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Jean de La Fontaine: Cinque favole. (Fiabe e favole per le feste 2) Traduzione di Emilio De Marchi
27 Dicembre 2007
 

LIBRO PRIMO

 

 

I - La Cicala e la Formica.

 

La Cicala che imprudente

tutto estate al sol cantò,

provveduta di niente

nell'inverno si trovò,

senza più un granello e senza

una mosca in la credenza.

 

Affamata e piagnolosa

va a cercar della Formica

e le chiede qualche cosa,

qualche cosa in cortesia,

per poter fino alla prossima

primavera tirar via:

promettendo per l'agosto,

in coscienza d'animale,

interessi e capitale.

 

La Formica che ha il difetto

di prestar malvolentieri,

le dimanda chiaro e netto:

- Che hai tu fatto fino a ieri?

- Cara amica, a dire il giusto

non ho fatto che cantare

tutto il tempo. - Brava ho gusto;

balla adesso, se ti pare.

 

 

II - Il Corvo e la Volpe

 

Sen stava messer Corvo sopra un albero

con un bel pezzo di formaggio in becco,

quando la Volpe tratta al dolce lecco

di quel boccon a dirgli cominciò:

 

- Salve, messer del Corvo, io non conosco

uccel di voi più vago in tutto il bosco.

Se è ver quel che si dice

che il vostro canto è bel come son belle

queste penne, voi siete una Fenice -.

 

A questo dir non sta più nella pelle

il Corvo vanitoso:

e volendo alla Volpe dare un saggio

del suo canto famoso,

spalanca il becco e uscir lascia il formaggio.

 

La Volpe il piglia e dice: - Ecco, mio caro,

chi dell'adulator paga le spese.

Fanne tuo pro' che forse

la mia lezione vale il tuo formaggio -.

Il Corvo sciocco intese

e (un po' tardi) giurò d'esser più saggio.

 

 

III - La Rana e il Bove

 

Grande non più d'un ovo di gallina

vedendo il Bove e bello e grasso e grosso,

una Rana si gonfia a più non posso

per non esser del Bove più piccina.

 

- Guardami adesso, - esclama in aria tronfia, -

son ben grossa? - Non basta, o vecchia amica -.

E la rana si gonfia e gonfia e gonfia

infin che scoppia come una vescica.

 

Borghesi, ch'è più il fumo che l'arrosto,

signori ambiziosi e senza testa,

o gente a cui ripugna stare a posto,

quante sono le rane come questa!

 

 

IV - I due Muli

 

Un Mulo che portava sulla schiena

dei sacchi d'or per conto dello Stato,

tutto superbo camminava a lato

d'un altro Mulo carico d'avena.

Agitando la criniera

colla bella sonagliera

del nemico ei fu cagione

che attirasse sull'oro l'attenzione.

 

Tratta dal buon bottin ecco una banda

piomba sul regio Mulo, e una tempesta

di colpi piove a lui sopra la testa

che invan sospira e ragli al cielo manda.

- Poveretto, - esclama, - a morte

mi conduce l'alta sorte!

Te felice che d'avena,

non di tesor hai carica la schiena!

 

- Buon amico, è questo il guaio,

degl'impieghi illustri ed alti, -

gli rispose il camerata:

- meglio il mulo d'un mugnaio

che il dover far certi salti -.

 

 

V - Il Lupo e il Cane

 

Un Lupo già ridotto al lumicino

grazie ai cani che stavan sempre all'erta,

andando un dì per una via deserta

incontrava un magnifico mastino,

tanto grasso, tondo e bello,

che pensò di dargli morte

provocandolo in duello.

Ma vedendolo un po' forte,

pensò invece con ragione

di pigliarlo colle buone.

Comincia in prima a rallegrarsi tanto

di vedere il buon pro' che gli fa il pane.

 

- E chi vi toglie, - rispondeva il Cane, -

di fare, se vi accomoda, altrettanto?

Quella vita che voi fate

dentro ai boschi è vita infame

sempre in guerra e sempre in scrupolo

di dover morir di fame:

vita stracciata e senza conclusione

che non può mai contar sopra il boccone.

Venite dietro a me, mio buon compare,

che imparerete l'arte di star bene.

Vi prometto pochissimo da fare;

star di guardia, guardar chi va, chi viene,

abbaiare ai pitocchi ed alla luna

e sbasoffiare poi certi bocconi

di carne e d'ossa, d'anitre e capponi,

senza contar la broda

in pagamento del menar la coda -.

 

Udendo questo, della sua fortuna

il Lupo si rallegra fino al pianto.

Ma camminando dell'amico accanto

gli venne visto spelacchiato e frollo

del buon mastino il collo.

 

- Che roba è questa? - È nulla. - È nulla un corno!

- Suvvia non darti pena,

forse il segno sarà della catena

alla quale mi legano di giorno.

 

- Ti legano? - esclamò cangiando tono. -

Né correre tu puoi dove ti piace?

- Che importa? - Importa a me, colla tua pace;

fossero d'oro, i piatti tuoi ti dono,

non è una vita, no, che m'innamora -.

E presa la rincorsa, corre ancora.

  

 

Nota su EMILIO DE MARCHI

 

 Il traduttore, Emilio De Marchi (1851 – 1901), appartiene al verismo nei suoi romanzi più apprezzati. Scrittore di area lombarda - mentre come sappiamo la schiera dei veristi ha esponenti soprattutto meridionali con Verga, Capuana e De Roberto - scrive "Il cappello del prete", "Demetrio Pianelli", con protagonista uno dei primi impiegati della letteratura italiana. Altri romanzi concedono troppo al sentimentalismo. Questa traduzione, delle celebri favole di De La Fontaine, per certi versi è da considerarsi il suo capolavoro. (cds) 

 


 
 
 
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