L’essere politicamente autonomo, secondo i quattro “caratteri” che Carl Schmitt (Plettenberg, Vestfalia, 1888-1985) assegna quali costitutivi di questa sua Teoria del partigiano (pubblicata per la prima volta a Berlino da Duncker & Humblot nel 1963 e per la prima volta in Italia dal Saggiatore nel 1981; adesso in edizione Adelphi, 2005), si rivela la caratteristica fondante di quella figura particolare di “combattente” la cui stessa definizione letterale (il cui “termine e concetto”) «deriva… da un partito, e rimanda al legame con un partito o con un gruppo in qualche modo combattente, in guerra o nella politica», di quella figura molto particolare di combattente che viene, nel linguaggio corrente, chiamata “partigiano”. Ed infatti quelli che Schmitt pone in qualità di “caratteri” di codesto “partigiano” sono i seguenti: 1) «l’irregolarità»; 2) «l’accresciuta mobilità della lotta attiva»; 3) «l’accresciuta intensità dell’impegno politico» e 4 ) «il carattere tellurico» (ovvero, come ci spiega Franco Volpi nel saggio L’ultima sentinella della terra contenuto nel volume dell’Adelphi nel quale svolge le funzioni di postfazione: «il partigiano combatte in difesa della propria terra»).
In definitiva, cioè, questa teoria del partigiano di Schmitt contempla dentro sé un certo soggetto storico e politico che non è schierato con alcun esercito regolare, che è mobile e velocissimo in tutti i suoi spostamenti spaziali, politicamente impegnato e legato, per così dire con entrambi i piedi, all’ideale della difesa della propria terra. Compendiando gli ultimi due caratteri in quello complessivo dell’impegno politico in difesa della propria terra ed i primi due in quello di una non strutturabile velocità di azione e di manovra abbiamo che quella che si è enunciata nell’incipit di questo articolo come la “caratteristica” del partigiano secondo Schmitt («l’essere politicamente autonomo») trova in questo modo oltre che la sua motivazione più centrata anche la sua più logica ragion d’essere. All’interno di un discorso in cui Carl Schmitt tende a riallacciare questa Teoria del partigiano a quella che è la sua molto più generale teoria del “Politico” il libro che abbiamo davanti appare allora utile giusto se visto come una propaggine, una conseguenza diretta, una conclusione “altra” (e, sia pure ad un caso particolare: anche come un’applicazione) di quello che è stato indubbiamente il contributo più rilevante del filosofo del diritto tedesco ai problemi della filosofia politica e della teoria sociale. Dicendolo in estrema sintesi, nel saggio del 1927 Der Begriff des Politischen (trad. it. in Le categorie del “Politico”, Il Mulino, 1984) Schmitt afferma che l’essenza del “Politico” è da porre nello statuto di individuazione che le due “categorie” di amico (freund) e nemico (Feind) operano sul grado di vicinanza od ostilità rispetto a quello che è il “nemico pubblico”. E nello scritto del 1942 Land und Meer (Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Giuffrè, 1986) egli dirà che ogni ordinamento politico oltre che giuridico deriva per sovrappiù la propria concretezza dalle due coordinate: spaziale e temporale; per quanto riguarda quella spaziale, Schmitt sosterrà che essa si configura oltre che in una certa ottimizzazione dello spazio stesso anche nell’elemento che diremmo più propriamente tellurico: il radicamento di un determinato popolo nel suo territorio e l’occupazione di particolari zone da parte di un gruppo sociale.
Ma lo si è detto anche sopra: pure il partigiano (e proprio a causa di questa teoria di Schmitt) reca come uno dei propri elementi costitutivi appunto quel “carattere tellurico” che lo vuole legato (come fosse un destino) alla propria terra d’origine ed alla sua densa immutabilità.
Appunto, dichiara Shmitt: «tale proprietà è importante per definire, a prescindere da ogni mobilità tattica, la posizione fondamentalmente difensiva del partigiano, il quale si snatura quando si identifica con l’aggressività assoluta di un’ideologia tecnicizzata o di una rivoluzione mondiale».
Gianfranco Cordì