Il Cairo, Egitto. Nora, una madre di soli quattordici anni, fa tintinnare le chiavi sopra la testa della sua bimba, ottenendo sorrisi dalla piccola che ha concepito vivendo sulla strada, al Cairo.
È una delle centinaia di migliaia di ragazzine e ragazzini che secondo la stima delle NU vivono nelle strade d’Egitto, con una percentuale sempre crescente di bambine, che ci arrivano anche a quattro o cinque anni per povertà, fuggendo da abusi o case disgregate. Mentre la piccola Shaimaa gioca con le pantofole ai piedi della madre, Nora descrive i pestaggi che subiva dal fratello a sei o sette anni e una vita di sesso forzato sulle strade, dove è rimasta incinta subito dopo aver raggiunto la pubertà. «Agli uomini non fa differenza. Non gli interessa se sei grande o piccola. Io sono stata ‘rubata’», dice Nora, usando un termine del gergo delle ragazze di strada egiziane, che significa essere rapita e stuprata.
Accoppiata alla fascinazione di una città di automobili da favola e negozi lussuosi, la stretta economica che ha ridotto un quinto degli egiziani in assoluta povertà ha spinto molti come Nora fuori dalle loro case, mentre i legami familiari si perdono. In una società musulmana conservatrice a livello sociale, la vita sulla strada può diventare un danno permanente per le ragazze. «L’abuso sessuale è solo l’abc del fenomeno. Non solo per le bambine, ma anche per i maschietti», dice Seham Ibrahim, il cui gruppo, Tofoulty, gestisce un rifugio per le ragazze di strada. Nora vive in uno di questi rifugi con Shaimaa, le cui orecchie sono forate da minuscoli cavalli d’oro. Ma non tutte le ragazze trovano una via d’uscita. Due capi di una gang di ragazzi sono stati condannati a morte in maggio, per aver stuprato e ucciso sicuramente tre bambine di strada e forse altre ventitré al Cairo e nell’Egitto del nord. In un altro caso, la polizia ha arrestato un uomo accusato di aver imprigionato sei bambini e bambine, di averli violentati e forzati a mendicare.
Le ragazze di strade del Cairo, spesso provenienti dall’ambiente rurale o da baraccopoli, dormono sui marciapiedi o nei giardini pubblici, affrontano di continuo la minaccia dello stupro, e sniffano colla per sedare il dolore o il freddo. Alcune chiedono la carità, altre vendono fazzolettini di carta agli incroci. Ilham, una quieta undicenne, mi racconta che per una settimana ha dormito nell’androne di una stazione di polizia, ricevendo cibo dai poliziotti, dopo che i suoi genitori si sono separati e sua zia l’ha bruciata con metallo rovente.
«La sessualità nella loro esistenza sulle strade comincia con lo stupro, molto presto. Quando trovano qualcuno con cui stare è naturale per loro avere rapporti sessuali», dice Alia Mossallam, che lavora alla protezione dei bambini per l’Unicef. Nora conferma: ad un certo punto della sua vita da vagabonda ha contratto un “matrimonio non ufficiale” con un altro ragazzo di strada: «Perché aveva una stanza, e a me non andava di restare in strada». I volontari che lavorano con i bambini di strada al Cairo dicono che hanno cominciato a veder ragazzine senza casa dalla metà degli anni ’90: allora esse si tagliavano i capelli e tentavano di farsi passare per ragazzi, allo scopo di essere maggiormente al sicuro dagli abusi. Il numero delle bambine di strada, da allora, è cresciuto vertiginosamente, e Mossallam stima che siano ora il 20 o 30% del totale. Sono assai disprezzate, in Egitto, dove ci si aspetta che le ragazze giungano vergini al matrimonio e le vittime di violenza sessuale sono considerate “macchiate”.
Per Magda, un’undicenne chiacchierina con un incisivo rotto e la coda di cavallo, che vuole imparare il karate, a spingerla sulla strada tre anni or sono è stata la separazione dei genitori accoppiata alle botte datele da sua nonna. «Non era difficile. Dormivo sui marciapiedi, la notte. Ma c’erano cose di cui tutte avevamo paura. Avevamo paura dei ragazzi che venivano di notte». Magda ha cercato di lasciare in fretta la strada. Ha trovato un rifugio, va a scuola, spera di andare all’università. Un’altra ragazza, Amani, è fuggita a causa dei pestaggi in casa ed è arrivata al porto di Alessandria con un’amica, ma quest’ultima l’ha lasciata quando il suo denaro è finito. «Poi è arrivato questo tizio e mi ha aggredita, e quando ha finito non ero più una ragazza», dice la quindicenne Amani. Più tardi scoprì di essere incinta e sebbene abbia avuto un aborto spontaneo ha ancora paura di tornare a casa.
Un’indagine governativa del 2006 ha attestato che all’incirca la metà delle bambine di strada è sessualmente attiva e che circa il 45% di esse sono state stuprate. Le persone che lavorano con queste ragazzine dicono che i numeri reali sono molto più alti. La violenza carnale è sovente la prima esperienza che le bambine hanno non appena arrivano in strada. Quando accade, come a Yasmine, diventa molto difficile tornare a casa: «Sono stata ‘rubata’ assieme ad altre ragazze. Mi hanno tenuto prigioniera per quattro giorni», racconta Yasmine, ora ventenne, giocherellando con il fazzoletto rosa che ha in testa. «Ci avevano messo dei cani attorno, perché non potessimo scappare. Poi, quando hanno preso ragazze nuove, ci hanno lasciato andare». Dice che tentò di tornare ad un rifugio per bambini, ma poiché ci era già stata non la ripresero. Anni più tardi è ora incinta di un piccolo il cui padre è in carcere per furto.
Seham Ibrahim di Tofoulty dice che le ragazze con maggior esperienza prendono pillole contraccettive, che sono facilmente accessibili nelle farmacie egiziane, e molte di quelle che restano incinte non portano a termine la gravidanza. Abortiscono intenzionalmente o per la durezza della vita in strada. Alia Mossallam aggiunge che: «Respirano colla, e prendono medicinali che possono dare allucinazioni se assunti in alto dosaggio. Hanno nomi, nel loro gergo, per questa roba. Una delle medicine è chiamata sarasir (scarafaggi), perché quando la prendono hanno l’impressione di avere scarafaggi addosso».
Le ragazze incinte possono avere aiuto se riescono a raggiungere un rifugio. Altrimenti, le condizioni sono durissime. «Restano incinte in strada, e in strada partoriscono», dice Tarek Ali, amministratore della società “Villaggio della speranza”, che dirige un rifugio per le madri di strada. Molte di queste giovanissime madri non riescono ad ottenere certificati di nascita per i loro figli, perché i padri di essi sono sconosciuti o negano la paternità. Con i loro piccoli fra le braccia, diventa impossibile per loro reintegrarsi nella società.
«La gente spesso ci guarda con odio. Voglio dire a questa gente di cambiare idea su di noi», conclude Yasmine, accarezzandosi il pancione, nel rifugio dove ora vive.
Cynthia Johnston
(per Reuters, 13/12/2007 - trad. Maria G. Di Rienzo)