Chiunque può leggere tramite internet le ridicolaggini sul Tibet e sul Dalai Lama scritte ieri (martedì 4 dicembre, per chi legge qui, ndr) da Francesco Sisci per il quotidiano La Stampa. Non è la prima volta che il corrispondente si distingue per il contenuto apertamente mistificatorio dei suoi articoli ma stavolta è arrivato a superare, oltre ad un limite di decenza, anche se stesso.
Ricordo che una ventina di anni fa inorridii dinanzi all’atteggiamento sprezzante con cui un giornalista come Ilario Fiore, per lungo tempo uomo della Rai a Pechino, liquidò la questione tibetana (che, come si sa, è direttamente collegata alla questione dell’assenza di democrazia, di diritto e di diritti in Cina). Confesso di non avere mai nutrito particolare ammirazione nei confronti di un uomo i cui servizi sembravano più che altro resoconti stesi per assicurarsi privilegi e considerazione in terra straniera. Non vi trovavo nulla, ad esempio, della sensibilità, della lucidità, della cultura di un grande testimone come Fosco Maraini. La mia sensazione fu avvalorata da una frase che mi giunse come estremamente rivelatrice di un certo modo di distorcere, ad usum delphini, i fatti, spargendo cioè intenzionalmente confusione e menzogna.
Dunque, ad una mia osservazione sulla gravità della situazione in Tibet e sul dramma che dal 1950 sta scontando una popolazione vittima del genocidio perpetrato dagli invasori cinesi mi fu risposto che in fondo si trattava, né più né meno, di rivendicazioni simili a quelle dei secessionisti sudtirolesi in Italia. Me ne andai disgustato dalla sala e anche, nonostante la meditazione che allora avevo cominciato a praticare, pieno di rabbia. Mi faceva ribollire il sangue pensare che un giornalista assurto a notorietà,come quello da me appena interpellato, potesse giungere a tanto cinismo, ignorando consapevolmente e colpevolmente, l’uccisione di un milione e duecentomila tibetani, sterilizzazioni forzate, torture e patimenti indescrivibili, fughe rocambolesche, purtroppo spesso dall’epilogo tragico, di intere famiglie tra tormente di neve e ghiacciai himalayani.
Io stesso già in quegli anni avevo avuto modo di ascoltare narrazioni terribili, rabbrividenti, visitando insediamenti di fuoriusciti in Nepal e avevo bene impressi nella memoria quei visi dai tratti marcati, decisi, rigati dalle lacrime, dimenticati da tutti per vigliaccheria e vomitevole opportunismo.
E adesso arriva il Sig. Sisci a dirci che..., voglio citarlo testualmente: «al di là dei problemi italiani forse il Dalai, re-dio del Tibet, e capo del buddismo lamaista, potrebbe avere qualcosa da imparare dall’Italia, L’Italia infatti è l’unico Paese che ha affrontato un problema simile a quello della Cina con il Dalai (fa tanto schifo aggiungere Lama?, nda): di occupazione di un territorio prima governato da un sovrano religioso. Nel caso nostro era il Papa, nel caso della Cina era il Dalai appunto. Tra le due esperienze ci sono moltissime differenze, l’Italia e il Vaticano condividevano la stessa capitale, Roma. La Cina ha invece per capitale Pechino e il Tibet si ferma a Lhasa. L’Italia ha una popolazione in maggioranza cattolica, fedele quindi nell’anima al Papa, in Cina solo una minoranza minuscola sono buddisti lambisti. Ciò detto, non c’è esperienza nel mondo così simile tra quella italiana e cinese, di dialettica e unità tra stato e chiesa».
No, non si tratta di allucinazione. Vi giuro, nell’articolo è scritto questo. E vado avanti: «I tibetani in esilio sottolineano che quella del Tibet fu una invasione, ma in ciò non fu diversa dalla occupazione italiana di Roma, presa con le cannonate di Porta Pia nel 1870, né si distinse molto dalle cariche di cavalleria dell’esercito americano contro i pelle rossa, all’incirca negli stessi anni. I tempi erano diversi episodi, ma forse nemmeno troppo».
Ma vi rendete conto? Ma certi giornalisti, prima di diventare corrispondenti, studiano o no un minimo, dico proprio un briciolo, di storia? Ma come caspita si fa ad equiparare i bersaglieri del generale Raffaele Cadorna ai contingenti inviati dal governo comunista di Pechino in flagrante violazione del diritto internazionale? Forse i bersaglieri hanno occupato, mutilato, vessato, distrutto un paese che era autonomo? Forse è stato distrutto, in seguito a Porta Pia, l’equivalente dei 6.400 monasteri rasi al suolo in Tibet dalle guardie rosse negli anni della cosiddetta “rivoluzione culturale” di Mao? Forse i bersaglieri hanno disperso, annientato, ridotto a cumuli di macerie e legna da ardere un patrimonio millenario, inestimabile per l’umanità dal punto di vista artistico, culturale, religioso? Stiamo delirando? Vergogna!
E volete sapere, poi, perché secondo Sisci la Cina non dovrebbe neanche ipotizzare l’autonomia tibetana? Perché, ascoltate bene, «un ritiro della Cina del Tibet sarebbe una concessione di fatto» all’India e al Pakistan, «potenti vicini» e in tal modo si destabilizzerebbero «gli equilibri della regione e del mondo avvicinando gli orizzonti di una guerra dove milioni potrebbero perdere la vita».
Di conseguenza, se ne deduce che i tibetani possono pure patire tutta la barbarie possibile e immaginabile, urlare, morire, sparire, come sta avvenendo nella propria terra dove sono già ridotti ad appena sei milioni rispetto ad otto milioni di cinesi. A noi, secondo questo tipo di mentalità, tutto ciò non dovrebbe interessare. Tutto dovrebbe restare così, per nostra convenienza.
Non avremmo mai voluto leggere simili articoli che squalificano chi li scrive e la testata che li ospita. Pensando non solo ai tibetani ma a tutti coloro che lottano per la democrazia e la libertà anche all’interno degli stessi confini cinesi non possiamo che provare sconforto e indignazione.
Un’ultima annotazione. Tanto per diradare un po’ la cortina di menzogne, vale la pena ricordare a chi non lo sa, o vuole ignorarlo, che il Dalai Lama non si ritiene affatto un re-dio e non ambisce ad essere monarca assoluto. Premio Nobel per la pace nel 1989, non perde occasione per ribadire che è un umile monaco buddhista e che, con convinzione, segue il percorso tracciato da un certo Gandhi, una via certamente difficile da attuare ma che occorre seguire se non vogliamo sprofondare nell’abisso. Una via che si chiama amore, nonviolenza, satyagraha, forza della verità.
Forse Gandhi, politico e religioso insieme, avrebbe dovuto desistere dal rivendicare la liberazione dell’India dal giogo colonialista inglese perché altrimenti si sarebbero “destabilizzati gli equilibri della regione e del mondo”?
Sig. Sisci, la prego, cambi mestiere.
Francesco Pullia
(da Notizie radicali, 5 dicembre 2007)