Pechino, Cina. I genitori di Xie Lihua (foto) volevano un figlio maschio. Ma il giorno in cui Xie nacque in un povero villaggio della provincia rurale di Shandong, sua madre seppe di aver dato vita ad una seconda figlia. La donna pianse di rabbia, schiaffeggiando la bimba appena nata. «Un’altra femmina!», urlò. L’anno era il 1951. Le bambine venivano considerate dei beni senza valore, in una società agraria che faceva affidamento sulla forza dei giovani uomini per prosperare. Xie crebbe sapendo bene qual era il suo posto: quello di cameriera per il suo fratello minore. «Mia sorella ed io sapevamo che il cibo buono andava a lui. Quando lui aveva finito, allora noi potevamo mangiare», ricorda Xie. Decenni più tardi, la condizione delle contadine cinesi è persino peggiorata in molti modi. La nazione più popolosa del mondo forza la politica del “figlio unico” per controllare la crescita della popolazione. In presenza di opportunità limitate di aver bambini, i maschi sono più idolatrati che mai. Ma la bimba che fu cresciuta come una cittadina di seconda classe è stanca di tali insulti. Oggi Xie è una fiera attivista per i diritti delle donne, e lavora per ispirare una quieta rivoluzione. Vuole mostrare alla cultura maschile dominante che le donne cinesi meritano rispetto ed hanno il diritto all’eguaglianza. Più importante ancora, Xie si sta impegnando per convincere di questo proprio le donne. È infatti la fondatrice dell’eccezionale magazine, Donne rurali, ormai un punto fermo nella vita emotiva di diverse generazioni di donne povere. Ogni numero riporta una lunga serie di missive delle lettrici, una specie di chat room per villaggi troppo sperduti per avere computer. Sebbene le donne che vivono nelle città abbiano fatto passi avanti verso l’uguaglianza, grazie alla migliore istruzione ed alle possibilità offerte da una classe impiegatizia crescente, le donne rurali sono spesso incastrate in un durissimo stile di vita, immutato da un’epoca ormai trascorsa. «Io dico loro che la loro vita vale quanto quella di qualsiasi uomo. Non sono nate con il marchio della disuguaglianza, è la società che le ha rese diseguali», dice Xie. «Hanno solo bisogno di opportunità per ottenere i loro diritti».
Tre donne cinesi su quattro, più di 450 milioni, vivono ancora nelle campagne, dove rigidi costumi sociali nutrono solitudine e abusi. Il tasso di violenza domestica è alto. Ogni anno, 150.000 donne commettono suicidio: la Cina rurale è il solo luogo al mondo, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per la sanità, ove le donne si suicidano più degli uomini. Le lettrici di Xie parlano dei loro sposi non chiamandoli “mariti”, ma “padroni”. Abitano in un mondo in cui l’enfasi sull’avere un figlio maschio è così accentuata che parecchie di loro portano nomi come Zhaodi (“Aspetto un fratellino”), o Aidi (“Amare un fratellino”). Assieme al magazine, che ha quattordici anni, Xie ha fondato il Centro di sviluppo culturale per donne rurali, prima ong cinese a concentrarsi sulle donne che vivono al di fuori delle città. Xie ha disegnato programmi di alfabetizzazione e di prevenzione del suicidio, ed anche alcune iniziative mirate ad incrementare la partecipazione politica delle donne. Fornisce microcredito alle imprese delle donne rurali. In questi giorni, sta lavorando su una piaga enorme e non vista: i milioni di donne che lasciano la campagna come lavoratrici migranti e spesso finiscono rapite e trafficate come prostitute.
Xie gestisce un “telefono amico” per le mogli maltrattate e per quelle ingiustamente spinte fuori dal mercato del lavoro, e sta facendo pressione sul governo affinché licenzi delle leggi contro le molestie sessuali. Sta chiedendo anche un salario di base ed un’assicurazione minima per le lavoratrici domestiche, che non sono comprese nelle leggi nazionali sul lavoro. Gli sforzi di questa donna hanno dato potere a moltitudini di altre donne, incluse le contadine che hanno risolto di cercar fortuna in città: come l’operaia che ha denunciato la sua azienda quando essa ha smesso di pagarla, e la domestica sessualmente abusata che ha denunciato il suo datore di lavoro. A incoraggiarle e sostenerle, c’era Xie Lihua.
I critici di Xie dicono che lei mette in imbarazzo la Cina. Prima di un viaggio all’estero, fu avvisata dalle autorità di non “parlar male” del suo paese. «Non ci sono casi minori in diplomazia», le disse un funzionario di partito: «Sarai ritenuta responsabile per qualsiasi cosa tu dica». Ma la schiena di Xie è sempre diritta.
A 56 anni, Xie veste le tradizionali bluse cinesi sopra i bluejeans. Continua a parlare con la stampa occidentale e con chiunque sia disposto ad ascoltarla. Nella sua lotta ha rischiato tutto, anche il proprio matrimonio. «Se io sono una che procura guai, allora lo era anche Deng Xiaoping con la sua “politica della porta aperta”. Se non vi è cambiamento, anche quando il cambiamento comporta sofferenza, allora non c’è progresso».
Xie dice di aver capito che grandi cambiamenti erano possibili in Cina durante gli anni ’60 e la Rivoluzione culturale. Ma continua a credere che le Guardie Rosse abbiano cominciato a mandarla in malora bastonando gli intellettuali. Alle medie si oppose a che i suoi insegnanti venissero fustigati in pubblico. Dopo di che, lasciò il suo villaggio e si trasferì a Pechino, e cominciò a riflettere su come riorientare uno zelo rivoluzionario maoista sempre più malriposto. Mao aveva proclamato che “le donne reggono la metà del cielo”, intendendo che esse erano capaci di fare la propria parte di lavoro. Xie credeva che meritassero anche i diritti d’eguaglianza, e non solo la fatica. Qualche anno più tardi, ebbe la sua prima occasione di dirlo a voce alta.
Lavorando come reporter per una pubblicazione chiamata Notizie delle donne cinesi, viaggiò sino alla provincia di Hebei, per scrivere un articolo su una donna che si prendeva cura del marito disabile molto più anziano di lei. La donna era stata citata dal governo come il perfetto modello della contadina. Quello che Xie trovò fu una giovane sposa trattata come una schiava, che sopportava la situazione poiché le era stato insegnato a credere che il suo destino fosse servire gli uomini. «Non era un esempio per le altre», ricorda Xie, «era una vittima». L’articolo di Xie sfidò quella che lei definì “ignoranza feudale”. Il pezzo scatenò un dibattito assai acceso sul ruolo delle donne nella cultura rurale, che durò per mesi. Nel 1993, la rivista per cui lavorava incoraggiò le appartenenti al proprio staff a creare i propri giornali che si occupassero di istanze femminili, ma le imprese dovevano sostenersi da sole, senza aiuto governativo. Xie fondò il proprio magazine per le donne rurali. Chiedeva quaranta centesimi a copia, su per giù il prezzo di un piatto di tagliatelle, ma il giornale era gratis per le donne più povere. Gli altri giornalisti presero in giro la sua idea come una cosa “brutta, rustica e inutile”. Gli inizi furono difficili. Xie scrisse e curò da sola i primi due numeri. Suo marito non riusciva a capire il suo impegno a favore di contadine che neppure conosceva. Tuttavia, la “rustica brutta” cosa non solo funzionò, ma aprì nuovi territori. Le lettrici discutevano di sesso, di amore, di matrimoni. Donne intrappolate scrissero che volevano divorziare e lavorare per se stesse. Xie pubblicò una raccolta di lettere che dettagliavano le storie d’amore e le fantasie delle sue lettrici: la chiamò “Il mondo delle emozioni delle donne rurali”. Anche gli uomini compravano il suo magazine. Alcuni scrivevano lettere, spiegando il punto di vista maschile su determinati argomenti.
La pubblicazione mise in luce l’aspra realtà della Cina rurale, dove il tasso di suicidi è il triplo di quello cittadino. Xie Lihua sostiene che l’80% delle donne si suicidano a causa di conflitti con i loro mariti. Nel 1996, la pubblicazione offrì un compenso di circa dodici dollari a chi avrebbe raccontato le storie delle donne che si erano uccise. Xie continua a redigere i loro profili, e li affianca con analisi psicologiche. La ricerca dimostrò che molte vittime ingoiavano pesticidi in preda alla disperazione dovuta a matrimoni violenti, o a vite senza speranza in balia di parenti-padroni acquisiti, presso cui vivevano dopo il matrimonio. Erano anche costrette a sopportare aborti forzati. Le leggi cinesi permettono alle famiglie rurali di avere un secondo figlio se il primo è femmina. Le donne che sono incinte della seconda figlia sono soggette ad enormi pressioni affinché abortiscano.
Il governo criticò l’inchiesta, dicendo che i dati erano gonfiati. Ma Xie non mollò la presa, ed il governo fu costretto a ritrattare, e cominciò a prenderla in considerazione quale portavoce delle donne. Oggi la pubblicazione parla apertamente di come fare sesso in modo sicuro e soddisfacente, o di come trovare lavoro in città, e articoli incitano le donne a denunciare la violenza domestica. «Il pensiero rurale è che se una donna viene picchiata è colpa sua: non ha fatto abbastanza per compiacere il suo padrone», dice Xie.
Spesso però le donne che lavorano al “telefono amico” sconsigliano come prima misura il divorzio: «Le donne devono cominciare ad essere realistiche rispetto agli uomini», sostiene Xie. «Non possono aspettarsi granché dai loro mariti. Più si aspettano, più saranno deluse». Per un certo periodo, la vita di Xie rifletté tale filosofia. Le tensioni fra lei e suo marito crescevano. Lui voleva una moglie più “tradizionale”. Lei voleva sostegno. Lottarono. Xie è fortunata. Infine, suo marito ha capito: «Mi disse che il più grande aiuto che poteva darmi era non ostacolarmi». Nella Cina odierna, aggiunge, si è più tolleranti rispetto ad una donna che voglia foggiare da sé il proprio destino: «È qualcosa che neppure immaginavamo dieci anni fa». Ci sono passi indietro, anche. Come la storia della giovane ex contadina suicidatasi dopo lo stupro del suo datore di lavoro cittadino, che l’aveva assunta come domestica. Xie a volte dà la colpa a se stessa: «Se fosse rimasta nel suo villaggio potrebbe essere ancora viva. Incoraggiare la gente a venire in città può non essere bene». Ma i momenti di dubbio sono pochi, Xie ha troppo da fare. «Le donne rurali cinesi sono il qualcosa di qualcun altro: sono le mogli di qualcuno, le madri di qualcuno, le nuore di qualcuno. Io dico loro di seguire questa semplice regola: Tu sei tua. Tu non sei di nessun altro».
John M. Glionna
(per The Los Angeles Times, 02/01/2008 - trad. Maria G. Di Rienzo)