Sfogliando Sopravvivenze con la necessaria attenzione, si scoprono subito le preferenze dell’autore. Ad esempio, il numero maggiore di immagini, ben tredici, riguardano la donna in montagna e altre tredici sono dedicate al lavoro. Si rincorrono, poi, una serie di capitoli, che mi permetto di elencare seguendo il numero di fotografie che contengono: gli anziani e gli ambienti, l’infanzia, i giovani, l’alpeggio, le cose, le tradizioni religiose. Ma, in questi, la differenza di attenzione non è poi così marcata, se si va dalle nove foto del primo alle cinque dell’ultimo. Protagonista rimane sempre l’uomo. Sono soltanto quattordici le immagini dove non compare.
Sopravvivenze è paragonabile a un’eccezionale istantanea del mondo valtellinese. Un microcosmo ricco di una vita che affonda le proprie radici nella notte dei tempi, segnata da tradizioni che troviamo dappertutto, con poche variazioni, nella cultura contadina della zona alpina. Immagini che non richiedono particolari spiegazioni. Sono d’accordo con quanto scrive Giulio Spini nella presentazione: «Ogni foto ha già in sé la propria didascalia». Cogliendo l’occasione, scelgo le due fotografie che più mi hanno colpito. La prima (la numero 3 della sezione “Lavoro”) presenta un uomo che, visto di spalle, sale lento con il rastrello in mano lungo una via segnata dalla grìscia, mentre la sua lunga ombra e quella del suo campàc’ (una grande gerla), stracarico di foglie secche, si stagliano imponenti nella metà inferiore della fotografia. Come non pensare al nònu Marc o al pà Èture, a questo gesto che loro stessi hanno compiuto – non meno carichi – migliaia di volte nella loro vita. E nello stesso momento come non rievocare l’importanza che davamo, in un tempo non lontano, a tutto quello che la natura offriva. Anche le foglie secche, utili in particolare nelle stalle. Oggi, è sufficiente fare una breve passeggiata per scoprire non soltanto che le foglie secche restano per la maggior parte in abbandono, ma che anche l’erba di molti prati non viene più segata, e perfino le castagne restano talvolta del tutto trascurate dai nipoti di coloro che avrebbero considerato questo abbandono un sacrilegio. La seconda fotografia – e continuerei a presentarne se non temessi di annoiare i miei pazienti lettori (mi si perdoni questa spudorata captatio benevolentiae) – è la numero 1 della sezione “La donna in montagna”. Raffigura un’anziana contadina, anche lei con un campàc’ colmo di foglie secche, che cerca di sorridere davanti alla macchina fotografica. Una figura statuaria, con semplici abiti quotidiani da lavoro, i capelli raccolti senza pretese, un volto abituato alla fatica tanto che riesce perfino a sorriderne. Emerge comunque una certa femminilità, con quell’orecchino in gran risalto. Non vorrei sbagliarmi, ma credo proprio che questa donna sia la stessa fotografata due pagine dopo. E lo deduco anche dagli orecchini, unico vezzo femminile in un mondo dove il lavoro sembra essere la sola costante inevitabile. Anche qui, l’ammirazione per la bravura del fotografo si accompagna ai ricordi evocati da quest’immagine. La nòna Agnées, la zia Ròsa, la zia Giàna, tutte le contadine che ogni giorno percorrevano le vie del paese. Era difficile vederle senza carichi da portare. Ma la narrazione di un’immagine può servire al più a suscitare curiosità nel lettore. Le fotografie di Sopravvivenze vanno centellinate con dosata lentezza. Solo così questo piccolo mondo antico riesce a prender nuova vita.
Ma questo è anche un libro da leggere. Gianpiero Mazzoni ha voluto accogliere nella sua raccolta dieci interventi di Giulio Spini, uno tra i pochi grandi intellettuali valtellinesi del XX secolo. Nato nel 1921, originario della Val Tartano, Giulio Spini è stato un uomo politico e un uomo di scuola. Profondo studioso della cultura locale, ha lasciato numerosi articoli e saggi, scritti sempre in uno stile esemplare per chiarezza ed eleganza, oltre ad alcuni libri importanti (basti citare, per ora, il terzo volume della Storia della Valtellina e della Valchiavenna – quello che spazia dal periodo napoleonico alla creazione del Regno d’Italia nel 1861 –, pubblicato nel 1973 da Bissoni a Sondrio. I primi due erano di Ettore Mazzali). Già nella presentazione lo Spini si pone e formula anche a noi la domanda fondamentale: «Ha un domani la vita collettiva in montagna o essa dispone solo di un presente, che resiste giorno per giorno, fin che può, immerso nei ricordi?».
Bastano anche soltanto alcune citazioni dall’introduzione alla sezione “Gli anziani” per scoprire che Giulio Spini è un profondo maestro di pensiero, e che la sua scrittura cristallina riesce a far comprendere in pochi tratti quello che, talvolta, viene diluito in centinaia di pagine sovente indigeste e ricche di fumo nei saggi di sociologi e antropologi. «La montagna offre l’ambiente fisico e umano in cui negli anni della “terza età” le persone possono sentirsi ancora radicate con tutta la loro dignità, il loro passato e il loro presente. La lavorazione della terra vi dispone di compiti e mansioni che si adattano bene al graduale declino delle forze. Nessuno è costretto a cadere bruscamente nell’ozio. La vita degli anziani continua, quindi, a scorrere in comunanza di tempo, di lavoro, di interessi con i più giovani, con i ragazzi, con i bambini. Essi, gli anziani, sono la memoria vivente della montagna, in un’epoca di facili dimenticanze. Alle volte vien da chiedersi se non ne siano anche gli ultimi custodi. Certo, là dove il diradamento della gente ha lasciato troppi vuoti, i disagi e la solitudine possono fare la loro triste compagnia». Lo Spini lo ripete spesso, quasi il ritornello di un’antica ballata medioevale: “Fino a quando?”. Fino a quando resterà questo mondo fatto di cose semplici e di vita dura?
Dopo più di vent’anni, noi possiamo abbozzare una risposta. E, osservando gli attimi di vita fissati per sempre dalle stupende fotografie di Gianpiero Mazzoni, non ci servono inchieste o sondaggi. Quel mondo è proprio scomparso. Le rane che gracidavano numerose nei fossi (e potevano diventare cibo delizioso per il palato di chi amava il pancotto), “quegli” odori del fieno e della stalla, il caldo sapore del latte appena munto, l’intercalare dei vecchi del paese (deligràzi), i semplici giochi che riempivano le giornate, i sentieri conosciuti palmo a palmo (che oggi, con tristezza, scopriamo cancellati).
Certo, restano i ricordi. I ricordi sono l’unico paradiso dal quale nessuno può allontanarci, come diceva Jean Paul, uno scrittore tedesco vissuto più di duecento anni fa. Ma, ricordare, rievocare il passato, ha ancora un senso? La risposta non può essere che un sì, netto. L’alternativa è quella di una comunità senza memoria, di un paese che non custodisce con amore e rispetto le sue tradizioni. In questo caso questo paese è destinato a morire. Ecco perché resta fondamentale ricordare. Se non si conosce il proprio passato, si rischia di non riuscire a capire bene il proprio presente. E tocca a noi – quelli della generazione del grande cambiamento – insegnare, lasciare dei segni per i nostri ragazzi, per i nostri giovani affinché negli anni futuri non perdano il ricordo della vita del loro paese, la vita di coloro che li hanno preceduti: gli antenati, i bisnonni, i nonni. Solo in questo modo potranno accorgersi, diventando adulti, diventando maturi, piano piano – la vita non offre mai scorciatoie – di far parte di una comunità e di custodire anche loro tanti ricordi e tante memorie. Che sono quei segni che rendono unico, e insostituibile, il luogo dove viviamo. Le tradizioni, ricordate, studiate e ripresentate, restano le radici vitali di ogni paese. Nessuno le può confondere con quegli spettacolini grotteschi dove si ammirano improbabili dame e cavalieri dei secoli andati oppure dove compaiono dei guerrieri celti che ostentano in modo penoso costumi e armi “d’epoca”. I buoni libri servono anche ad affogare nel ridicolo le baggianate.
Per concludere, il libro fotografico di Gianpiero Mazzoni, Sopravvivenze, incorniciato dai testi fondamentali – soffusi, qua e là, da una leggera malinconia – di Giulio Spini, rappresenta una testimonianza importante, che va ben al di là dei luoghi descritti. Rientra, quindi, senza ombra di dubbio, tra i quindici testi da collocare sullo scaffale della nostra biblioteca personale, là dove abbiamo riservato uno spazio – importante – alle opere che riguardano la cultura di casa nostra.
Renzo Fallati
(9 – segue)