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Due amici, Ravasi e Coccopalmerio, in Vaticano 
La casta di Stella e Rizzo (e le caste); i profeti del Vecchio Testamento (e la teoria di papi canonizzati e canonizzandi)
19 Novembre 2007
 

Dovevo arrivare alla soglia dei novant’anni e a più di sessanta di chiericato, per contare due amici cari ai vertici di due tra i più importanti dicasteri vaticani: Gianfranco Ravasi e Francesco Coccopalmerio.

A Gianfranco mi univa - come mai mi è sfuggito questo imperfetto? - l’amicizia con Davide (padre David Maria Turoldo). Ravasi è stato uno dei primi a capirne l’ecclesialità profonda. Ricordo certi lontani pomeriggi domenicali in cui quasi regolarmente Davide si recava a trovare Gianfranco nella sua casa paterna in Brianza, ancor vivo il papà e allietata dalla presenza delle due simpatiche sorelle, che spero gli possano stare accanto nell’esilio vaticano. Talvolta ero anch’io della partita. Il cemento della loro amicizia era naturalmente il “grande codice”, la Bibbia.

Tutt’altro tipo di amicizia quella con Coccopalmerio. Intanto le sue ascendenze materne fanno di lui un mezzosangue valtellinese. A Sernio, il paese della mamma, conta qualche amicizia risalente ai tempi della fanciullezza. Altre se ne sono aggiunte in Valtellina nel corso degli anni: Ho seguito da vicino la sua carriera ecclesiastica e accademica. La nostra è un’amicizia che si allarga anche alla famiglia. Si aggiunga la comune passione ecumenica. Speriamo che le compagnie - non dico cattive - vaticane non gliela smorzino, così come non tolgano a Gianfranco, più del dovuto, la libertà di cui sapeva così sapientemente avvalersi.

* * *

Ho sempre seguito con attenzione, e talvolta con partecipazione, le scorrerie giornalistiche di Gian Antonio Stella. Avendo vissuto mezza una vita fra i suoi compatrioti, mi riesce anche simpatico e familiare il suo accento veneto. Ma l’ultima sua impresa, La Casta, condotta assieme a Sergio Rizzo, e ancor più in questo momento il suo successo, mi lascia in preda ad una grande perplessità e a qual­che sospetto. Lisciare il pelo per il verso giusto a tanta gente sprovveduta, e in buona parte povera di mezzi culturali per indagare a fondo sulle proprie inquietudini e bisognosa di un capro espiatorio, mi sa molto di demagogico. Oltretutto, la storia dovrebbe averci largamente insegnato che, una volta fatta fuori una classe politica, sopravviene il peggio, con tanti saluti alla democrazia. Qui si innesterebbe tutta una serie di osservazioni che non mancheranno di tornarci sotto la penna in qualcuna delle future puntate. Ne anticipo due: la prima è che manca alla classe politica – salvo casi eccezionali e giustificati – una delle caratteristiche portanti del concetto stesso di casta, cioè la sua trasmissibilità parentale (a proposito di familismo imperante). La seconda: di caste si dovrebbe, se si vuole essere corretti ed equanimi, parlare al plurale: la casta degli industriali, la casta degli avvocati, la casta dei medici, la casta – ahimè – dei preti (questa, per fortuna loro e nostra, senza trasmissione), la casta, tanto per far un esempio recente, dei taxisti e via numerando.

È ben questo che ha reso così difficoltoso il cammino delle liberalizzazioni, portate avanti da un ministro, Bersani, degno di attenzione.

* * *

Quella che era la funzione socialmente riconosciuta dei profeti nel Vecchio Testamento, non ha l’equivalente nella Chiesa di oggi, non si capisce se per intolleranza nei suoi confronti da una parte e di paura dall’altra, o per una sorta di esaurimento che sarei tentato di ritenere spiegabile in una Chiesa troppo incentrata su se stessa, oppure incapace di smaltire il trauma procuratole dall’incontro con la modernità. Questo mi offre il destro per segnalare l’uscita, per i tipi di Servitium, di un libro di don Battista Rinaldi sul grande don Abramo Levi, che porta come titolo La Chiesa al guado della modernità.

In tempi di centralismo e di papolatria imperante (l’espressione risale a quel grande teologo conciliare che fu Karl Raner), è diventato difficile immaginare, per fare due esempi fra i tanti, un Dante che mette tranquillamente all’Inferno qualche papa senza che nessuno lo prenda per reprobo o un san Pier Damiani. O dobbiamo pensare che nella Chiesa antica ci fosse più libertà e pluralismo che in quella postridentina e moderna?

A proposito di distinzione dei ruoli, mi torna alla memoria un episodio risalente agli anni ’50; ero facente funzioni di assistente di Gioventù studentesca a Milano, così si chiamava, che aveva la sua sede in via Statuto. Lì mi occupavo liberamente di un loro giornaletto, sul quale mi azzardai ad esprimere qualche riserva su certe visioni attribuite al pontefice regnante, Pio decimo secondo e osannate da una stampa servile. Tutto questo in nome della corretta e sana distinzione tra l’ordine della santità e l’ordine della giurisdizione. Mi chiamò monsignor Olgiati, di cui frequentavo le lezioni alla Cattolica e che mi dimostrava una certa affettuosa benevolenza. Io difesi la correttezza teologica delle mie affermazioni e lui mi disse: «Hai ragione, ma non si dice». L’amicizia che mi dimostrava non venne meno. A proposito di giurisdizione e santità, cosa dire di questa infilata di papi canonizzati o canonizzabili? Quando capiterà di incontrare un qualche papa non canonizzato che cosa si dovrà pensare di lui?

 

Camillo de Piaz

(da Tirano & dintorni, novembre 2007)


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