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Maria G. Di Rienzo. Distinguere vittime e carnefici, nominare la violenza e contrastarla
(foto ControViolenzaDonne.org)
(foto ControViolenzaDonne.org) 
29 Dicembre 2007
 

Proviamo a dirlo in un altro modo, ecco qua.

*

Allora, lei sostiene di essere stata vittima di uno stupro?

Sì, cioè no, non vorrei fare del vittimismo. Come vede, sono una donna, e non posso permettermelo. Diciamo che mi sono trovata in una dinamica relazionale sbilanciata in cui, nel mentre ero soggetta all'uso applicato di un certo ammontare di brutalità... Crede che possa usare “soggetta” o è un'ammissione di debolezza?

Ma lo vuole denunciare o no il suo aggressore?

Ecco, sì, ma dipende. Non vorrei che questo poi mi facesse passare per vittima, capisce, le donne sono libere e felici, a priori, e se io finisco per dare un'impressione diversa da questa forse sbaglio, no?

*

Non mi pare che funzioni. Distinguere chi usa violenza da chi la subisce passa anche attraverso la consapevolezza che le vittime di violenza non sono colpevoli di ciò che viene loro fatto. Questo sì è un “a priori”: la violenza è sbagliata, sempre. So che può sembrare banale, ma la confusione fra aggressore e aggredito/a è la scappatoia (e la scorciatoia) costante dei picchiatori e dei violentatori.

*

Dire quindi che delle donne sono “vittime” di violenza non comporta né il piangersi addosso, né il “tornare indietro”. Distinguere chi alza le mani per colpire da chi alza il braccio per parare i colpi significa restituire la responsabilità della violenza a chi sceglie di usarla. È stato questo a portare in piazza così tante “donne comuni”, il cui pentolino ribolliva da mesi, stando almeno alla notevole quantità di mail che ho ricevuto io prima del 24 novembre scorso. Alla maggior parte delle mie corrispondenti non interessava analizzare la piattaforma della manifestazione, né si definivano femministe. Quello che volevano era un'occasione per dire pubblicamente “basta”.

E nessuna era così ottusa da non sapere che una donna non è solo la violenza che eventualmente subisce, non c'era alcun bisogno di fare esercizi linguistici per renderle edotte di ciò: perché al di là di ciò che ciascuna di noi può credere e pensare e inventare, ogni sfregio simbolico o reale sul viso di un'altra ci rimanda a ciò che potrebbe accadere a noi domani (o come parecchie mi hanno scritto, a ciò che era già accaduto). E ognuna di noi è una storia, ma sappiamo da tempo, e da un po' troppo tempo senza fare granché, che moltissime storie potrebbero essere più felici e soddisfacenti senza violenza.

*

Le donne sono libere per diritto di nascita, come qualsiasi altro essere umano. Quanti ostacoli vengano messi davanti all'esercizio di tale libertà è stranoto e non li ripeterò qui. Mi pare che purtroppo tali ostacoli sovente le rendano “libere” nel senso in cui, mettiamo, un commerciante è “libero” di non pagare il pizzo alla mafia, che poi gli fa saltare per aria la casa o gli rapisce un figlio. Così alcune sono “libere”, in tutto il mondo, di non aderire al credo della famiglia, o di vestirsi come a loro pare e piace, o di rigettare un matrimonio forzato: poi la libertà viene fatta loro pagare in mille modi meschini e troppo spesso persino con la vita, ma guai a dire che sono state vittime di violenza. È stata una perturbazione atmosferico-sociale, un uragano umano, un efflusso di ormoni storici, cose che capitano, non sia mai che ne chiediamo conto a quelli con le mani sporche di sangue.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 28 dicembre 2007)


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