Una storia d’amore
sul sentiero degli sbadati
Sulla strada che porta alla baia dei conigli c’è una curva che nessuno vede mai perché l’asfalto sbiadito dal Sole si fonde col terriccio secco e scolorito del sentiero che muore sul fossato.
Io lo chiamo il sentiero degli sbadati e ci pranzo con Mosè, il mio cane, quando lo porto al Mare a trovare Carmelina, lo Yorkshire femmina più malandato e spettinato che abbia mai visto.
Non è di nessuno, Carmelina, e il nome gliel’ho messo io, perché quello mi è venuto.
Ho strillato: “Carmelina, qui, qui” e lei s’è avvicinata scodinzolando.
Mi sono detto, quindi, che il nome Carmelina le piaceva, anche se forse dovevo prendere in considerazione la possibilità che le piacesse di più il nome “Quiqui”. Ma non si addice ad una contessa altoborghese che ha deciso di passare la propria vita in libertà tra gli scogli di una baia nascosta.
Per me è questo Carmelina, una contessa, mentre Mosè invece è un vecchio marinaio pessimo nuotatore che se mi getto in acqua mi viene dietro, piccolo e bianco com’è, rischiando pure di affogare. Per questo nonostante il caldo torrido, vado a pranzare con panini e insalata nella curva pericolosa a destra dopo il rettilineo infinito che porta al centro, perché quello è lontano dal Mare. Me ne sto tra ruote di bicicletta e copertoni, radiatori e marmitte di motorini pensando a come siano finiti lì e perché.
Penso a due ubriaconi che parlano di belle fiche.
“Stasera quella col vestito nero me la scopo”
“Chi è?”
“Quella col vestito nero che abbiamo visto ieri sera al porto, quella che ballava sudata che le si vedeva la pelle abbronzata e lucida”
“Beh, le possibilità che te la scopi sono poche”
“Perché mai?”
“Perché sudata com’era avrà cambiato vestito”
E poi “Boom” nel fosso con tutta la Suzuki decappottabile.
La capotta bianca con le viti verdi e gialle ce l’ho sotto il mio culo, ci sono seduto sopra, ed è così che c’è finita, parlando di donne.
Penso a due innamorati che giocano a chi arriva prima. Lei è giovane, lui un po’ meno, lei è gracile, lui forzuto e la guarda impegnarsi come Coppi per vincere, lui le fa guadagnare strada ma poi aumenta la pedalata e ride di lei, ma come fanno gli innamorati o le mamme coi bambini quando fanno il ruttino.
“Dai, fammi vincere stronzo” dice lei.
“Non vincerai mai con quelle gambine che ti ritrovi”
“Non è sempre il forte a vincere”
Poi lei si leva il pezzo di sopra e decide di prendersela anche in petto, l’abbronzatura.
“Per quelle ti farei vincere”
“Lo stai già facendo”
“Sei troppo sicura di te stessa”
E “boom”, lui che non si è voltato un attimo in avanti per non togliere gli occhi dalle tette della sua amata, finisce nel burrone e quella, che lo sorpassa seno al vento, ride dicendo: “I tuoi polpacci saranno ben gonfi, ma hanno poco cervello”.
I raggi della ruota davanti dell’innamorato mi fanno da porta-bevande, ci si incastrano bene bottiglie e bicchieri di plastica.
Carmelina è docile, ma sembra una sorta di contessa miseria, sculetta che sembra ce l’abbia solo lei e Mosè gli va dietro perché pensa che probabilmente ce l’abbia solo lei o meglio, lei la fa notare e la agita più delle altre che se ne stanno con il collo ben saldo al guinzaglio dei padroni che portano a spasso. Già, ho sempre pensato che l’estremità del collare che il padrone tiene nelle mani, sia la cinghia con cui il cane tiene al guinzaglio il suo “ingegnere tedesco” la sua “divorziata italiana” o il suo “pompato americano”, tutte razze esemplari accuratamente scelte dal cane che scodinzolando alla vista dell’uomo o della donna fa come per dire: “Questo è mio, lo prendo” .
Mosè è innamorato, ma per me Carmelina è una donna troppo sofisticata, dovrebbe lasciarla stare.
“Lasciala perdere” dico a Mosè, “non fa per te”.
Ma lui mi guarda e abbaia, e poi posa le zampe sullo sportello della Jeep prendendosi il vento caldo che gli scombina i capelli, in viso e soffiandone fuori dal naso muco e polvere.
“Che schifo Mosè” gli dico, “potresti smettere di riempire la macchina delle tue caccole?”
Ma Mosè pensa a lei, lo si vede da come se ne sta dritto e fiero e con gli occhi spalancati al vento che forte com’è, dovrebbe accecarlo e invece.
“Mosè, smettila di pensare a lei e andiamoci a fare una birra. Domani non ti porterò più al sentiero degli sbadati. E’ quello, che ti ammazza, ce ne andremo sugli scogli della baia delle tartarughe”.
Lui si rimette a sedere e lacrima, chi non lo conosce penserebbe sia il vento, ma non è così, lo sappiamo io e lui soltanto.
Mi lecca la mano mentre sfreccio sull’infinita strada che mi allontana dal centro.
“Perché non ti innamori di una tartaruga, eh Mosè? Quelli sono animali facoltosi, nascono che c’hanno già casa, non devono mica andarsela a cercare, Mosè”.
Mi lecca la mano, forse ha capito che ci sono tante fighe da sniffare, che sniffarne solo una sarebbe come prendere solo l’insalata al cenone di capodanno. Perché limitarsi vista tanta abbondanza?
Lecca lecca e: “Ah, ho capito Mosè, adesso non farmi il solletico”.
Boom.
“Cazzo Mosè, siamo appena entrati nel grande libro di storie del sentiero degli sbadati”.
“Bau” mi dice.
“Bau il cazzo Mosè, lo hai fatto di proposito”.
L’indomani sto pranzando sul cerchione della mia Jeep che uso come tavolino mentre il meccanico sta cercando di riparare il motore che è sceso di dieci centimetri sotto il consentito.
Carmelina sculetta verso la baia stretta in cui abita e Mosè la segue sniffandola lì dove il Sole non dovrebbe mai battere ma che per Carmelina sembra non tramontare mai. Oltre quei due massi enormi che chiudono la via per la baia sconosciuta, solo cani e lucertole possono andare ed io sono soltanto un uomo. Quando Mosè si volta per guardarmi, capisco che non lo rivedrò più.
“Bau” gli dico e quello, triste ma deciso, non mi risponde, anche se in testa il suo “bau” lo avrà per sempre.
Dietro di me una ragazza sola in Tandem chiede “pistaaaaaaa!” ed io non posso fare altro che spostarmi e farla piombare sulla mia carne alla pizzaiola.
“Dio” mi dice lei “non sapevo che questi così fossero così difficili da portare da soli”.
“Io mi chiamo Chicco Scacchi e… posso farti compagnia se vuoi”.
“Piacere, Letizia” disse lei allungando la mano incastrata tra i sedili bianchi impolverati: “Mi tiri fuori da qui adesso?”
“Bau” dissi, ma lei non capì e si limitò a ridere.
Il Tandem non si porta mai da soli, è un po’ come la vita, me lo insegnò Mosè quando gli chiesi:
“Lo compriamo un Tandem io e te?”
Lui mi guardò malamente e si morse le zampe corte e bianche. Mi guardò ancora e quelle zampe me le mise sulle cosce. Abbaiò e scodinzolò, fece tutto quello che un cane può fare.
“Ho capito cosa intendi Mosè. Non c’hai i soldi per il Tandem”.
Alessandro Cascio
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