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Francesco Pullia. Tibet, gli antefatti 
Un po’ di storia per fare chiarezza
13 Dicembre 2007
 

Da cinquant’anni il governo di Pechino continua arrogantemente a sostenere che la vicenda tibetana è una questione interna. Si tratta di una posizione che, a dir poco, falsifica la verità storica. Per spiegarlo, dobbiamo partire da lontano.

Sebbene la storia del Tibet abbia inizio nel 127 a.C. con l’avvento della dinastia Yarlung (dal nome di un fiume della regione centrale), il paese venne di fatto unificato per la prima volta nel VII sec. d. C. con Songtsen Gampo, trentatreesimo monarca della dinastia, che favorì la penetrazione dall’India degli insegnamenti buddhisti e diede un impulso significativo all’evoluzione culturale.

Gli successe Trisong Deutsen che estese talmente l’impero da potersi permettere di assoggettare, nel 763, la stessa capitale cinese.

Non solo. A lui si deve l’effettiva diffusione e affermazione del buddhismo. Chiamò, infatti, dall’India e precisamente da Nalanda, celeberrima università (ospitava duemila insegnanti e oltre diecimila studenti e fiorì dal V al XII sec. quando finì distrutta dalle orde musulmane), l’erudito Santarakshita e il grande, e ancora oggi venerato, maestro Padmasambhava. Quest’ultimo, cui si deve la nascita del primo insediamento buddhista in Tibet, avrebbe, tra l’altro, profetizzato che quando «gli uccelli di ferro avrebbero volato» e «i cavalli avrebbero girato sulle ruote» i tibetani sarebbero stati costretti ad abbandonare, «come le formiche», la propria terra e il buddhismo si sarebbe rivolto «agli uomini bianchi».

Alla scomparsa di Trisong Deutsen salì al trono, nell’815, Ralpachen. Autore di uno stabile trattato di pace con la Cina, si dedicò ad incrementare la conoscenza del buddhismo. Cadde, però, vittima di una congiura ordita dal fratello Langdarma con l’appoggio di esponenti Bön (religione naturale, con aspetti ritualistici sciamanici, praticata precedentemente all’arrivo del buddhismo).

Langdarma fu un pessimo amministratore e, a sua volta, morì assassinato nell’842, lasciando un impero frantumato in una miriade di principati piccoli e bellicosi.

Il Bön tornò in auge ed il buddhismo fu momentaneamente sradicato per tornare ad essere oggetto di rinnovato interesse tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo secolo.

La costruzione dei più importanti monasteri buddhisti, quelli che finiranno per acquistare rilevanza anche sociale e politica, risale proprio a questo periodo. Si creò una nuova koiné culturale e religiosa e il paese, nonostante la divisione in potentati, conobbe un momento di relativa tranquillità.

Il tredicesimo secolo vide l’ascesa del capo mongolo Gengis Khan che, alla guida delle sue temibili armate, assoggettò la Cina e nel 1207 sottomise anche i tibetani. Nel 1239 Godan Khan, nipote di Gengis, impressionato dall’influenza esercitata dai lama, invitò alla sua corte Sakya Pandita, il più rinomato maestro spirituale dell’epoca, appartenente alla scuola sakyapa (dal nome di un monastero edificato nel 1073).

Il capo mongolo rimase talmente colpito dall’incontro da convertirsi al buddhismo. Proibì scorrerie del suo esercito nel Tetto del mondo e assegnò proprio agli abati sakyapa il governo dell’intero Tibet.

Suo figlio, Kublai Khan, che aveva instaurato in Cina la dinastia mongola degli Yuan, designò il capo dei sakya come Precettore imperiale.

Solo per informazione, ricordiamo che le quattro grandi scuole che caratterizzano il buddhismo tibetano sono la nyingmapa (gli “antichi”), la Kagyupa (che annovera maestri come Marpa e Milarepa), la gelugpa (fondata agli inizi del XV secolo dal grande riformatore Lama Tsong Khapa e ispirata a un criterio di purezza originaria; ad essa appartiene l’attuale Dalai Lama) e, appunto, la sakyapa. Va anche detto che, a differenza dei gelugpa, i sakyapa non osservano il celibato e riconoscono come loro massimo esponente un lama laico, il Sakya Trinzin, scelto non tramite reincarnazione ma per processo ereditario.

Il potere temporale dei sakyapa durò circa un secolo, fino a quando non andò al potere la famiglia nobiliare tibetana dei Pamotrupa, cui seguirono i principi di Rinpung e, nel 1565, i re di Tsang.

Nel frattempo si stava affermando la scuola gelugpa, detta anche dei “berretti gialli”, per via dei caratteristici copricapi indossati dai monaci (i sakyapa portavano, invece, “berretti rossi”).

Nel 1578 l’imperatore mongolo Altan Khan, lontano discendente di Gengis, convertitosi al buddhismo, divenne discepolo del lama gelugpa Sonam Gyatso e, in segno di devozione, gli conferì il titolo di Dalai Lama (“Oceano di saggezza”), facendo in modo che estendesse alla sfera politica l’influenza spirituale.

Sonam Gyatso, in realtà, non fu il primo ma il terzo Dalai Lama, in quanto il titolo ebbe valore retroattivo nei confronti di altri due esponenti dell’ordine gelugpa.

I primi decenni del XVII secolo furono drammatici, segnati da forti scontri che finirono per coinvolgere e opporre tra loro anche i kagyupa e i gelugpa.

Il potere dei sovrani Tsang (i quali, tra l’altro, erano sostenitori dei karmapa, sotto-scuola dei kagyupa) cominciava ad indebolirsi senza che si vedesse all’orizzonte una forza in grado di prevalere.

Fu in tale contesto che Ngawang Lobsang Gyatso, V Dalai Lama, riuiscì ad imporsi come unico antagonista della dinastia Tsang. Dalla seconda metà del XVII secolo rinsaldò il proprio potere grazie all’appoggio politico e militare dei mongoli governando un Tibet finalmente riappacificato, unito e indipendente. Non a caso sarà ricordato come il Grande Quinto.

Si insediò a Lhasa, dove iniziò la costruzione del Potala e di numerosi monasteri, e istituì la seconda carica religiosa del Tibet, quella del Panchen Lama, in omaggio alla guida spirituale del monastero di Tashilumpo. I problemi cominciarono nel 1682, alla sua morte.

Divenuto reggente, il suo principale collaboratore, per timore che un nuovo vuoto di potere sfociasse in un altro periodo di rivalità fratricide, coprì per diversi anni la notizia. La finzione non poteva, però, durare troppo a lungo e alla fine fu costretto ad ammettere la verità. Contemporaneamente, però, fu annunciato che la nuova reincarnazione era stata trovata e sarebbe stata insediata a Lhasa.

Disinteressato alla politica, il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica dedita prevalentemente alla stesura di componimenti amorosi.

Nel frattempo i Manciù, popolazione di origine non cinese,avevano preso il sopravvento in Cina dando vita alla dinastia Ch’ing che subito mostrò intenzioni annessionistiche nei confronti del Tibet. Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo esporsi in prima persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo, Lhazang Khan, a varcare i confini del Paese delle nevi.

Il legittimo governo fu deposto, il VI Dalai Lama arrestato e inviato in Cina dove, guarda caso, non giunse mai perché probabilmente assassinato in viaggio.

La tragica scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio del capo mongolo aprirono una pagina dolorosa, di violenze e atrocità.

Approfittando dell’ostilità dei tibetani nei confronti dello spietato Lhazang Khan, un’altra popolazione mongola, gli Zungari, invasero a loro volta l’altopiano uccidendo nel 1717 Lhazang Khan, conquistando Lhasa e abbandonandosi ad eccessi di ogni genere.

Dal caos generatosi trasse profitto l’imperatore manciù Kang Hsi che, tra l’altro, insediò nel Potala il nuovo Dalai Lama, il VII, trasformando tuttavia il Tibet in una sorta di protettorato manciù.

Due suoi rappresentanti, gli Amban, si stabilirono a Lhasa con una guarnigione cinese di duemila uomini e il compito di curare gli interessi di Pechino.

Attenzione. È questa una fase molto delicata della storia tibetana perché è proprio dagli avvenimenti di questo periodo che nascono molti degli equivoci riguardanti l’effettivo status del Tibet.

Bisogna, infatti, chiedersi se dal 1720 il Tibet diviene o no parte integrante dell’impero cinese. La risposta che ci fornisce la storia è, con estrema chiarezza, negativa. Vediamo perché.

I tibetani furono, infatti, sì costretti ad accettare la “soluzione imperiale” come male minore ma, nel concreto, continuarono a comportarsi come se nulla fosse accaduto confidando nel fatto che i Manciù non avrebbero assolutamente potuto esercitare un prolungato controllo. Ed ebbero ragione. Tornato in Cina il grosso dell’esercito di Pechino, il Tibet fu nuovamente governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre gli Amban si limitarono a svolgere un ruolo più simile a quello di ambasciatori che non di plenipotenziari.

Il VII Dalai Lama non volle, comunque, rivestire alcun ruolo politico preferendo invece dedicarsi, come il suo successore, l’VIII, ad un’intensa vita spirituale. La conduzione degli affari di stato fu affidata ad un gabinetto (Kashag) composto da quattro ministri (Kalon) di cui tre laici e uno religioso. Un assetto legislativo che rimarrà sostanzialmente inalterato fino al 1959.

Nonostante il IX, il X, l’XI e il XII Dalai Lama fossero tutti morti precocemente, le mire cinesi non si realizzarono mai.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo l’impero manciù cominciò ad entrare in crisi ed il Tibet si trovò al centro delle ambizioni di altri due imperi, quello russo, zarista, e quello inglese, desideroso di ampliare i confini della propria colonia indiana.

Nell’agosto 1904, durante il governo del XIII Dalai Lama, una spedizione inglese al comando del colonnello Younghusband entrò a Lhasa per fare ritorno, dopo sei mesi, in India. Fu firmata una convenzione anglo-tibetana che prevedeva, tra l’altro, scambi commerciali tra le due nazioni e vietava ogni ingerenza esterna nella politica del Tibet. Va sottolineato che in nessun punto del trattato è menzionato alcun diritto da parte dei cinesi. Il Tibet, di fatto, era una nazione libera di decidere il proprio destino e di firmare accordi internazionali.

La reazione cinese non si fece attendere. Nel tentativo di raggiungere un accordo, la diplomazia britannica affermò che il Tibet era stato per un certo periodo nella “sfera d’influenza” manciù senza che, però, i cinesi avessero mai esercitato una diretta sovranità.

Le insistenze di Pechino portarono nel 1906 alla ratifica di un altro trattato, questa volta sino-britannico e steso all’insaputa dei tibetani, in cui, tra l’altro, si dichiarava che l’Inghilterra non aveva mire espansionistiche e non voleva interferire negli affari interni dello stato tibetano. Rimaneva, tuttavia, nel vago il ruolo della Cina. Così facendo, e con non poco cinismo, gli inglesi erano riusciti a trovare un’intesa per arginare i russi, considerati ben più temibili dei manciù.

Una volta compreso che il vero scopo dell’Inghilterra era solo quello di tenere a bada la Russia zarista, i cinesi si fecero più aggressivi e prepotenti e nel 1910 invasero il Tibet, entrando per la prima volta esplicitamente contro la volontà popolare e dichiarando deposto il XIII Dalai Lama che fu costretto a fuggire nell’India britannica.

La non collaborazione e la fiera resistenza dei tibetani fecero, però, sì che i manciù si rendessero conto dell’impossibilità di governare senza e contro il Dalai Lama. Per questo, ribaltando la propria politica, chiesero al XIII Dalai Lama di riprendere il posto che gli spettava.

Nell’ottobre 1911 una rivolta nazionale rovesciò in Cina il potere manciù e l’ultimo imperatore. L’esercito imperiale cinese si sfaldò. Nell’estate 1912, grazie alla mediazione del governo nepalese, tibetani e cinesi raggiunsero un accordo riguardante la resa dell’ex contingente manciù e l’immediata espulsione dei suoi componenti dal Tibet che, dopo due anni di dominio straniero, tornava ad essere libero e indipendente. Il XIII Dalai Lama tornò a Lhasa confermandosi come unica e legittima autorità del Tibet.

Tuttavia, per ironia o crudeltà della sorte anche la neonata repubblica cinese avanzò le medesime pretese della dinastia manciù, ostinandosi a considerare il Tibet parte integrante della Cina. Alla fine, la diplomazia britannica, chiamata in causa dallo stesso XIII Dalai Lama, si convinse della necessità di un accordo tra tibetani e cinesi sotto la supervisione di Londra.

Nel 1914 fu così indetta a Simla, cittadina nel versante indiano dell’Himalaya, una convenzione che, nel documento finale, prendeva atto dell’effettiva indipendenza del Tibet, riconosceva che la nazione non aveva alcun legame con la Cina e stabiliva i confini dello stato con una precisa linea di demarcazione, nota come Mac Mahon, dal nome del plenipotenziario inglese, che non lasciava adito a dubbi di alcun genere. L’accordo fu, però, siglato solo dai britannici e dai tibetani. I cinesi si rifiutarono di apporre la loro firma.

Seguirono anni di relativa calma e stabilità fino alla morte, nel dicembre 1933, a cinquantasette anni, del XIII Dalai Lama che, come abbiamo visto, svolse un ruolo di primo piano a livello diplomatico e all’interno, con una decisa azione riformatrice e di ammodernamento di una società troppo a lungo ancorata a modelli feudali.

Un anno prima di morire, il XIII Dalai Lama, che si meritò l’appellativo di Grande Tredicesimo, aveva indirizzato al suo popolo un vero e proprio testamento spirituale in cui annunciava profeticamente l’addensarsi di nubi fosche.

In Cina, dopo anni di sconvolgimenti interni e guerre civili, il regime nazionalistico di Ch’ang Kai Shek venne sconfitto e il 21 settembre 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese con a capo Mao Tse Tung. Il nuovo regime comunista non nascose dall’inizio i propri propositi nei confronti del Tibet. Ciu En Lai si affrettò a dichiarare dai microfoni di Radio Pechino che l’anno successivo l’«esercito popolare» avrebbe «liberato» Taiwan, Hainan e il Tibet. Fu il prologo dell’odierna tragedia. Il sette ottobre 1950, quando la frontiera tibetana fu contemporaneamente attaccata dai cinesi in sei luoghi diversi. Le debolissime truppe di Lhasa furono travolte. Nonostante le dimostrazioni tibetane di eroismo, non poteva esserci confronto e l’avanzata del rullo compressore inviato da Pechino si dimostrò subito inarrestabile.

Il diciassette ottobre capitolò Chamdo, capoluogo del Tibet orientale e perno dell’intero sistema difensivo. Il venticinque dello stesso mese Radio Pechino poté spavaldamente annunciare, ad un mondo vergognosamente e omertosamente distratto, la notizia che il Tibet era stato invaso e «liberato dal giogo imperialista». Sappiamo di che tipo di liberazione, purtroppo, si trattò.

 

Francesco Pullia

(da Notizie radicali, 12 dicembre 2007)


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