Aqsa Parvez è stata uccisa lunedì 10 dicembre 2007, a Missisauga, in Canada, strangolata da suo padre. Aqsa, la cui famiglia è di origine pakistana ma che era nata in Canada, aveva 16 anni e frequentava il liceo. Ogni mattina si metteva l'hijab e infilava un paio di pantaloni larghi; arrivata a scuola si toglieva il fazzoletto e andava a cambiarsi, indossando i jeans. I lividi che aveva addosso li avevano visti tutti, in classe. I genitori o uno dei fratelli, che la seguivano e la spiavano dalle finestre del liceo, anche. Aqsa aveva chiesto ospitalità alle amiche più volte, diceva che non poteva più vivere in quella casa: aveva ragione. Infatti, quando ci è tornata per prendere alcune sue cose, giacché in quel momento era ospite dell'amica Krista Garbutt, è stata uccisa. Anche questo la ragazza l'aveva previsto: «Mio padre mi ucciderà», ha detto giorni prima ai compagni di scuola, che non l'hanno presa sul serio. Non si muore per un pezzo di stoffa in testa, andiamo. E naturalmente Aqsa era libera di mettersi o togliersi il velo, no? Non mi risulta neppure che sul Corano stia scritto: “E se tua figlia non obbedisce ai tuoi ordini strangolala con le tue mani”.
«Suo padre non faceva che tormentarla con musulmano questo e musulmano quello, ma lei voleva solo vivere, e dimostrare che si poteva aver fede anche in altri modi», racconta Alex Prasad, uno dei suoi compagni. «I suoi parenti venivano a scuola, entravano dall'ingresso posteriore per spiarla, per vedere se aveva addosso l'hijab oppure no», aggiunge un altro studente, Joel Brown. «Aqsa aveva paura. Una volta abbiamo visto suo fratello e lei è corsa a mettersi la sciarpa in testa, terrorizzata. Mi aveva detto che suo padre intendeva ammazzarla, ma spesso si dicono queste cose e non mi sarei mai aspettato di non rivederla a scuola». Muhammed Parvez, il padre cinquantasettenne, non ha mostrato la minima emozione durante la sua prima apparizione in tribunale a Brampton. Suo figlio Wadaq, ventiseenne, è accusato di aver tentato di ostacolare le indagini sulla morte della sorella.
Non riporto le scemenze sugli ormoni degli adolescenti e i tentativi di sviare la questione cianciando sulle “diversità culturali”, che ovviamente ora impazzano sulla stampa canadese. Si sta persino tentando di screditare le testimonianze dei compagni e delle amiche di Aqsa. Non dev'essere l'hijab. Non se ne può parlare. È una semplificazione. Se lo saranno inventato. Aqsa non è più qui a dirci com'è andata, giusto? Allora banchettiamo anche su questo cadavere.
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Se ne volete altri spostiamoci a Bassora, Iraq, dove quest'anno i vigilantes religiosi hanno ucciso e allegramente mutilato solo quaranta donne che «violavano gli insegnamenti islamici». Se ne andavano in giro senza hijab. E per questo, dopo essere state ammazzate e fatte un po' a pezzi, sono state sepolte a mezzo nella spazzatura, con bigliettini appiccicati addosso che spiegano come i loro abiti fossero inadeguati.
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Non bastano? Andiamo a Sulaimaniyah, Kurdistan iracheno: le donne ammazzate quest'anno sono quattrocento. Le più fortunate sono morte a colpi d'arma da fuoco o strangolate come Aqsa, ma sono pochissime. La stragrande maggioranza è stata bruciata viva dopo un pestaggio più o meno pesante. Alcuni sono “suicidi”: si chiude la ragazza o la donna battuta da qualche parte con tutto il necessario, che provveda da sola. Un uomo di Kirkuk è stato fortunosamente fermato prima che potesse uccidere la sorella, anti-islamica malvestita sgualdrina senza velo. Quando durante l'interrogatorio gli hanno chiesto perché volesse ammazzare la donna ha risposto: «Secondo me è un'adultera. E adesso siamo in democrazia, no?». Direi che è una splendida sintesi dell'idiozia religiosa e laica, e la dimostrazione pratica di come il terrorismo contro le donne non abbia confini: è multiculturale.
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 19 dicembre 2007)
Fonti: contatti personali, The Guardian, The Associated Press, Reuters, Cnn.