Teheran, Iran. Benestante donna alla moda, della zona nord di Teheran, Sudaveh non aveva la più pallida idea di cosa fare quando la “polizia morale” si presentò ad ispezionare la sua fabbrica di abiti. Zarir, la sua giovane assistente proveniente dai pii slum del sud della città, sapeva esattamente come comportarsi. «Non entrate in quella stanza!», disse agli uomini della polizia mentre Sudaveh correva a coprirsi la testa per rispondere al “codice d’abbigliamento islamico”. «Alla signora non piace essere disturbata quando prega». Ed anche: «Non aprite quel cassetto», che era dove Sudaveh, nel passato grande viaggiatrice, teneva i cataloghi di design che giudicava più rischiosi. «Potrebbero esserci sue fotografie senza sciarpa in testa».
Nel mentre Zarir aiutava Sudaveh a destreggiarsi fra le intricate norme della Repubblica Islamica, Sudaveh aiutava Zarir a trasformare se stessa da vittima di violenza domestica inchiodata nella propria casa a donna d’affari, una donna che ha affrontato il suo ex marito ed una severa famiglia tradizionalista. Da quasi vent’anni, le due donne appartenenti a due diversi Iran sono diventate amiche. I fili delle loro vite si sono intrecciati. La loro nazione è cambiata. Il loro commercio di abiti è cresciuto sino a diventare un piccolo impero.
Dopo la rivoluzione islamica del 1979, l’Iran fu rovesciato sottosopra. Dalle strade sparirono prostitute e ubriachi, e divennero sobrie come moschee durante le preghiere del pomeriggio. Furono le case, un tempo rifugi di quiete dalla baldoria della città, a mutarsi in bar e nightclub improvvisati. Le famiglie benestanti persero status e beni, e molte si trasferirono all’estero. In questo mondo trasformato, Sudaveh e Zarir strinsero alleanza. Prima della rivoluzione, Sudaveh lavorava come vice direttora della Banca Agricola statale, un posto d'élite che aveva raggiunto tramite le sue conoscenze ed il background quasi aristocratico della famiglia. Ma come molti altri, fu cacciata dal lavoro.
Inquieta ed instancabile, allora sulla trentina, Sudaveh cominciò a vagliare le proprie opzioni. Voleva guadagnare denaro per la sua famiglia, essere occupata e restare distante dalla nuova classe di pii burocrati e dai loro codici “islamici” di comportamento. «Non ero il tipo che resta a casa. Dovevo lavorare». Decise di entrare nel ramo abbigliamento, specialmente infantile, per evitare i problemi che si accoppiano a qualsiasi cosa abbia a che fare con i vestiti delle donne iraniane. Cominciò a disegnare magliette, che venivano prodotte a basso costo nei laboratori dei sobborghi di Teheran, e assieme ad un’amica di nome Haleh le proponeva ai negozi.
«Mio marito lo considerava un gioco. Mi prendeva in giro», ricorda Sudaveh, che ha chiesto di non venir identificata né con il proprio cognome né con il nome della sua ditta, per non mettere in pericolo i suoi dipendenti. Agli inizi ci furono parecchi problemi, in un settore di mercato dominato dagli uomini. «È stata dura, sì. I negozianti cercavano di imbrogliarci. Pensavano che io fossi semplicemente una donna ricca, a cui il marito permetteva di fare queste cose per tenersi occupata. Ho dovuto dimostrare loro che non potevano mettermi nel sacco, che sapevo benissimo quel che stavo facendo». Il suo giro d’affari aumentò, e Sudaveh colse l’occasione. Acquistò dell’equipaggiamento, assunse dei lavoratori e si mise a produrre abiti in proprio. All’epoca, era rarissimo che si permettesse ad una donna di dirigere una fabbrica, e immediatamente ciò destò i sospetti della “polizia morale”, che prese a fare capolino.
Le restrizioni imposte dalla Repubblica Islamica sui vestiti e sul comportamento sociale non erano nulla di nuovo per Zarir, nel cui quartiere praticamente tutte le donne erano avvolte in chador neri che lasciavano fuori solo il viso e le mani, e i genitori arrangiavano matrimoni tra bambini. Zarir veniva da una famiglia strettamente religiosa, e persino durante il governo dello scià Mohammed Reza Pahlavi aveva frequentato una scuola islamica. A sedici anni, fu data in moglie. Suo marito era violento, e divorziò unilateralmente da lei e ottenne la custodia dei figli. Il divorzio divenne un marchio di vergogna per Zarir e la sua famiglia. Per rendere peggiore la situazione, l’ex marito le proibì di accostarsi ai propri figli, un maschio e una femmina. Non avendo più mezzi per mantenersi, la giovane donna persuase un padre conservatore a permetterle di cercare un lavoro. Allora incontrò Sudaveh, nella seconda metà degli anni ’80. «Quando arrivai qui stavo davvero male», dice Zarir, oggi quarantenne e manager del laboratorio. È l’esatto opposto, dal punto di vista fisico, della sottile Sudaveh: braccia muscolose, guance rotonde e una voce tonante che sovrasta i rumori della fabbrica. Suo padre, pur riluttante, ebbe una buona impressione di Sudaveh e permise a Zarir di lavorare purché restasse al piano superiore, e non scendesse al piano terra dove lavoravano gli uomini.
Sudaveh non ci mise molto a scoprire i talenti nascosti della sua operaia: «Lei capiva benissimo questi tipi religiosi, la polizia. Quando arrivavano qui io ero terrorizzata e lei si faceva avanti e rispondeva al posto mio». Sudaveh aveva perduto la sua socia in affari, Haleh, dopo un’ispezione della “polizia morale”. Arrivarono all’improvviso, e trovarono nel cassetto di una scrivania un catalogo con foto di donne in bikini. Haleh finì in galera, fra tossicodipendenti e rapinatori. Lasciò l’Iran subito dopo.
«Devi risponder loro velocemente», spiega Zarir. «Se ti chiedono: perché sei truccata? Tu dici: mi trucco per le donne, non per gli uomini. Se dicono: Le tue calze sono troppo sottili, tu rispondi: Ma il mio hijab è lungo». La polizia l’ha presa da parte più volte per farle domande sulla sua datrice di lavoro, soprattutto per sapere come tratta i suoi dipendenti. «Non ha mai maltrattato nessuno, ho risposto, ma talvolta è spinosa: ad esempio, non sopporta nessun rumore quando prega». Sudaveh, le cui preferenze in merito al proprio abbigliamento vanno a jeans attillati e sandali aperti, ha trovato l’aiuto di Zarir indispensabile. «Non sapevo neppure come indossare l’hijab. Nella mia famiglia non ce n’era alcuno. Nemmeno le mie nonne lo portavano».
Dopo aver saputo della storia difficile di Zarir, Sudaveh poté ricambiare con alcuni consigli sofisticati: perché non si faceva amica, con discrezione, della nuova moglie del suo ex marito, e non si offriva di prendersi cura dei bambini ogni tanto? Funzionò. Presto Zarir e la seconda moglie cospirarono insieme e Zarir poté passare con i suoi figli il tempo che il loro padre e i tribunali islamici le avevano negato. Quando la seconda moglie si ammalò gravemente, affidò i figli di entrambe a Zarir per il tempo in cui il marito era al lavoro. «È stata una grande lezione, per me», racconta Zarir. «Ho imparato ad ottenere ciò di cui avevo bisogno». La giovane fu molto impressionata dalle abilità sociali della datrice di lavoro. Sebbene venisse derisa, assieme a quanti i conservatori religiosi definivano “lacchè dell’Occidente”, Zarir trovava il suo tipo di relazioni attraente: «Non ho mai visto un uomo della sua famiglia trattare una donna al modo in cui mio marito trattava me».
Sudaveh ingaggiò altre donne, che divennero dodici su quaranta dipendenti. Ma era frustrata dal fatto che non volessero interagire con i colleghi di sesso maschile. Si rifiutavano persino di alzare gli occhi su di loro e si ritraevano per far spazio se gli uomini passavano troppo vicini. Se una donna voleva rifinire il proprio lavoro d’ago su una camicia che un uomo stava mettendo insieme, era Sudaveh ad andare a chiederlo per lei. «Non andava troppo bene, neppure a livello di efficienza», spiega Sudaveh. «Un gruppo deve fare gruppo». Un giorno, qualche anno fa, Sudaveh riunì tutte le donne che lavoravano al piano superiore della fabbrica: «Dissi loro: Voglio che andiate di sotto. Non abbasserete la testa. La terrete alta e guarderete gli uomini negli occhi». E le guidò personalmente giù dalle scale. Lo fece anche il giorno successivo, e quello dopo ancora. Nel giro di qualche mese, l’atmosfera diventò rilassata ed informale. Uomini e donne si chiamavano per nome e lavoravano fianco a fianco. Gli uomini cominciarono a comportarsi molto educatamente, a non usare scurrilità nel linguaggio e a tenere pulito il proprio ambiente di lavoro. Uno di essi portò nel laboratorio dei parrocchetti, che oggi sembrano cinguettare a ritmo con la musica pop iraniana che suona di sottofondo. «Adesso la cosa è normale, non ci fanno più caso», dice Sudaveh incrociando le gambe e sorridendo soddisfatta. «Nessuno, né uomo né donna, si è licenziato».
Mentre gli anni passavano, la società iraniana continuò a cambiare. La gente si mosse dai villaggi e dalle fattorie verso grandi città come Teheran, Tabriz e Mashhad, e si ammassò in piccoli appartamenti. Le coppie avevano meno figli, due o tre invece dei sei o sette che erano comuni all’inizio della rivoluzione, secondo i dati delle NU. I genitori presero a viziare un po’ i loro figli, e produrre buoni e begli abiti per loro divenne un affare conveniente.
Sette anni fa, Sudaveh aprì il proprio negozio, con il proprio marchio. «Molti dei proprietari dei punti vendita non sanno nulla di ciò che vendono, o di vestiti», dice. Ma lei lo sa bene, così presto i negozi divennero due. Sua figlia Ghazaleh terminò gli studi universitari e cominciò a lavorare per sua madre: assunse un programmatore di software per creare un sistema d’inventario computerizzato, mettere codici a barre su ogni pezzo e dare alla compagnia maggiori capacità produttive. La cosa che il marito di Sudaveh vedeva un tempo come un gioco, si è espansa sino ad avere dodici magazzini sul territorio nazionale, e genera milioni di dollari di entrate. Sudaveh ha comperato un condominio a Toronto. Zarir ha mandato la figlia all’università.
La “polizia morale” continua a venire, ma ora sono più una seccatura che una minaccia. Chiudono i negozi, ma temporaneamente, se la commessa non è secondo loro abbastanza “islamica” nell’abbigliamento. Di recente, il padre di Zarir si è ammalato ed ha dovuto essere ricoverato in ospedale. Lei è andata a fargli visita, ed era seduta sul bordo del suo letto, quando un collega del padre è entrato nella stanza. Il malato è stato felice di presentare Zarir all’altro uomo: «Questa è mia figlia, quella che lavora», ha detto con orgoglio.
Borzou Daragahi
(per il Los Angeles Times, 08/12/2007 - trad. Maria G. Di Rienzo)