LA COMUNIDAD
Quarto piano
Dal quarto piano non arrivavano mai rumori. Da nessuna parte arrivavano rumori. Sembrava quasi di vivere in un casale abbandonato. Del resto la spiegazione era semplice. Il lavoro.
Ero l’unica persona a rimanere nel condominio durante il giorno. Lavoravo da sotto il mio letto a soppalco e meno uscivo meglio stavo.
Qualche volta, la sera tardi, capitava di sentire aprire e chiudere la finestra del balcone su al quarto piano ma nulla di più.
Una mattina presto scesi a prendermi un caffè al bar. Ero troppo assonnata per preparare la caffettiera di casa e poi era un vizio, un piccolo vizio che ogni tanto mi concedevo.
Non appena aperta la porticina a vetri che separa dalla strada “ciao” e un sorriso smagliante.
Alle sei e mezza del mattino non è mai facile trovare chi ha voglia di un sorriso, tantomeno d’inverno con il freddo che gela i pensieri.
— Ma chi?… chi è? Chi è? — cercando velocemente nel database della mia memoria.
— Il vicino… ci siamo incontrati durante il trasloco… sono quello del quarto piano.
Quello del quarto piano.
Un attimo ed ecco immagini. Le scale, gli scatoloni, io che salgo carica come un mulo trascinando su per tre infiniti piani a piedi una vecchia cucina, respirando a fondo, mi chiedo perché ho fumato quella maledetta sigaretta cinque minuti prima.
Lui -quello del quarto- che sale con passo leggero da lince, con un bel respiro profondo, tre gradini per volta e “buongiorno, i nuovi inquilini immagino… buon trasloco”. Mugugno qualcosa di incomprensibile a me stessa mentre sudo come nell’estate di qualche anno prima quando il caldo impediva allo sguardo di spingersi oltre il ventilatore.
Ecco.
Sorrido.
Sembra simpatico, uno a posto.
Sembra.
Lui entra.
Io esco.
Sorseggio il mio caffè da bar. Ma sì, ne metto su uno quando torno così invito il vicino.
Può sempre servire un uovo, un po’ di latte e poi è bello conoscersi, so-cia-liz-za-re.
E piena di buone intenzioni condominiali me ne torno a casa.
Invito deciso. Un caffè e via, una nuova faccia da salutare la mattina.
Schiaccio a vuoto il campanello. Non funziona.
Dalla casa silenzio, solo la percezione di un respiro e voilà la porta si apre.
Occhialetti verdi sul naso, sorriso e un altro ciao come una pietra.
Il cuore intanto pulsa nel petto.
Era dietro la porta che aspettava. Origliava?
Lo invito per il caffè “grazie però non bevo caffè, sai mi rende nervoso”. Ci accordiamo per una tisana.
Il tempo di chiudere la porta del balcone “non vorrei che la gatta scappasse” e scendiamo insieme.
Sorseggia la sua tisana ancora bollente e mi racconta di quelli del secondo piano, del primo, del pianoterra.
Sa tutto di tutti.
La disposizione delle stanze nei vari appartamenti, il vicino che ha lasciato la moglie che lo tradiva con quello delle pompe funebri, la durata in minuti dei rapporti sessuali di quello del terzo, gli orari di lavoro della ragazza del primo. Tutto.
Il cuore spinge ancora più forte nella cassa toracica e lo sento rimbombare nelle orecchie.
Racconta di quando, prima di me e mio marito, abitava nella casa una madre con il figlio piccolo.
Malato.
Il bambino non usciva mai di casa, aveva una sorta di cancro facciale e il viso deforme coperto da una fasciatura che gli lasciava liberi soltanto gli occhi.
Macabra la dovizia di particolari.
Mi guarda fisso senza permettermi di distrarre la vista, inchiodandomi alla sedia con i suoi racconti.
Forse vuole spaventarmi e forse c’è riuscito.
Rimane più di un’ora e poi va via.
Il cuore si calma e inizio a pensare che il proprietario del condominio voglia fare una ricerca sui vari tipi di umanità unendone di disparati nello stesso luogo.
Una comunità di pazzi secondo le teorie di quello del quarto piano.
Poi mi dico di non esagerare, in fondo è stato gentile. Abbiamo anche riso. Sono solo racconti. Autosuggestioni che nascono e si cullano in questo eccessivo silenzio.
Ripeto l’esperimento. Questa volta in compagnia di mio marito. È in una fase di acuta filantropia e i miei racconti l’hanno incuriosito.
Lo invitiamo a cena.
Questo personaggio -più che persona- stuzzica in qualche modo la mia malata curiosità.
Tacchino arrosto per cena.
Mangia con voracità tutto quello che gli servo nel piatto, parlando e ridendo con un aspetto del tutto diverso rispetto a quello del caffè di qualche giorno prima.
Fatico quasi a riconoscerlo e intercetto sguardi interrogativi di mio marito che probabilmente si chiede dove stia tutta la stranezza di cui gli avevo parlato.
È simpatico, gioviale, e racconta altre storie sui vicini in modo disinvolto e accattivante.
Ci parla del vecchio signore al pianoterra, un uomo burbero e taciturno che costruisce tamburi.
Non ho mai sentito rumori nemmeno da lì. Solo visto imposte chiuse. Pensavo che l’appartamento del piano terra fosse disabitato.
La cena finisce. Due ore e va via.
Chiudiamo la porta e non sento nemmeno i suoi passi mentre sale.
Sembra che le scale risucchino i rumori e nei pianerottoli si sente solo la voce del silenzio.
Una settimana.
Poi suonano alla porta.
Esco di fretta da sotto la doccia con l’accappatoio grondante d’acqua. Apro ma non c’è nessuno. Solo un foglio sullo zerbino.
E un teschio disegnato.
Questa volta sì sento un rumore. È la sua porta, quella del quarto piano. Si chiude di colpo.
“È la comunidad Dottore, funziona proprio così. Ci mettono insieme, ci seguono, ci spiano, ci mettono alla prova, controllano come interagiamo tra di noi. Come mangiamo, cosa mangiamo. Come reagiamo all’isolamento e al contatto.
Dottore mi creda, queste sono le tacite regole della comunidad. E il silenzio quello ce lo insegnano. E la paura quella la provocano. Chieda a mio marito Dottore, la prego”.
Cerco mio marito con lo sguardo in quella stanza asettica e fredda con le grate alle finestre.
Lo trovo.
Ha uno sguardo preoccupato, mi dice di stare calma, di non agitarmi, che la comunidad non esiste. Esiste la follia.
Quella del barista. Che quella mattina, prima di suicidarsi causa licenziamento, aveva sfogato la sua rabbia. Mettendo allucinogeni nei caffè dei suoi clienti. Ex clienti.
Sara Cavarero