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NNI 8. Luca De Feo
21 Dicembre 2007
 

Luca De Feo è uno scrittore romano residente a Trento, non dice la sua età, ma ha da poco superato i trenta, quindi rientra a pieno titolo nei nostri obiettivi. Collabora con il mensile Trentinomese e con il sito www.trentinario.it. Nel 2003 pubblica Condominonio Gocciadoro, il suo primo (e per il momento unico) libro per la Curcu & Genovese. La raccolta di racconti unita dal filo conduttore condominiale ha un buon successo, al punto che nel 2004 esce una seconda edizione del volume. Nel 2006 contribuisce all’antologia Autobhan edita da Travenbook. Segnalo anche qualche premio in concorsi letterari, che come sappiamo non hanno nessun valore, ma a volte pescano giusto e consacrano validi scrittori. De Feo si aggiudica il concorso Walk-about (Trento, 2002) e Consorzio turistico Alta Val Pusteria (2006). Scrive molto e si sta laureando in lettere, cerca un editore che creda in lui e nelle sue storie un po’ strampalate fatte di sensazioni, cose che uno le legge e ci si ritrova, come in questo “Argentina 78” che vi presento.

Il limite della storia è anche il suo pregio, forse un eccesso di brevità rende il finale mozzo e ci lascia con la voglia di andare avanti e di capire come va a finire. Non è importante, sembra dire l’autore, ti ho voluto soltanto far assaporare delle sensazioni. Devo dire che Luca De Feo ci riesce bene, al punto che sembra di vedere un ragazzino mentre corre sul campo di calcio della sua fantasia. La scelta delle immagini è curata, le parole sono selezionate, la narrativa ha una musicalità intrinseca, tipica del racconto breve. A tratti si intuisce tra le righe la lezione del miglior Aldo Nove (non certo quello della balena bianca della lombardia) e qualche accenno di narrativa giovanile alla Morozzi. Attendo De Feo alla prova del romanzo, soprattutto perché ho letto un suo lungo racconto su Gino Girolimoni (il falso mostro di Roma) che lascia ben sperare. Adesso godetevi le suggestioni di “Argentina ’78”.

 

Gordiano Lupi

 

 

Argentina’78

 

Che ci facevo lì da solo? Non lo sapevo. Non lo saprei neanche ora. Aspettavo, credo, l’autunno e la fine dell’infanzia.

Forse spiavo nelle crepe che spaccavano il campetto dietro la chiesa. Forse bastava la coda di una lucertola a distrarmi verso un’altra zolla.

Così nel campo mi aggiravo, senza voglia, scansando la sterpaglia per evitare un’erba che mi gonfiava le caviglie; una pianta che non distinguevo e che mi faceva diffidare di ogni ciuffo.

Seguivo perciò una regola mia, minerale, nel costeggiare il perimetro come un argine, soffiare il gesso delle righe, scoperchiare formicai senza farlo apposta. Andavo, ancora, sentendo i sandali arrotolare la breccia, sfarinarla sotto la pianta, impolverarsi. Erravo, senza metodo, se non seguendo azioni, passaggi e tiri che sognavo. Cercando magari la schiena d’asino, la gobba che avevo sentito avessero in mezzo i campi in televisione. Avanzavo anche oltre la metà campo, penso, ma piano, attento a non sudare. A testa bassa, sotto un sole che sopra di me allestiva un’estate da forno. Tanto a capo chino ci andavo spesso. Ci andavo a spasso con mamma e papà, dalla vergogna, ci andavo da solo per paura di non esserlo, ci stavo quando papà s’arrabbiava.

Sarà stato forse per questo, per la sete, o per vedere che succedeva che quel giorno, che in quell’istante, osai. Anche se la canottiera mi segò le spalle e il sale del sudore mi bruciò gli occhi. Alzai lo sguardo.

A vederlo per intero la schiena d’asino nel campo spariva. Tutta la valle poi pareva la conca di un lago evaporato. Il caldo vi stava impresso come un’impronta gigantesca.

Mi fermai assorto e sorpreso anch’io, come in fuorigioco, nella mia solitudine stupefatta.

Sembrava che un volo avesse scavalcato le montagne lasciandosi dietro quel silenzio da tuffo, dal dischetto del rigore fino a lì in alto, sulla parete del massiccio che un tempo incassava gli spari di un poligono.

Poi qualche breccia rotolò lungo la strada che tracimava al piano come un torrente. E io ero sul lato corto di un’area come su un’isola, senza un pallone, senza un perché.

D’un tratto sentii la strada franare davanti e sotto a dei camion verdi. Dalle nuvole di polvere che lasciavano, sui rimorchi in coda alla colonna, osservai sbracciarsi dei soldati. Gli ultimi si affacciarono a gridarmi parole strane, altri ridevano.

 

Luca De Feo

lucacomevuoitudefeo@libero.it


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