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Alessandra Borsetti Venier: Teatro, comunque. In un libro la storia dei “Chille de la balanza”
Morgana Edizioni, Euro 15,00
Morgana Edizioni, Euro 15,00 
23 Novembre 2007
 

Il teatro è un impegno civile. Come dimostra il progetto dei “Chille de la balanza” nel trasformare San Salvi, un luogo abbandonato all’oblio, in un vitale centro culturale per la città di Firenze e per i suoi abitanti. Le pratiche teatrali possono sollecitare nelle individualità collettive un processo creativo che avvalori la particolarità delle “differenze” contro una uniformità dell’agire per aprirsi a un autentico incontro rigenerato.

Con queste parole si presenta in copertina il libro di Costanza Lanzara Teatro, comunque. L’universo creativo dei Chille de la balanza da Napoli al “mondo” di San Salvi, Morgana Edizioni.

Non è facile definire di che “tipo” di libro si tratti: di teatro o della storia di una Compagnia? o di antropologia? Tento di dare una risposta con le parole del prof. Alberto Sobrero docente di Etno-antropologia dell’Università di Roma “La Sapienza” che ha scritto nella sua prefazione: «… i migliori studi antropologici sono difficili da collocare, specie quando lo scenario non sia quello dei mondi semplici della tradizione, ma, come in questo caso, quello di per sé complesso e inafferrabile delle aree urbane. Un primo consiglio per il lettore, esperto o meno che sia di cose antropologiche: non inizi la lettura del testo di Costanza Lanzara cercando di sistemarlo a priori in un qualche contenitore di antropologia. Non escludo che lo si possa leggere come un lavoro di antropologia urbana, o meglio, cosa rara in Italia, di etnografia urbana, o anche, e forse a maggior ragione, come un lavoro di antropologia del patrimonio o di antropologia delle istituzioni, o magari vi si possa vedere un esemplare studio di caso sul rapporto fra antropologia e teatro, o un ultimo capitolo della storia dell’istituzione manicomiale nel nostro paese. Nessuna di queste prospettive sarebbe sbagliata, ma forse ognuna sarebbe riduttiva. Meglio, come suggerisce l’autrice stessa, lasciarsi andare agli intrecci e alle suggestioni che la storia propone, mantenendo ferma la scena e lasciando che personaggi, fatti e sentimenti entrino ed escano a piacere: Teatro, manicomio, comunità, oblio, memoria… Tutto, tutto insieme. Una vertigine».

 

Certo, suscita molta curiosità la storia di una compagnia teatrale, per di più napoletana, quella dei “Chille de la balanza” che con i suoi fondatori Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza, vive e opera all’interno di un luogo suggestivo e particolare come l’ex manicomio di San Salvi a Firenze, trasformando in dieci anni quest’area emarginata in un luogo aperto alla sperimentazione culturale con spettacoli di teatro, danza, performance, rassegne cinematografiche, mostre d’arte e incontri.

«San Salvi – scrive l’autrice è un incrocio di esperienze e di presenze, di cui ognuna detiene un filo della trama che lo compone e ne incarna un aspetto, un colore, un disegno. Così anche la mia storia, pur avendo l’intenzione di tracciare l’insieme delle linee che si incrociano o si distanziano, mostrando il continuo mutamento della vita che scorre, avrà l’univocità di qualcosa di circoscritto. Dunque anche la mia “immagine piena” è una delle tante possibili… Non si può vedere sistematicamente ciò che si è deciso di osservare. Eppure ho adesso la certezza che questo è l’unico modo per lasciarsi impregnare di ciò che accade intorno a noi: un gesto, un sorriso, un’intonazione non sarebbero dentro di me se io le avessi semplicemente “registrate”… Nello scrivere si segue inevitabilmente un’assenza, non solo perché i fatti e le persone di cui si parla sono in qualche modo lontani, ma perché il desiderio di mantenerli “vivi”è sempre sottomesso allo scarto fra ciò che l’esperienza ha significato e ciò che la riflessione deve sistemare… La scrittura ha in sé la natura di un ossimoro, non c’è dubbio. Per questo ho preferito, quanto più ho potuto, lasciare la parola alle interviste, non tanto come documento “giornalistico”, semmai come voce eloquente dei soggetti che questa storia l’hanno plasmata».

 

E non deve essere stato facile per Costanza Lanzara convincere Claudio Ascoli a superare la propria diffidenza verso una sistemazione teorica del proprio lavoro teatrale il quale ammette di aver avuto molti dubbi sul “senso” dell’intera operazione: «vuoi perché percepisco un’incapacità-impossibilità per la parola scritta di fissare momenti di vita, vuoi forse perché ho pudore-paura di aprire fino in fondo il mio mondo segreto e la mia solitudine, condannandomi a subirne poi le immancabili delusioni/perdite. Ero però allo stesso tempo attratto dalla necessità non più differibile di cercare di capire cosa mi stesse succedendo, di riflettere… Sarebbe stato un freddo lavoro di analisi o qualcosa di più interessante, e in questa seconda ipotesi da me auspicata, sarei riuscito realmente ad aprirmi o avrei finito con il ‘rappresentare’, ostacolando nei fatti il lavoro di ricerca? E tutto ciò proprio negli anni in cui, artaudianamente, amavo un teatro di vita e non di rappresentazione!». Tuttavia lo stesso Ascoli, in chiusura al suo testo di presentazione, precisa che «Trattandosi del primo libro sui Chille, ho accettato il suggerimento di accompagnare il saggio con un percorso parallelo e autonomo di immagini, dal quale emerge un affettuoso sguardo al periodo napoletano, fortemente segnato dagli spettacoli di teatro in strada e sulle avanguardie storiche. In verità questo lavoro di selezione e paziente montaggio si deve alla mia compagna Sissi Abbondanza: un “percorso” forzatamente limitato, che va dalla ricerca sui fatti popolari al teatro in strada, dal futurismo-dadaismo-surrealismo alle architetture d’aria, dal teatro della crudeltà al teatro di poesia. Delle circa 120 immagini presenti nel libro sono debitore ai tanti fotografi che hanno accompagnato me e i Chille in questo viaggio, con una particolare attenzione per Umberto Telesco, che oggi non è più, presente in copertina con una foto che mi ritrae con mio figlio Marco nell’ultimo spettacolo napoletano nel lontano 1985, e in una Piazza Bovio oggi irriconoscibile. E chiudo queste mie quattro parole con una breve riflessione: se, ritornando a Napoli, ho avuto dopo tanti anni la voglia e il coraggio di entrare nel cortile del palazzo al numero 30 di Via Port’Alba dove nel lontano 1973 costruii il mio primo teatro, devo forse ringraziare anche questo libro che - come quel luogo - si chiama Teatro, Comunque».

 

«La storia della Compagnia ricorda Sobrero comincia a Napoli negli anni Settanta e non è difficile immaginarla: come altre storie teatrali di quel periodo nasce nel quartiere universitario, a Port’alba, nelle strade dei libri, fra infinite discussioni, amori e delusioni. Lanzara affida allo stesso Ascoli la ricostruzione di questa parte della storia. Nel 1984 la compagnia arriva in Toscana per lavorare, quasi rispondendo a una suggestione artaudiana, in un “teatro d’aria”, grande struttura gonfiabile da 300 posti, sulle rive del fiume. A Pontassieve il gruppo propone spettacoli di strada e di teatro (Le mammelle di Tiresia, En Attendent Beckett…). È a partire dall’esperienza di questo periodo e in particolare attraverso la messa in scena di opere di Beckett e di Artaud che la compagnia cresce su quel sentiero che, anni dopo, condurrà Claudio Ascoli a teorizzare e portare alle estreme conseguenze il Teatro del Rifiuto: lettura e rappresentazione di un mondo che ha svuotato di senso ogni parola, che ha cancellato ogni simbolo-evento, un mondo che ormai non va oltre la mera insignificante esteriorità dei fatti. “I Chille - scrive Ascoli - individuano nel rifiuto, nell’azzeramento dell’incontro e nella solitudine, l’ultima disperata energia creatrice di un nuovo e finalmente significativo incontro”. Rimaneva, per dirla con Beckett, il bisogno di aver bisogno. Nel 1997 “Chille de la balanza” cominciano a lavorare nello spazio del San Salvi. In questi casi si parla di destino, ma il fatto è che a volte sembra che siano le storie a scegliere i propri attori, come sembra che siano i luoghi antropologici a scegliersi i propri antropologi. C’era lo spazio del San Salvi, c’erano gli spettatori e gli attori confusi insieme, c’era un’infinità di possibili storie da raccontare, vere o immaginate: nel 1997 comincia la lunga rappresentazione che il libro descrive e dalla cui vicenda l’autrice si è sempre più trovata ad essere lei stessa catturata, come attrice, spettatrice e come antropologa…

Ma il libro può essere letto anche come interno al dibattito sull’antropologia del patrimonio o sull’antropologia delle istituzioni. Gli interrogativi sollevati in questa prospettiva sono diversi: come si definisce il rapporto fra patrimonio e identità? Qual è il rapporto con le istituzioni e con i diversi piani che interagiscono nella definizione del patrimonio? Qual è il rapporto fra il progetto e la sua pratica? La vicenda della Compagnia dei Chille viene descritta sullo sfondo di questi problemi, pensando il recupero dello spazio di una cultura in un momento di forte trasformazione urbana, un momento in cui anche le fotografie di vent’anni fa ci sembrano improvvisamente vecchie e dell’assetto futuro abbiamo solo vaghe intuizioni. Il progetto non può essere definito a priori, ma deve avanzare per aggiustamenti circolari: si tratta di “riportare nel manicomio la contraddizione della vita, della sua confusione come condizione umana, partendo dal presupposto che la funzione delle pratiche teatrali è quella di rimettere in moto dentro le individualità collettive un processo creativo, non di rispondere a un vuoto che bisognerebbe riempire».

 

Il libro Teatro, comunque. è corredato da un percorso iconografico di 120 immagini che percorrono la storia del teatro dei “Chille” attraverso la lettura per immagini dei fotografi eccellenti che hanno seguito la Compagnia nel corso di oltre trent’anni di attività come Umberto Telesco (copertina), Massimo Agus, Stefano Buonamici, Fabio Donato, Mario Dondero, Felix, Isaia Iannaccone, Anna Laffi, Paolo Lauri, Antonella Piga, Massimiliano Pruneti, Marco Quinti, Marco Rabatti, Daniele Ruju, Eva Sgrò, Luca Stazzoni, Elisabeth Treviranus, Pierluigi Vaccaneo e Marie France Vesperini.

 

Il libro sarà presentato in collaborazione con il l’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze martedì 27 novembre 2007 alle ore 17:00 presso la Biblioteca delle Oblate - via dell’Oriuolo, 26 Firenze.

Interverranno: Luigi Caroppo giornalista di La Nazione, Pietro Clemente antropologo, Francesco Tei giornalista Rai e critico teatrale, Alessandra Borsetti Venier editore.

Nell’occasione il libro sarà messo in vendita al prezzo di Euro 15 con l’omaggio di un Salvino, la moneta disegnata da Amedeo Lanci e battuta per la Libera Repubblica delle Arti di San Salvi nell’estate 2007.

 

SAN SALVI CITTÀ APERTA: Chille de la balanza - Centro Antonin Artaud

Via di San Salvi 12, Firenze - Tel e Fax +39 055 6236195

chilledelabalanza@libero.itwww.chille.it

 

Alessandra Borsetti Venier

 

 

Estratto dall’Introduzione di Teatro, comunque.

 

I temi di cui tratto sono, a ben vedere, oggetto di passione.

Il mondo teatrale è sempre stato al centro dei miei interessi, ma è importante precisare che l’ho scrutato attraverso le lenti teorico-interpretative dell’antropologia, il mio campo più specifico di studi. Questa commistione nasce indubbiamente da un predilezione personale, ma non per questo meno aderente a un versante di ricerca che, nel corso del Novecento, ha visto fiorire e moltiplicarsi scambi metodologici e interpretativi tra teatro e antropologia. Ritengo che il valore più incisivo che si possa rintracciare nella reciprocità dell’incontro tra questi due ambiti, sia la spinta a cercare le testimonianze del “senso emergente” di quella parte di significato che viene generato - o rigenerato - nelle relazioni che si instaurano nel presente dell’azione, come parte dell’evento stesso. Inoltre, le analogie tra i caratteri essenziali delle rispettive esperienze possono spingersi fino a paragonare l’etnografo sul campo all’attore in scena, laddove entrambi sono coinvolti in un lavoro critico di riflessività. Sia l’uno che l’altro devono riflettere sulle proprie riflessioni o essere consapevoli della propria consapevolezza, anche se allo scopo di distanziarsene.

La lunga serie di training a cui ho partecipato nella mia permanenza dai Chille e l’opportunità di recitare in alcuni spettacoli, mi hanno sollecitato a sperimentare un livello ulteriore. La comunità attoriale, come altre comunità di pratica, offre un esempio evidente di pensiero pratico orientato a uno scopo. La disciplina attoriale si fonda, in larga misura, su di una incorporazione e rielaborazione non verbale di conoscenze e pratiche. La continua sperimentazione creativa e la preparazione tecnica dei training rappresentano il fulcro della condivisione esperienziale del gruppo. La qualità ‘altra’ dell’interazione interpersonale che l’attore cerca, si fonda sulla condivisione psico-corporeo-culturale di questo particolare tipo di conoscenze e la trasmissione di questi saperi può avvenire solo in parte tramite una relazione verbale a posteriori. La scelta di immergermi in questo flusso di prassi peculiare è stata dettata dalla voglia di aprire un dialogo tra la mia natura professionale e logiche “altre”. In definitiva ho accettato che la contrapposizione tra sé ed altro da sé, vivesse anche il passaggio di un’esperienza più specificatamente corporea. Il rovesciamento epistemico che ho sperimentato ha fatto sì che io guardassi me stessa tra gli altri soggetti in una sorta di estraniamento mimetico. Condizione paradossale, ma sicuramente feconda. Sono oggi consapevole che il grado e la natura della conoscenza, della condivisione e dello scambio che ho raggiunto, grazie a ciò, con le persone del gruppo e con il loro sistema di conoscenze, non sarebbe stato possibile altrimenti.

Intendo chiarire, però, che il mio approccio non aveva la finalità riduttiva di ottimizzare un processo di familiarizzazione culturale con le persone con cui venivo a contatto. Mi sosteneva la visione più generale che focalizza il corpo come locus dell’azione sociale, così da riconnettere in un unico insieme di denominatori sia il corpo scenico che il corpo sociale. L’habitus culturale per l’antropologo o il corpo motivato per il performer sono i contesti fisiologici di storie incarnate, di strutture incorporate e poi dimenticate, che possono attivarsi e manifestarsi secondo l’emozione e la motivazione che le muove.

Al di là di confronti metaforici o di accostamenti forzati la cosa più importante che offre la comparazione tra acting individuale e performance culturale è, torno a dire, la considerazione che la maggior parte del sapere culturale è depositato nell’azione. Per anni ho seguito il filo di letture che indicavano come l’esperienza scenica, grazie a una consapevolezza tecnica, reinterpreti l’agire quotidiano con vitalità intensificata, esplorando il panorama delle scelte con cui gli esseri umani organizzano la propria esistenza. Parallelamente a quanto fa anche l’antropologia quando tenta di scoprire i processi di naturalizzazione che le società attuano per dare corpo e solidità storico-culturale ad aspetti fondamentali scelti tra possibilità alternative.

Arrivata a San Salvi ho ‘scoperto’ un mondo dove tutto ciò era attivamente presente. Il lavoro teatrale dei Chille seguiva un iter operativo che non solo dava ampio spazio alle riflessioni sulla costruzione/decostruzione dell’habitus del performer; ma soprattutto rendeva evidente nella costellazione di iniziative che si affiancavano agli spettacoli, l’inondazione nel campo sociale degli elementi che fondano la prassi teatrale. Dirò di più: era palese una continua osmosi tra le opere realizzate e le relazioni che questo tipo di teatro attivava. Questo punto per me era decisivo. Ritagliava concretamente sulla superficie omogenea di un’abusata e svilita immagine di “cultura”, il margine di un modo diverso di operare che dialoga tra vita interiore e vita pubblica, individuo e società. In ciò che ho scritto ho sempre seguito questa traccia. Per chiarezza espositiva spesso ho dovuto isolare alcuni momenti o affrontare argomenti dando loro un giusto spazio, o un particolare risalto. Tuttavia, ciò che più mi stava a cuore era testimoniare l’intreccio che tiene legato tutto insieme. Teatro, manicomio, comunità, oblio, memoria, espressione, emozione, tecnica, esercizio, improvvisazione, follia, ragione, amore, solitudine, rifiuto. Tutto, tutto insieme. Una vertigine.

Ho semplificato iniziando dall’origine. Ho dedicato una serie di pagine alle memorie passate della compagnia e del manicomio. Amavo ascoltare i racconti che scaturivano dalle mie domande o riaffioravano da agganci evocativi. Ho passato giorni nella biblioteca V. Chiarugi di San Salvi tra i libri che “fotografavano” con date, avvenimenti e fatti l’immagine in bianco e nero dell’ospedale psichiatrico. Forse condizionata da ciò che conoscevo già, in entrambi i casi leggevo i germi di un’alchemica fusione.

In seguito ho dovuto manipolare uno sfasamento temporale, usando due diversi livelli del presente. L’oggi della ‘rinascita’ inizia quando i Chille entrano a San Salvi, come contrapposizione ovvia a ciò che precede; ma anche questa fase ha avuto il suo svolgersi e si frammenta in paragrafi sul passato di lotte dei Chille per ‘sfondare’ il recinto manicomiale, sulla disamina dei piani d’intervento nell’area e sulla serie di scontri e accordi tra istituzioni, compagnia teatrale, cittadini.

In queste pagine che riportano anche documenti, interviste radiofoniche, conferenze stampa ho immesso il racconto della “Passeggiata nella notte di San Salvi”, condotta ormai da anni dal regista della compagnia teatrale. Ho voluto, per un attimo, riportare il racconto su un piano più intimo, benché pubblico, per non tradire, nel congelamento della scrittura, l’altalenarsi continuo di esperienze coinvolgenti e decisioni operative sofferte che si vive quotidianamente dai Chille. Ho ripercorso la Passeggiata di Ascoli distillando le essenze delle varie esplorazioni a cui ho partecipato (senza mai superare lo spettatore d.o.c. che è arrivato a quota 17!), tentando di offrire un’icona-simbolo della riapertura del manicomio alla città, quanto più possibile vicina ai luoghi e alle persone che li vivono.

La seconda parte del libro si apre al resoconto dei più recenti impegni creativi della compagnia, nella quale convergono giovani diversamente impegnati nel progetto di crescita artistica e umana che Claudio Ascoli intendeva portare avanti. Si entra nel vivo della pratica attoriale della compagnia per metterne a nudo i processi e la relativa contaminazione con le sfere della quotidianità. L’agire teatrale nel quale l’attore mostra la propria differenza di fronte e tra coloro che partecipano all’evento, può sollecitare un modus vivendi in cui sia sempre attivo un confronto aperto, intimo, personale di modi di essere o fare. Ho voluto sottolineare la precisa tensione a far si che la condizione esperienziale (emotiva e relazionale) vissuta nei training, negli stages e negli incontri di laboratorio, trascendesse i limiti della pura sperimentazione artistica e si incanalasse nel flusso della prassi quotidiana.

Parlo di una fase circoscritta all’arco temporale di due anni, ma che per me fonda il senso più ampio di ciò che potrei definire un ‘vero atteggiamento teatrale’. Il teatro, rispetto alla cultura o nei confronti di ciò che lo circonda, ha una funzione proiettiva che sorregge e sostanzia un dinamismo capace di intrecciare la realtà con la possibilità. Se e quando è vero che il teatro è meno un mestiere che l’espressione di un modo di vita, la pratica teatrale diviene un percorso che ha a che fare con il modellamento dell’umano, un “fare umanità” che non è attribuzione di un potere illusorio, ma proprio nel mondo che lavora/vive nella finzione, si incorpora come impresa che attiene al senso più profondo dell’umanità. Il significato del teatro va compreso anche come emerge dalla pratica di studio e lavoro del performer, nel suo sviluppo di crescita e riflessione su come apprendere e fare propria una capacità creativa che associ spirito critico e immaginazione nel profilare mondi possibili, al di là di quello in cui ci è dato vivere. La formazione di questi giovani attori intendeva far affiorare la consapevolezza che fare teatro è un impegno civile, come dimostra il progetto più ampio dei Chille nel trasformare un luogo abbandonato all’oblio in un vitale centro culturale per la città e i suoi abitanti.

Dicevo all’inizio della difficoltà di arginare in poche pagine un flusso di vita che abbraccia multiple contraddizioni. L’ultimo capitolo chiude il percorso trattando nei suoi elementi conflittuali il tema emblematico del lavoro teatrale e sociale dei Chille: la possibilità/impossibilità dell’Incontro.

La provocatoria denuncia dell’impossibilità a trovare nello scambio relazionale incontri significativi, così come è espressa nelle rappresentazioni del “Teatro del Rifiuto”, si riconduce all’aspirazione che le pratiche teatrali possano sollecitare nelle individualità collettive un processo creativo che avvalori la particolarità della ‘differenza’ contro una vincolante uniformità dell’agire, per aprirsi ad un autentico incontro rigenerato.

Tuttavia è impossibile comprendere appieno il valore di questa sfida paradossale che esaspera la negazione, se non si seguono le orme di una lacerante tensione sottesa all’impegno di vita del regista napoletano: vivere lo strappo tra la massima apertura alla comunità e la solitudine della creazione; tentare la duplice impresa di costruire un polo di contatti e trasfusioni di linfa culturale e mantenere saldo un centro di inespugnabile rigore. Le pagine finali scorrono tra contrapposizioni e paragoni, scelte stilistiche e impegni coinvolgenti per arrivare alla testimonianza degli attuali sviluppi della ricerca teatrale di Claudio Ascoli, riportata con le sue stesse parole.

Ora che il libro è finito si affacciano alla mia mente tutte le possibilità scartate. Nel camminare a ritroso in ciò che ho scritto ho incontrato tutti i silenzi in cui avrei potuto far parlare altre storie, i punti in cui avrei potuto usare altri colori per tratteggiare la policromia di San Salvi. È naturale, del resto, che l’esito immaginato venga travolto dall’atto stesso dello scrivere. Anche la stesura di questo libro è stata in fondo una ricerca, un’esplorazione condotta passo passo in una materia in cui la forma complessiva diventava visibile solo col graduale emergere di un disegno coerente. Posso dire, però, che se l’effetto è diverso da ciò che in origine pensavo, l’intento è rimasto inalterato. Avevo, infatti, una preoccupazione costante: raggiungere ciò che soggiace alla proliferazione dei particolari, indicare i temi fondamentali che scorrono nelle vene di questo piccolo universo di creazione. Per forza di cose ho operato delle scelte e nel raccontare la vita della compagnia ho parlato solo di alcuni dei loro numerosissimi spettacoli. Dare ragione della selezione fatta ancora una volta non è semplice, anche se uno dei motivi più ovvi è che ho preferito parlare di ciò che conoscevo meglio, avendo vissuto non solo la visione del prodotto finale, ma anche la fase processuale di preparazione. Tuttavia, questa motivazione non è esaustiva, poiché ho partecipato a molte altre produzioni dei Chille, discutendone anche a lungo con gli autori, senza citarle nel testo. Il punto è che ho tentato, non avendo l’obiettivo di redigere una cronaca onnicomprensiva, di trasmettere, attraverso alcuni esempi significativi, le linee guida di un percorso che si articola in mille diramazioni; alcune delle quali, per altro, già indagate da altri studiosi. Ciò ha portato, in certi casi, a tacere di eventi che hanno contribuito a far conoscere San Salvi alla città.

Il più rilevante riguarda “La Trilogia della Vita”, ovvero il trittico di eventi, offerti in unica rappresentazione, che hanno segnato in maniera decisiva l’elaborazione artistica dei Chille e tre anni della loro permanenza a Firenze (2002, 2003 e 2004). “Kamikaze”, “Macerie” e “Paure” vissuti nella notte dell’11 settembre, data assurta a riferimento simbolico dell’attentato alle nostre presunte certezze di onnipotenza dominatrice, sono la consacrazione di un teatro che trascende la rappresentazione ed entra nella vita. Essi sono il fulcro della sperimentazione ascoliana di riteatralizzare il teatro conducendo lo spettatore a una vera partecipazione, catapultandolo in un evento che per la sua unicità conquista l’assolutezza di un agire che si pone al di là del tempo, quotidiano e spettacolare. Attori e spettatori accomunati dalla consapevolezza di essere svincolati dalla serialità e condotti sulla soglia in cui non c’è più, o non può mai esserci stato, qualcosa di successivo. I tre eventi vivono in questa frattura temporale storie diverse, in un viaggio a tappe verso e dentro l’identità. Gli atti unici rispondono in modo diverso alla creazione di situazioni sospese, ma espresse in gesti concreti: abbandonato il rituale di parole che recitano conflitti di sentimenti, si agisce direttamente sulle sensazioni. In “Kamikaze” inducendo una somatizzazione dei rapporti sociali di dominazione; laddove in “Macerie” il viaggio individuale alla ricerca delle proprie memorie è concretamente esposto allo sforzo fisico collettivo di scavare tra le macerie di un mondo in rovina. “Paure”, di cui accenno nel testo, conduce in un altrove corporeo-ricettivo di una civiltà durevolmente immunizzata contro ogni senso della vita.

Infine, vorrei aggiungere che, avendo seguito con più assiduità il lavoro di Claudio Ascoli, non ho trattato degli spettacoli che Sissi Abbondanza ha creato personalmente. Essi meritano un’analisi ben più precisa e dettagliata di quella che avrei potuto offrire. (Costanza Lanzara)


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