Stellarmente lontani, spesso, quasi sempre, da Avvenire, quando si tratta di temi etici, diritti di libertà che vengono intesi come minacce e non facoltà, si deve riconoscere al quotidiano della CEI una particolare attenzione e sensibilità a questioni “dimenticate”, e che lodevolmente vengono proposte alla nostra attenzione.
L’altro giorno Avvenire ha pubblicato una serie interessantissima di servizi e di schede sul dramma che tra l’indifferenza di tanti, il silenzio dei più e il compiacimento di qualcuno, si sta consumando in Somalia. Il titolo della cronaca di Paolo A. Alfieri già dice di come la situazione sia drammatica: «A Mogadiscio è l’inferno: chi poteva è già scappato. Via in 175mila in due settimane, quasi un milione di sfollati».
Il Paese, racconta Alfieri, è ridotto in macerie: «La domanda di acqua e cibo è in costante aumento, scarse le condizioni igieniche. Ma l’aiuto dell’Acnur è insufficiente. Continuano intanto scontri e violenze». Alfieri raccoglie la testimonianza di Yusuf, padre di tre figli, riparato ad Afgooye, una cittadina a ovest della capitale somala: «Ormai stanno fuggendo tutti, anche coloro che non sanno dove andare. Mogadiscio ha vissuto tanti momenti drammatici in passato, ma non ho mai assistito a violenze tanto efferate e continue quanto negli ultimi tempi. È un inferno. Non so descrivere bene quello che si prova ad ascoltare, impauriti, l’eco di un colpo di mortaio. So solo che quando sono scappato ho dovuto farlo per non rischiare la vita».
Le parole di Yusuf potrebbero essere quelle delle migliaia di altri profughi che hanno abbandonato Mogadiscio sotto la furia dei combattimenti tra i militari etiopici (che sostengono le autorità somale) e i ribelli islamisti spalleggiati da clan e sottoclan locali, ostili sia al presidente Abdullahi Yusuf che alla stessa presenza delle truppe di Addis Abeba nel Paese.
L’Alto Commissariato ONU per i rifugiati stima in oltre ventimila gli sfollati dell’ultima settimana, ma il dato sale a 175mila se si considerano le ultime due settimane e addirittura a 400mila dall’inizio del 2007. Senza contare che il totale degli sfollati interni in tutta la Somalia ha ormai raggiunto quota 850mila. Dati certi, non esistono perché si tratta di stime; inoltre fonti somale parlano di una cifra ormai vicina se non superiore al milione se si considera il dato complessivo di oltre trent’anni di anarchia.
«Fonti ONU che nello scorso fine settimana hanno raggiunto Afgooye, punto di arrivo di quasi metà dei nuovi profughi, hanno testimoniato delle condizioni estremamente dure nelle quali vivono gli sfollati, accampati al la meno peggio in insediamenti precari. La domanda di acqua, cibo e medicine è in costante aumento. Le condizioni igieniche continuano a essere scarse, facendo aumentare il timore di un’epidemia di colera».
Intanto a Modagiscio e in altre città somale proseguono scontri e rastrellamenti da parte delle forze etiopiche, decise a sconfiggere i ribelli. Le truppe di Addis Abeba (che hanno anche chiuso tre stazioni radio indipendenti) sono state accusate dalla popolazione di aver aperto il fuoco negli ultimi giorni anche contro i civili, colpendo zone affollate come il mercato di Bakara. Contribuiscono peraltro a questo quadro di instabilità le lotte di potere che si stanno consumando per la nomina del nuovo premier (che sostituirà Mohamed Ali Gedi, dimessosi due settimane fa) da parte del presidente Yusuf. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito «irrealistico e non attuabile», a causa delle forti tensioni in corso, uno schieramento di peacekeeper ONU in Somalia. Altre opzioni, secondo Ban, andrebbero prese in considerazione, incluso l’impegno di un’eventuale «coalizione di volenterosi». Da mesi, ormai, l’Unione africana ha deciso l’invio in Somalia di 8mila peacekeepers, ma solo 1.600 militari ugandesi, con risultati inconsistenti, hanno fatto il loro arrivo in un Paese precipitato sempre più nel baratro.
Questa, in estrema sintesi, la tragedia che si sta consumando in Somalia. Una delle tante, in un’Africa che da decenni è un immenso mattatoio: teatro di scorribanda di “signori della guerra”, potenze assetate di petrolio e altre preziose risorse energetiche, milizie di fanatici musulmani integralisti che si combattono senza esclusione di colpi. Ripetiamo: tra la generale indifferenza. Tutto quel che accade a Mogadiscio, in Darfour, in Zimbabwe, per fare tre esempi tra i tanti che si potrebbero fare, sembra non sia interessante; giornali e televisioni non se ne occupano, di queste tragedie: non sono divertenti, hanno deciso che non fanno audience.
Non è “divertente” che all’ONU si sia nella fase finale per la votazione della moratoria delle esecuzioni capitali nel mondo, e dunque non se ne parla. Non è “divertente” quello che sta accadendo in Iran; non è “divertente” quel che sta accadendo ed è accaduto in Birmania.
Ma chi ha stabilito che l’informazione, il conoscere, il “sapere” deve essere “divertente”, un reality show, un qualcosa simil “Isola-dei-famosi”? E non è davvero arrivato il momento di dire basta?
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 15 novembre 2007)