In Arabia Saudita è diventata nota semplicemente come “la ragazza di Qatif”, una teenager che è stata vittima di uno stupro di gruppo, poi umiliata dalla polizia e dalle autorità giudiziarie. Il suo caso è finito nei titoli dei media internazionali ed ha causato un vivo imbarazzo al governo. Per il Ministro della Giustizia saudita, la giovane è un'adultera la cui vicenda viene usata per criticare il regno. Per molto del resto del mondo, è il simbolo di tutto quello che non va in Arabia Saudita.
Oggi la ragazza vive agli effettivi arresti domiciliari. Le è proibito parlare e può essere portata in galera in qualsiasi momento. I movimenti dei suoi familiari sono tenuti d'occhio dalla polizia religiosa ed i loro telefoni sono sotto controllo. Il suo avvocato Abd al-Rahman al-Lahem, attivista per i diritti umani di lunga data, è stato sospeso dall'incarico. Il suo passaporto è stato confiscato e deve essere interrogato la prossima settimana: l'esito dell'interrogatorio potrebbe essere la sua sollevazione dall'incarico. Il crimine della “ragazza di Qatif”, pare, è l'essersi rifiutata di stare zitta su quanto le era accaduto. La diciannovenne ha dapprima cercato di ottenere giustizia contro i sette uomini che l'hanno stuprata, poi si è lamentata pubblicamente della sentenza che la condannava a 90 frustate per “promiscuità”, e cioè il crimine dell'essere in uno spazio pubblico con un maschio che non era suo parente, prima dell'aggressione. La copertura giornalistica data alla vicenda questo mese, sui media sauditi usualmente soggetti a stretta censura, ha infuriato le autorità. La condanna è stata aumentata a 200 frustate e sei mesi di prigione. Questa sentenza pende ancora sulla giovane.
Il suo destino è diventato un'istanza politica, e il principe Saud al-Faisal è stato costretto, sebbene molto seccato, a rispondere a domande sul caso durante i colloqui di pace ad Annapolis, questa settimana. «Ciò che è oltraggioso in questa faccenda è che essa viene usata contro il governo ed il popolo saudita», ha dichiarato alla stampa.
Il Ministro della Giustizia saudita ha lanciato una deliberata “campagna di diffamazione” contro la ragazza, ribatte Farida Deif, una delle esperte per il Medio Oriente di Human Rights Watch. Farida Deif è fra i pochi osservatori indipendenti che abbiano potuto incontrare la giovane. «Stanno dicendo che non è veramente una vittima», dice Deif. «Implicano che sia un'adultera. Sostengono che non era vestita prima che gli aggressori entrassero nella sua auto. The Independent ha ottenuto la testimonianza in cui la ragazza descrive l'assalto, la sua lotta per indurre la polizia ad agire, e le penose sessioni in tribunale che ne sono seguite.
Il suo travaglio cominciò con una chiamata telefonica. «Avevo un'amicizia via telefono», ha raccontato a Human Rights Watch. «Avevamo entrambi 16 anni quando iniziò. Non ci siamo mai incontrati, conoscevo solo la sua voce. Ad un certo punto ha cominciato a minacciarmi, ed io ad avere paura. Disse che avrebbe informato la mia famiglia della nostra relazione telefonica se non gli davo una mia fotografia, ed io gliela feci avere». Dopo qualche mese dal suo matrimonio con un altro uomo, quest'anno, la giovane donna cominciò a preoccuparsi che quella fotografia venisse usata contro di lei, e chiese al ragazzo di rendergliela. Egli si disse d'accordo a condizione che i due si incontrassero e facessero un giro in auto insieme. Pur riluttante, la giovane accettò l'appuntamento ad un vicino mercato. Stavano tornando a casa in auto dopo il giro, quando una seconda macchina si mise di traverso davanti a loro. «Dissi all'individuo che era con me di non aprire la portiera, ma lui lo fece. Io urlavo». I due sono stati portati in un luogo sicuro dove sono stati entrambi stuprati, più volte. «Mi trascinarono fuori dall'auto», racconta la ragazza. «Mi colpivano forte. Io gridavo: "Dove volete portarmi? Potrei essere vostra sorella.” Il posto dove andammo era scuro. Si fecero avanti dapprima in due. Quello con il coltello mi violentò per primo. Ero distrutta. Volevo scappare ma non sapevo neppure dov'ero. Cercavo di spingerli fuori da me ma non ci riuscivo. Nel mio cuore non c'era più niente, dopo di ciò. Ho passato due ore ad implorarli di riportarmi a casa».
Poi fu la volta del secondo uomo, poi del terzo. «Erano molto violenti», ricorda la ragazza. I suoi aggressori le dissero che sapevano che era sposata. Poi fu stuprata da un quarto uomo, e da un quinto. «Il quinto mi fece delle foto con il cellulare, così com'ero. Tentai di coprirmi il volto ma non me lo permisero».
Nonostante la richiesta del pubblico ministero per la condanna massima relativa alla violenza carnale, la Corte di Qatif ha sentenziato per quattro degli aggressori da un anno ai cinque di prigione, e dalle 80 alle mille frustate, ma per rapimento, perché lo stupro non sarebbe “provato”. Le immagini sul telefono cellulare sono state prodotte in tribunale, ma i giudici le hanno ignorate. La tortura continuò dopo il quinto stupro. Altri due uomini, uno con il viso coperto, vennero a violarla. Poi tornarono tutti e sette per ricominciare daccapo. «Infine mi portarono a casa. Mi ci condussero con la loro automobile. Avevano preso il mio telefonino e dissero che se lo rivolevo dovevo chiamarli. Avevano visto la foto di mio marito nel mio portafoglio, mentre frugavano fra le mie cose. Quando sono uscita dalla macchina non riuscivo neppure a camminare. Ho suonato, e mi ha aperto mia madre. Ha detto: “Non stai bene, sembri stanca.” Pensava che fossi stata in giro con mio marito. Non ho mangiato per una settimana dopo le violenze. Solo acqua. Non dicevo niente a nessuno. Adesso non riesco a dormire senza sonniferi e ancora vedo le loro facce, nel sonno».
Secondo l'interpretazione saudita della sharia, alle donne non è permesso comparire in pubblico in compagnia di uomini che non siano loro parenti. Inoltre, le donne saudite sono spesso condannate alla frusta e persino a morte per adulterio e ad altri comportamenti percepiti come crimini. In aggiunta a questi già notevoli ostacoli che la vittima doveva affrontare, in un paese che ha il record più basso al mondo rispetto ai diritti delle donne, la ragazza è anche membro della minoranza sciita ed i suoi aggressori erano sunniti. Questa divisione settaria sarebbe stata cruciale per quanto accaduto dopo. «I criminali cominciarono a raccontare nel vicinato di come mi avevano stuprata. Pensavano che mio marito avrebbe divorziato da me. Volevano rovinare la mia reputazione. Io avevo voluto salvarla riottenendo la mia fotografia, ed era andata ancora peggio».
Irfan Al-Alawi, un accademico saudita esperto di persecuzioni religiose, dice che il retroscena settario è la chiave del crimine: «Qatif è il centro di una larga minoranza sciita nella provincia orientale dell'Arabia Saudita. La cosiddetta “polizia religiosa”, i mutawiyin, che sono brutali comunque, in questo caso hanno agito anche a sostegno della dominazione sunnita».
Contro le aspettative dei suoi assalitori, il marito della giovane non ha divorziato quando ha saputo cos'era accaduto. Ha cercato giustizia in tribunale. Il marito ricorda la frustrazione provata nel vedere gli aggressori di sua moglie andarsene in giro liberi: «Due di questi criminali passeggiavano nel quartiere proprio di fronte a me. Li vedevi ai funerali e ai matrimoni. La polizia avrebbe dovuto arrestarli, e rispettare noi due. A un certo punto ho chiamato la polizia e ho detto: “Trovatemi una soluzione. Questi delinquenti sono per strada. Cosa faccio se rapiscono mia moglie un'altra volta?” E il funzionario mi ha risposto di trovarli e interrogarli io stesso».
L'uomo ha telefonato alla polizia in quattro occasioni prima che qualsiasi azione fosse intrapresa. Ma quando il caso della ragazza è arrivato in tribunale la violenza contro di lei è continuata: «I giudici dicevano: Che relazione avevi con quest'individuo? Perché sei uscita di casa? Li conoscevi quegli uomini? E mi urlavano contro, mi insultavano. Si sono rifiutati di lasciar entrare mio marito nella stanza. Uno di loro mi ha detto che sono una bugiarda perché non ricordo bene le date. E continuavano: Perché sei uscita di casa? Alla seconda sessione mi hanno chiamata dalla sala d'aspetto. Sono entrata con mio marito. Ad alcuni hanno dato tre anni, ad altri cinque. Io pensavo che quella gente neppure dovrebbe vivere. Credevo che gli avrebbero dato vent'anni. Poi (nome del giudice omesso) ha detto: Tu ti prendi 90 frustate, e ringrazia Dio che non vai in galera. Ho chiesto perché, e lui ha risposto: Lo sai, il perché, è khilwa hair sharan: la promiscuità genera il male. Tutti mi guardavano come se la colpevole fossi io. Volevo morire».
E non è ancora finita. La ragazza di Qatif e suo marito hanno un futuro molto incerto. La giovane è stata assalita dal fratello che ha tentato di ucciderla. Il suo avvocato, Al-Lahem, crede che ora la ragazza potrebbe essere presa a bersaglio dagli estremisti sunniti. Lo scioccante trattamento che ha subito potrebbe essere riassunto nello scambio fra il marito e i giudici dopo la proclamazione della prima sentenza: «Sembrava che la criminale fosse lei. Quando i giudici hanno letto la sentenza ho chiesto loro: Ma non avete nessuna dignità?»
Daniel Howden
(per The Indipendent, 29/11/2007 - Trad. Maria G. Di Rienzo)