Valerio Adami
Colori e tema: entrambi da mettere assieme come cosa nata intera, inestricabile. La linea dice che trattasi non di giustapposizione, ma di calligrafica iscrizione.
Trattasi di racconto senza che vi sia svolta alcuna narrazione. Del tempo che si svolge o che si arresta, del disegno che si forma: di cosa, non di orma.
Vetri corrosi che il mare ha riportato a riva, di cui il quadro attesta l’impossibile collezione. Elementi estranei, selezionati col gusto di chi non vuole servirsene.
Motivazioni presenti come specchi per le allodole avvisano il navigante che il mare di detriti nella memoria non fa storia.
Ciò che è leggendario coincide con ciò che è quotidiano: non è che un trapasso temporale del tutto trascurabile. Il colore è quello smaltato e vivido della ricostruzione soggettiva.
Materiali collassano nel colore fino a diventare l’unico oggetto del resoconto, quello che si svolge dal mito ai nostri giorni.
Nel corpo statuario di Pandora riconosco il gesto della Statua della Libertà che regge un moccolo. Il vaso è gentilmente messo a disposizione da una mano compiacente. Porcello e ombrello fanno parte della scatola scenografica che viene filmata per essere montata in una esposizione di più ampio respiro, in cui rito e gioco si intersecano su assi sincronici e diacronici.
Lembi di cielo si sollevano come tende, scollandosi dalla presenza ottenebrante della terra. Si scorge un blu abissale, il blu dei piatti di ceramica, dei lapislazzuli tritati, della volta vitrea.
In qualsiasi personaggio, anche il più miserevole, è sempre possibile rintracciare l’antecedente mitico. Colore miracoloso, che riporta alla ribalta ciò che si crede distante. Colore saturante!
Sulla superficie si può agire come se si desse luogo al volume, a una rappresentazione tridimensionale del tutto illusoria. E’ la storia della pittura che qui si rintraccia. E’ l’avvenimento senza racconto quello visto in un quadro.
Ridondanti didascalie, come inutili orpelli, nei libri delle elementari, dicono senza aggiungere nulla in più di quel che si offre alla vista.
Architetture si aprono dietro il sipario e invogliano a visite in porzioni di tempio color rubino.
Il teatro non si guarda dal buco della serratura. Il corpo che Adami dice essere il suo equivale alla maschera che porge. Scorre su tutto un cielo striato il cui colore non coincide con quello di un cielo reale. Le pantofole rosse giurerei che sono le uniche cose rispondenti a verità.
La messa in scena si attua in un contenitore illuminato da lampadine. Ci sono elementi che fingono un enigma che lo spettatore deve saltare a piè pari. Il rebus dice, peraltro, che V.A. s’identifica con V.A. e che V.A. è l’artefice.
Se un cono di luce colpisce il piano, rende la porzione di spazio illuminata come appartenente a un’altra materia. È nell’ordine dell’evidenza, della molteplicità dei piani che s’instaura il diverso valore, il significato tonale.
Ogni quadro è un atto inscenato. Ritagliato da un fluire, sganciato da motivazioni. Quel che resta è l’atto atemporale, pur nelle mutazioni.
C’è sempre un oggetto che riattualizza un momento storico o mitico. Una relazione non spiazzante né significativa. Tutto si mescola nella memoria. Tutto serve per vivere.
Oggetti sono immessi a viva forza nel quadro come parzialità, reperti. Un camion è un reperto archeologico all’interno di un calvario vissuto come presente.
La coppia che balla è contemporaneamente inscritta in spazi differenti: li taglia verticalmente e ne fuoriesce. Il rapporto di figura/sfondo ne risulta scardinato. Percepiamo lo spazio in cui ruotano, il vortice in cui sono presi gli occhi.
Cose sono contemporaneamente altre. Mollette sono pinzate ai molteplici fili in cui si dipana l’orizzonte.
Costruzioni in legno, rocchi di colonne e capitelli stondati con cui ricostruire scenografie realistiche, scorci prospettici della memoria, percorsi di viaggi ricostruiti a tavolino.
Se si apre la scatola, vi si trova all’interno un piccolo tempio rotondo in cima a una collina. Quando la si riapre, c’è un uomo che non ha rapporto apparente col tempio.
Nessuna distanza temporale tra il qui e l’allora. La lei che fu, nei tempi arcaici. Il corpo avvolto nei panni e i capelli raccolti sotto queste nuvole.
Sfida la montagna, portandosi addosso, nel viaggio ascensionale, le gambe di lei, la giacca e il tempio.
È un colore locale, che sa di evento non situato; è un colore presente, percepito.
Linee d’orizzonte, incuranti di già occupate posizioni, si intersecano, stravolgendo assetti stazionari. Nessuno spazio pre-esiste a un altro spazio. Nessun corpo appartiene solo a se stesso. Piani vi passano attraverso. Il nostro corpo sezionato.
Un corpo non è mai solo un corpo. È una costruzione intellettuale, è un oggetto delineato dalla memoria e porta calzari e corazze. Un corpo, spesso, lascia un cappello e s’accompagna a una falce.
I libri sono sempre dentro al quadro e appena fuori.
Emilio Tadini
Ci si può dimenticare dei piedi e delle mani o posizionare al posto del volto un cespo di verdure. Si può dare il nome di Voltaire a questo paradosso. Voltaire è ciò che può essere ancora oggi: un diverso abito mentale. Ci si può immaginare in amena conversazione con lui soltanto svuotandosi, liberandosi dalle incrostazioni culturali. Sicuramente, ridendo e bevendo.
Se alla tavola intervengono anche un rinoceronte e una divisa, siamo nel pieno di un dramma assurdo, in cui a nulla valgono le indicazioni chiarificatrici di un rossetto, di un cuscino e di un inevitabile cappello da investigatore. La testa di Voltaire è andata. Soppiantata da un lampadario. La pittura non è estranea al luogo del delitto. È lei che lo costruisce, che gli dà fondo ed enigma.
Utilizza la pittura come un mezzo investigativo, mezzo con cui è, al contempo, impossibile rinvenire elementi risolutivi d’identità. D’altronde, una restituzione non è mai fedele e l’immagine si ricompone sullo schermo secondo le proprie leggi. L’occhio percepisce le differenze, non può essere ingannato da falsi indizi gettati come briciole sul tavolo per ricostruire il misfatto, ma non è in grado di ricostruire la visione integra.
Goethe ha viaggiato in Italia e si è ritratto mentre guardava alla finestra. Altri indizi congruenti col tema sono: un casco da esploratore, una Nike alata e una piramide, entrambe rigorosamente nere, una poltrona di legno e il basamento di una colonna.
Guardare il vecchio da una nuova ottica deve produrre qualcosa di diverso.
Elementi giustapposti, culturalmente coevi, non sono sufficienti a ricreare il nuovo.
Costruisce non-sense con elementi del passato. L’elaborazione ha sue regole da non disattendere, pena la mancata rappresentazione.
Puoi interpretarlo come fosse un anagramma. Sentiti pure libero! Fai le associazioni che vuoi. Se non ti viene in mente niente, non è colpa tua.
Fra Goya e Superman, riempiono lo spazio da interpretare una scarpa da donna e una caraffa. La sedia sta rotolando in aria come la palla. Non tutto è però sullo stesso piano.
Reminiscenze non aiutano, citazioni mettono su una pista sbagliata. Elementi ricorsivi individuano una medesima serie.
De Chirico e Carrà non possono essere gli autori del delitto, sono già morti, mentre qui il colpevole è vivo, è l’autore recidivo.
La distanza tra il testo e il dipinto non starebbe che nel colore. Qui, venite ancora una volta messi su una pista sbagliata.
L’anagramma è costruito con un assembramento di elementi tautologici. Meglio darsi all’ippica.
Questo è il castello degli enigmi privi di orrore. Nessun delitto vi è stato commesso. Vi è, però, stato realizzato un quadro.
Sembra una pittura prodotta con i caratteri di stampa. Nessuna sbavatura, né eccedenza di senso fra gli oggetti sospesi su un fondo immacolato. Aporie non vi si possono produrre a dispetto del titolo.
Fra gli astanti, dinanzi al quadro accusatorio, nessuno si ricorda più qual’è il mistero da svelare, l’origine da ritrovare.
Nomi non corrispondono a cose, né figure a oggetti.
Sulla barca del diluvio, inutilmente, si affastelleranno ricordi, nozioni, utensili.
L’assassino indossa scarpe da donna, ma non è detto che sia una femmina, il cane è stecchito e il pittore armato di pennello. Dalla porta socchiusa sul passato fuoriescono oggetti inutili poiché oramai desueti. A un giocatore baro fa fede la pistola. L’occhio della pittura assembla: amore continua a fare rima con cuore e dal cilindro esce l’autore.
È l’autore, qui, a mettere su una pista sbagliata gli interpreti. L’abbiamo scoperto. Gioca a creare allegorie che non rinviano a nulla. Perdersi nello spazio dei rimandi è perdere tempo.
Si è profughi dinanzi alla collezione attuata nel proprio passato se non ci si impone una direzione, una gravità. Fluttua insieme ai propri oggetti, avendo smarrito le coordinate di riferimento.
La tela diviene tela proiettiva degli oggetti visti in un’intera esistenza: i pesci che si moltiplicano, i palazzi di notte, gli aquiloni…
Deroga dai binari, salta le stazioni e sorvola la città in cerca di spazi iperurani ove oggetti quotidiani si possano disperdere, possano sparirgli dalla testa, anziché ingravidargliela, e la loro sparizione, salvifica, ricondurlo alla tabula rasa.
Nella città di sogno, funamboli percorrono funi senza capo né coda, tengono la luna per un filo e pescano pesci siderali, mentre icari si lanciano al suolo.
Metamorfosi sono sempre in agguato, quando si dà il via a una narrazione. Ermafroditi, nani e clown fanno la loro comparsa nell’arena. Sono tutte maschere. L’autore si traveste e buggera il testimone.
Nessun delitto nella notte dei tempi. Il mito racconta una bugia al cui lume Voltaire si rifà la punta.