La condizione in cui verso, quella di non poter più né leggere né scrivere, che erano poi le armi del mio mestiere di sempre, essendomi per tutta la vita occupato a tempo pieno di attività culturali, mi porta ad ascoltare molta radio, in particolare il terzo canale, il più sopportabile tra i molti altri. Così mi è capitato di sentire delle interviste ai ricoverati di un manicomio criminale. Interviste interessantissime. Ne cito una. Da dietro delle sbarre una affermazione che mi ha dato molto da pensare: «guardo in faccia gli psichiatri e capisco la loro ignoranza». Ho conosciuto e anche coltivato qualche amicizia col mondo degli psichiatri, ma non mi sento di dare a quel povero diavolo tutti i torti. Può anche succedere che dopo una vita trascorsa a curarli, finiscano con l’assomigliare ai loro pazienti. Giunto a questo punto del discorso mi folgora all’improvviso una sensazione: non sarà che anche a noi preti, a forza di praticare i peccatori (si pensi, per esempio, alla confessione) capiti di assomigliare a loro?
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Giungono voci, nella crisi generale, di politici all’incanto, sul mercato, comprati e venduti. Una vergogna, anche se, guardando alla nostra storia politica, prima, durante e dopo il fascismo, non inaspettata. Ce la prendiamo tanto con la corruzione, ma essa ha inizio con la corruzione della propria identità.
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Quanto strillare per l’espressione usata da Padoa Schioppa per denunciare il fenomeno dei giovani rimasti troppo a lungo al calduccio della propria famiglia, restii ad andare per il mondo: bamboccioni. In realtà essa non ha niente di offensivo. È un semplice rabbuffo paterno venato da un po’ di bonaria ironia. Guardiamo invece al fenomeno, a pensare bene, davvero preoccupante. Se una generazione rifiuta di misurarsi con i problemi che le toccano in sorte si crea un vuoto che è difficilmente sopportabile. Qualcosa di funesto si affretterà a riempirlo. La Storia è lì a ricordarcelo.
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Naturam expellas furca, tamen usque recurret.
Vediamo di tradurre questa sentenza attinta al tesoro di saggezza tramandatoci dalla latinità. Caccia via con la forza (letteralmente con la forca) la natura, essa comunque tornerà a farsi sentire. Questo adagio sembra calzare a pennello per un uomo, d’altronde non privo di un suo carisma, non facilmente definibile, come Gianfranco Fini. Cosa non ha fatto per far dimenticare il suo fascismo originario assorbito, per così dire, sulle ginocchia di quel relitto del peggiore dei fascismi, quello di Salò, che è stato Almirante. Visite a qualche campo di sterminio o al sacrario di Israele, cambio del nome del partito e quant’altro era dovuto alla carica ricoperta di Ministro degli Esteri. Eccolo adesso – tamen usque recurret – cavalcare l’ondata xenofoba (xenofobia viene dal greco xenos, straniero e da fobia, avversione) sopraggiunta dopo i drammatici eventi che hanno avuto come protagonista qualche immigrato. Ma già dapprima aveva insegnato qualcosa la legge Bossi-Fini, quella innaturale accoppiata tra l’erede di una tradizione unitaria e nemica di ogni legittima autonomia come quella fascista e una tradizione, se vogliamo chiamarla così, separatista come quella rappresentata da Bossi. Resta solo da sperare che il costituirsi, attorno a Storace, di un partito più a destra, spinga Fini ad allontanarsi sempre di più dalle sue origini.
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Cattive notizie dalla amata Svizzera, nostra vicina per non dire conterranea. Alle ultime elezioni politiche ha largamente avuto il sopravvento l’ostracismo verso gli stranieri. Una Svizzera dimentica di sé e della sua Storia, dimentica della sua formazione, di come è nata: raccogliendo e mettendo assieme popoli, culture, storie e perfino lingue, addirittura quattro, e confessioni religiose diverse, che erano e apparivano estranee l’una all’altra. La parola amata vale innanzi tutto per uno come me. I miei genitori si sono conosciuti in Svizzera, e in Svizzera, a Poschiavo, hanno abitato assieme al loro primo figlio per qualche anno, dopo l’assunzione di mio padre tra i macchinisti della neonata Ferrovia del Bernina. Una ferrovia destinata a rendere permeabili e oltrepassabili i confini, nel progetto originario fino, da una parte a Bormio e dall’altra a Edolo, come già raccontato in un’altra puntata di queste mie Rimeditazioni. Se non le fu permesso, lo si dovette all’intervento dell’Autorità militare italiana e l’unica fermata in terra straniera rimase Tirano.
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, dicembre 2007)