Durante l’occupazione giapponese della Cina (negli anni Trenta del secolo scorso), una ragazza viene incaricata dalla Resistenza, di sedurre un importante funzionario di polizia cinese, reo di “collaborare” con i giapponesi. Lo scopo della missione, oltre che carpire le sue confidenze, è indurlo a trasgredire dalle sue prudentissime abitudini di vita, tanto da consentire ai militanti della Resistenza di ucciderlo. Ma la missione è gravemente compromessa, quando la ragazza si innamora del funzionario.
Raccontato così, è un aneddoto molto semplice, senza sorprese; che, a parte l’ambientazione esotica, potremmo aver l’impressione di aver già sentito raccontare da qualche film di spionaggio americano.
Ma guai a giudicare un film dall’aneddoto su cui è imperniato! Questo può essere reso attraverso un’esposizione di fatti magari logica e verosimile, ma piatta; o può prendere vita, quando l’autore partecipa con la propria sensibilità alle vicende di uno o più personaggi, gli presta insomma sentimenti ed emozioni.
Dirò subito che, a mio parere, da questa piccola storia (ricavata da un racconto della scrittrice Zhang Ailing) Ang Lee ha tirato fuori quasi un capolavoro.
Esaminiamo brevemente uno dei fili dell’intelaiatura del racconto, il personaggio del funzionario di polizia.
Collaborare con l’esercito che ha invaso il proprio paese; torturare e condannare a morte i combattenti che vogliono liberarlo, è un compito che difficilmente si esegue per idealismo. Se ne traggono certo vantaggi materiali e sociali, una carica di prestigio e un buono stipendio, tutt’altro che trascurabili, almeno quest’ultimo, in un paese ridotto alla fame.
E tuttavia la coscienza di essere temuti e odiati dalla propria gente, di commettere atti almeno in parte contrari alla propria morale, non può non rendere gelidi e guardinghi; non suscitare un’amarezza segreta, che corrode la vitalità.
Non voglio attribuire al personaggio creato da Ang Lee (splendidamente interpretato dall’attore Tony Leung) un profondo rovello morale, che non gli appartiene.
Ma si osservi il modo in cui, in una scena, si guarda per un momento nello specchio di casa, passandovi di fronte: serie e composto come si conviene a un uomo importante; ma con una smorfia, leggera e irreprimibile, di scontentezza.
Non sarebbe già questa un’efficace istantanea di un uomo di potere?
Di Lussuria si è molto chiacchierato al festival di Venezia, dove ha vinto il Leone d’Oro, soprattutto per alcune scene erotiche, piuttosto lunghe e dettagliate.
Raccontano i rapporti sessuali tra l’uomo e la ragazza che fa da spia.
Niente è più prevedibile che tali rapporti siano improntati al sadomasochismo (trattandosi di un funzionario, come ho detto, che presiede alla tortura degli indagati).
Eppure, quando a letto l’uomo si sfila la cintura dai pantaloni e flagella la ragazza, non si ha l’impressione che sia messo in scena un luogo comune, che l’immaginazione proceda meccanicamente.
La ragazza affermerà qualche tempo dopo, che l’uomo ha bisogno di provocarle dolore per sentirsi ancora vivo.
Eppure, alla radice di quel gesto, si avverte anche dell’altro: il furore vendicativo di chi ritiene di non poter essere più sinceramente amato.
E infatti, l’opera di seduzione di cui l’uomo è bersaglio – paziente, sottile, graduale, trascinata negli anni – si riflette in una lotta, nell’uomo, tra il sospetto e la fiducia, nella quale quest’ultima non prevarrà mai senza riserve. Alla fine, egli avrà tristemente l’aria di volersi illudere della sincerità della ragazza.
E se lei invece finisce per amarlo davvero, più che per condiscendenza masochistica, è perché intuisce la sua debolezza e la sua solitudine.
Il film è disseminato di verità e di finezze psicologiche.
Si veda come è descritto il gruppo delle signore che giocano a domino, una delle quali è la moglie del funzionario; come appaiono “mitiche”, ai loro occhi, le brevi e sporadiche apparizioni dell’uomo presso la tavola da gioco: segno di una separazione ancora molto rigida dei ruoli sessuali.
O si veda come è raccontato il gruppo dei giovani resistenti, nei quali l’entusiasmo patriottico si fonde con il puritanesimo dei costumi.
Nel loro ambito, si svolge uno degli omicidi più originali e più veri a cui ci è capitato di assistere al cinema, almeno negli ultimi tempi. Si tratta della scena in cui pugnalano un vecchio amico, che scopre il loro covo. Quel che la rende inconsueta, è che, manifestamente, nel gruppo, nessuno sa come infilare un coltello nel corpo di un uomo; e devono imparare sul campo, senza tempo da perdere.
Dopo tanta violenza raccontata dal cinema come cosa ovvia o spettacolare (cioè falsa), Ang Lee ci fa realisticamente presente che, anche per uccidere, va appresa una tecnica.
Gianfranco Cercone de Lucia
(da Notizie radicali, 9 gennaio 2008)