Con non altri che te
è il colloquio.
(Vittorio Sereni)
La stazione si indora di luce, è un'ottomana di mattone rosso e ferro battuto. Il vecchio di ottant’anni, capo-magazzino fino all’84, rimane sotto la pensilina per vedere la figlia correr via con il treno locale che lì non ferma. Fisso il vuoto nel suo volto. Mi parla di un ritardo accumulato mentre strofina le mani sul dorso, per poi ruotarle in piccoli cerchi nelle tasche del cappotto. Quando il treno passa, lui è già sparito: forse già oltre l’ultimo cancello, forse ancora vicino ma assorbito dal chiaroscuro della sala d’aspetto… Ha deciso così la ritirata… in ultima istanza.
Lavora sui cartoni da prima dell’alba, incapace di slacciarsi dall’impaccio come avesse per le mani una mezzaluna. Si barrica nel trucco degli occhi ma a tratti ricerca il nostro sguardo. È in un momento di pausa, in un’ansa che il lavoro concede, l’attimo in cui si fa vicina mostrandosi così giovane e tra il riso e l’amaro confessa più a lei che a noi: “Non ne posso più, voglio andarmene. Stasera al cinema danno un film da sogno…migliore di quello che qui vogliono dipingere”, e ritorna risucchiata dal mulinello, nella paziente opera dell’assemblaggio. “È questo il cinema, qui vale il biglietto e lo spettacolo è di otto ore”, lo dico a voce ferma, incurante che forse altri ascoltino, vergognandomi subito dell’affronto; e non ho ragioni per dirlo, né autorità; solamente il corto passo dell’ingranaggio che mi trita.
Mentre qui, nella rimessa dei muletti, siamo in tre a far crocchio sul finire del turno, a spendere parole impietose ma vere sulla condizione di chi come noi in fabbrica lavora, avvolti nella nebbia di una comune stanchezza e nell’acido delle batterie, di là dallo stradone si accendono ancora le luci nelle cucine, cadono i cachi nell’orto, il piazzale del cantiere s’ingombra di neve. Si spazia, così: e mi auguro esista ancora una remota via Scarlatti con qualcuno che là aspetta. Ma forse dappertutto deve esserci dialogo: sulla soglia di una cucina che butta vapori di verdure, come qua nel gelo di cavi e tiranti del piccolo hangar… Dappertutto: conta solamente che l’occhio sia vero e lo sguardo s’incroci, come ora, in un reticolo di speranza.
Francesco Osti
L’officina di reti battute a mano e tagliate col flessibile del bisnonno, rimasto nell’aria. Le reti che il nonno batte ancora stretto nei muri neri, tra il respiro della vernice fresca, e le scritte del '50 sui muri che non si leggono più e quasi leggono lui. Gli leggono la testa calva, i calli, il dialetto intatto con le battute e il riso subito dopo; sempre quelli. Il figlio e il nipote non ricalcano più la sua precisione, come se ogni generazione avesse perso un tassello, movimenti nei movimenti della storia collettiva.
Non c’è nulla di colorato nell’officina che tradisca le tonalità tra il bianco e il nero. Solo lo scaffale degli attrezzi appesi che hanno consistenze più recenti e un calendario cinese. Le macchine dal '54 stanno ferme, alcune come se dormissero, altre come se riposassero per l’eternità. Le saldatrici hanno lasciato croste indelebili sui cavalletti storpiando le forme nel corso degli anni.
L’officina diventava un’astronave quando da piccoli i grandi uscivano a consegnare le reti e i materassi. Nessuno l’ha mai saputo che noi piccoli accendevamo un poco le macchine e gli davamo i comandi, come chi le guidava nei cartoni animati.
La polvere si siede sul pavimento, non se n’è mai andata, stratificata copre anche i nostri dialoghi con il nonno che parla con gli occhi quasi lucidi. La polvere nera che accumula peso li ha presi e li tiene con sé, insieme agli altri a ritroso fino alle prime grida degli operai.
Una madonna appesa color rame è l’ultimo occhio silenzioso che veglia sulla deriva di un lavoro divenuto fragile.
Massimo Bevilacqua
(da 'l Gazetin, gennaio 2006)