani (dago negri, così gli Americani razzisti chiamavano gli Italiani, accentuando il già di per sé sprezzante nomignolo che veniva attribuito ai latini e suonava come pugnalatore – nda del libro); i dings, con un nome che richiamava al dingo, il cane selvatico australe; gli wops, cioè i senza passaporto, parola che però suonava anche come uàp=guappo; l’orda oliva, gli invasori dalla pelle oliva (dal titolo di un grande quotidiano di Melbourne) così ci si etichettava per il colore della pelle (e badate, non si parla di meridionali – avvisa Stella – ma di veneti, liguri, lombardi, la larghissima maggioranza degli emigranti in Australia).
Erano in molti a ritenere gli Italiani gente sporca, addirittura un’autorevole rivista medica inglese dipinse i nostri emigranti come gente per cui la parola casa, tanto sacra alle orecchie degli Inglesi, non ha nessun significato e per cui la decenza, la pulizia e la modestia sono cose inimmaginabili, poiché aderiscono al loro innato amore per il sovraffollamento, l’aria viziata e la sporcizia.
Ma da dove nascevano tali e tanti stereotipi?
In parte, e inizialmente, vi contribuirono addirittura illustri letterati del tempo, autorevoli penne dei più celebri e diffusi giornali dell’epoca (e perciò capaci di diffondere i pregiudizi ancor più massicciamente), ad esempio quando affermavano che avevamo le donne forse più spregevoli fra tutte quelle che si trovano sotto la luna: le più ignoranti, le più disgustose, le più sporche, a detta di Percy B. Shelley! E gli uomini? Sempre a parer di Shelley una tribù di schiavi stupidi e vizzi, senza un barlume di intelligenza nel volto, dalle Alpi alle isole del Sud… O ancora, che avevamo i più sudici bambini della terra, a trastullarsi fra il fango e i porcellini, secondo niente meno che Charles Dickens, come scriveva nelle sue “Visioni d’Italia”, reportage sul Daily Mirror: una razza ingegnosa, ma corrotta, disonesta e dissoluta, che abitava città d’arte, ma senza avvedersene e meritarsele.
Venezia veniva raccontata come il bordello d’Europa, con disponibilità di dame impudenti e libertine, secondo la famosa guida turistica The Grand Tour. Napoli e Capri erano altrettante mete di dissolute pratiche sessuali, alla cui frequentazione accorrevano soprattutto dall’Inghilterra quei giovani senza formazione, che partivano viaggiatori verso un’Italia lussuriosa e degenerata e tornavano così gentiluomini completi (Ian Littlewood, autore del saggio Sultry Climates: Travel and Sex).
Alla luce di tali reportage «onestamente» chiede Stella «che idea poteva farsi degli Italiani, pochi anni prima dell’inizio della Grande Emigrazione, un lettore ad es. del Daily Mirror?».
Certo, si potrà obiettare che è passato molto, davvero molto tempo… «ma anche lo stereotipo» continua l’autore «ha un passo lento. Nasce da un’immagine, si clona in un’altra e poi in un’altra ancora, finisce in un libro e poi in un altro ancora, diventa tema di discussione nei circoli intellettuali, è rilanciato dagli amici, colto a mezza voce dai camerieri, riportato nelle cucine, diffuso nelle case popolari, intuito dai politici, urlato dai demagoghi, cavalcato dai giornali, gonfiato dalle masse… Ci mettono secoli, i popoli, a farsi un’idea gli uni degli altri. E spesso se la fanno sbagliata. Tanto che ci vogliono poi decenni e decenni perché i pregiudizi siano messi in dubbio, corretti, rimossi».
Il trattamento riservato ai nostri emigranti in arrivo nei Paesi accoglienti non era dei migliori: per la Svizzera, che a lungo li ha considerati “i maccarony”, nel 1911 ad esempio (da una relazione degli Ispettori alla Italianerwartsaal) non erano degni d’entrare neppure nella sala d’attesa di terza classe a Basilea e venivano perciò confinati in appositi sotterranei della stazione, ad aspettare coincidenze anche per giorni, come in un lazzaretto, con pochi gabinetti, in condizioni igieniche rivoltanti, senza ricambio d’aria e col divieto assoluto d’uscire. Il 1911 è troppo addietro nel tempo? Allora passiamo ad epoche più recenti: era il 1969 quando si svolse il processo per l’uccisione di Attilio Tonola, tranquillo operaio di Villa di Chiavenna, sposato e padre di quattro bambini, massacrato di botte da tre ubriachi (svizzeri) con precedenti penali. Tre razzisti attaccabrighe che, dopo una serata passata a bere, avevano aggredito l’operaio valtellinese, all’urlo di caiba cincali (nomignolo che intendeva richiamare le grida degli Italiani giocatori di morra). Durante il processo mai venne considerata l’aggravante della xenofobia e, per di più, l’aggressione venne derubricata in rissa: si sa, gli Italiani sono aggressivi! Risultato: pochi mesi di carcere per due degli autori e l’assoluzione per il terzo e nessun risarcimento ai familiari della vittima! Stessa vergognosa parzialità di giudizio era stata riservata ad un caso simile nel 1966 e lo sarebbe stata anni dopo, nel ’72, per la strage di Mattmark (dove ottantotto operai, quasi tutti stranieri e 55 dei quali italiani, vennero sepolti da una frana nel cantiere del ghiacciaio dell’Allalin, con comprovate responsabilità dirigenziali).
Sono tante le ingiustizie subite dai nostri emigranti in quel secolo di esodo, tante le stragi come quella impressionante di Aigues-Mortes (nel 1893): undici morti, sedici dispersi per una “caccia all’italiano” che era nata da una futile rissa con gli altri operai francesi alle saline del paese. Gli Italiani venivano visti dai Francesi come fumo negli occhi: eravamo troppo numerosi, troppo condiscendenti, con così tanto da perdere da accettare condizioni disumane pur di guadagnare il massimo in una giornata di estenuante lavoro, pur di occuparci da soli di mansioni che abitualmente venivano ricoperte da due operai. E tanti furono gli attacchi, le accuse non appena in una comunità in cui vivessero anche degli Italiani ci fosse un qualsivoglia crimine.
Linciaggi, ad esempio: dal 1880 al 1930 furono quasi 3.950 in America; nella stragrande maggioranza si trattava di neri, ma dei bianchi (723) la più parte era costituita dagli immigrati italiani! In Australia, nel 1934, gli Italiani immigrati erano gli stranieri che rubano il lavoro, da buttar fuori; per lo Smith’s Weekly, una lurida ondata di feccia mediterranea venuta a degradare ed insozzare l’Australia. Così fu facile, il 28 gennaio di quell’anno, avviare un vero e proprio pogrom contro i dings, il cerino rappresentato dal rifiuto di un barista italiano (tale Claudio Mattaboni) di servire per l’ennesima volta un cliente australiano rissoso e che non pagava. Dapprima si scatenò un pestaggio, ma poi il bilancio finale fu gravissimo: migliaia di operai australiani danno l’assalto a tutti gli alberghi, le case, i negozi dei circa 500 italiani di Kalgoorlie e Boulder. Sono tre i morti, decine i feriti, 5 hotel, 4 club, 2 pensioni, 8 caffè, 45 case, 68 baracche saccheggiati, incendiati, distrutti. Le scuse formali del governo e poi la rimozione totale di questo accadimento dalla storiografia.
Aver rispetto della storia degli emigranti italiani significa dunque rispettare tutti, e tutte le storie.
Che sono spesso, spessissimo storie di clandestinità. «Per secoli gli emigranti italiani hanno rischiato e perduto la vita per passare clandestinamente in Francia o in Svizzera attraverso il Piccolo San Bernardo, la Fenetre Durand, il cammino di Rochemolle in Savoia, il pericolosissimo ghiacciaio del Col Colon... Oppure quei sentieri alle spalle di Ventimiglia…» Per lo storico Ruggero Romano l’emigrazione clandestina è sempre stata parallela a quella ufficiale, fin dal primissimo esodo in America, quando all’elenco dei passeggeri ufficiali delle navi andava aggiunto un numero almeno pari di clandestini. Clandestini erano i bambini venduti alle vetrerie francesi, bambini che diventavano schiavi, sgobbando 12-16 ore consecutive, in cambio di un pezzo di pane duro, di una minestra immangiabile condita col sego, alla domenica un bicchiere di vino cattivo e salsicce o altra carne putrefatta, cinque per letto, brulicante di insetti (dalle relazioni di Lionello Scelsi, diplomatico italiano, console a Lione). E italiani erano i mediatori, italiani i contrabbandieri che aiutavano le carovane di questi bambini venduti per cento lire in una orribile “tratta dei fanciulli” che a molte cose rimanda il pensiero, a tutt’oggi…, italiani i sindaci e i deputati che con le loro raccomandazioni sbloccavano i passaporti dei piccoli in cambio di denaro o i preti mandati a controllare questi inferni e che conclusero i loro sopralluoghi con note strabilianti circa la miseria morale, l’allontanamento dalla fede dei «piccoli, amabili ragazzetti disgraziati, più derelitti che corrotti, al grado delle bestie e perciò non in grazia per ricevere l’eucarestia»!
Clandestine erano le ragazze dai 15 ai 25 anni, mandate all’estero a prostituirsi: l’adescamento – racconta Raniero Paulucci de Calboli (delegato italiano alla Conferenza di Parigi del 1902 sulla “Tratta delle bianche”) avveniva nelle contrade italiane, proprio come oggi in Ghana, Nigeria o Moldavia. I porti di partenza erano Genova, Napoli, Trieste, Messina, Catania…. Partivano dicendosi domestiche o Kellnerinen (cameriere), negando di essere vittime di inganni, scortate sempre da persona più anziana, uomo… finivano nei traffici loschi della prostituzione oppure nelle case dei bordanti (coloro che affittavano posti letto agli immigrati, e immigrati loro stessi) con la scusa di far le domestiche e divenendo invece spesso le prostitute degli operai a pensione. Clandestina la gran parte degli operai emigrati in Germania, da un rapporto del 1905. E quanti ne ospitavano, di clandestini, le locande nei pressi dei porto, soprattutto a Napoli dove erano strapiene di poveretti in attesa di imbarcarsi di nascosto, o di raggiungere le navi al largo, coi bragozzi. C’era chi non aveva le carte in regola, chi cercava di raggiungere Paesi dove nuove politiche restrittive impedivano i ricongiungimenti, c’era chi tentava la sorte per paura che, regolarmente, sarebbe stato respinto perché zoppo o cieco o semplicemente analfabeta o vecchio.
L’itinerario che attraversa la Valle dello Stura fu attraversato per decenni dai clandestini italiani. Alla frontiera di Col di Tenda, denuncia il deputato Stefano Iacini nel 1922, ogni notte sono decine e decine, per non dire centinaia, gli operai che passano clandestinamente; nel dopoguerra la situazione è identica, almeno ottanta clandestini al giorno. E, ad aver in pugno questo traffico, erano organizzazioni italiane sotto copertura di anonime società commerciali, con tanto di filiali e di rastrellatori di emigranti per tutta la penisola; erano loro a fornire i passaporti falsi, a corrompere e ottenere i visti e gli imbarchi clandestini su navi che talvolta li abbandonavano in posti sperduti del globo, o a Cuba, o in Messico…
Nel 1946 Walter Molino illustra sulla Domenica del Corriere la copertina dal titolo “L’odissea degli emigranti clandestini”, abbindolati da losche organizzazioni, avviati verso il confine senza il minimo equipaggiamento invernale, e poi abbandonati in mezzo alle montagne in preda al gelo, 50 siciliani vengono soccorsi nell’alta Val d’Aosta. Nei soli primi otto mesi del ’56 furono 1.400 i fermati mentre se ne andavano sui sentieri della speranza! L’ultimo clandestino italiano a perder la vita al Passo della Morte – alle spalle di Mentone – (prima che proprio lì cominciassero a schiantarsi slavi e rumeni e curdi e cinesi per un totale di oltre 250 vittime) fu Mario Trambusti, ventiseienne fiorentino. Era il 1962, ieri mattina coi tempi della storia, precisa Stella. I fenicotteri, li chiamavano le italianissime guide che ben conoscevano le difficoltà del transito da quel passo infernale, e che per accompagnarli prendevano 5.000 lire nel 1947, perché arrivava il momento per molti di loro in cui spiccavano il volo.
E per finire erano clandestini anche i bambini andati a raggiungere i padri in Svizzera, e lo erano le mogli, gli anziani genitori: braccia morte che pesano sulle nostre spalle, li definì James Schwarzenbach, un editore svizzero. Furono, infatti, migliaia i bambini nascosti in casa dei genitori che non avevano il diritto, secondo le rigidissime leggi svizzere, di portare la famiglia in territorio elvetico. Bambini fatti entrare di nascosto, chiusi negli appartamenti, senza poter uscire, studiare, giocare, socializzare… Tutto è documentato nel libro di Marina Frigerio e Simone Burgherr Versteckte Kinder (Bambini nascosti), con le testimonianze in prima persona di tanti bambini d’allora; trentamila erano questi piccoli nascosti, ancora alla metà degli anni Settanta, così tanti d’aver causato l’apertura di vere e proprie scuole clandestine, sotto la protezione di qualche comunità religiosa, di parrocchie. Scuole elementari e medie, andate avanti fino agli anni Ottanta. Il libro della Frigerio venne pubblicato (non in Italia) nel ’92 quando, conclude eloquentemente Gian Antonio Stella, «le prime navi cariche di profughi albanesi erano arrivate a Brindisi da pochi mesi. E avevamo ancora in Svizzera almeno un migliaio di figli clandestini».
È illuminante leggere questo libro che ha il merito incontestabile di riportare alla memoria fatti documentati sull’emigrazione italiana di cui altrove poco o niente si sente parlare. L’autore stesso è convinto che si debba stare alla larga da un facile buonismo, dall’apertura totale delle frontiere, dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida di tutte le culture, ma – avverte – è necessario stare alla larga più ancora dal razzismo, dalla xenofobia che monta e che non può che portar danni sociali. Irrigidire i controlli sugli Albanesi che rappresentano un detenuto su tre fra gli stranieri in carcere in Italia o espellere i terroristi islamici non è la stessa cosa che dire che tutti gli Albanesi sono criminali o che sia giusto organizzare ronde contro i mussulmani o spargere piscio di maiale sui terreni che dovrebbero ospitare una moschea!
Ricordarsi di come gli Italiani emigranti all’estero, coi loro bagagli, fagotti, donne e bambini, siano stati sovente accolti da male parole e ingiustizie terribili, basati su stereotipi o conseguenze del degrado in cui erano costretti a vivere, potrebbe forse aiutare a riscoprire un’umanità in ogni sguardo che abbiamo di fronte. E in noi stessi.
Annagloria Del Piano
(da 'l Gazetin, gennaio 2008)