Il sacrificio di Maria Stuart che incede verso il patibolo sostenuta dalla convinzione di poter espiare con quella condanna ingiusta, emessa dalla “sorella” Elisabetta, sovrana d’Inghilterra e sua nemica, un delitto pregresso, perpetrato in gioventù contro il proprio legittimo consorte, avrebbe dovuto fare assurgere il personaggio, nelle intenzioni di Friedrich Schiller, a incarnazione di quell’“anima bella” che, grazie alla forza della propria volontà, accetta in tutta la sua ineluttabile tragicità il proprio destino.
L’eroina di Schiller, fortemente influenzata dall’etica kantiana e presentata per la prima volta al pubblico tedesco al Teatro di Weimar nel 1800, nasce cioè da una concezione poetica ormai molto lontana da quella della fase produttiva giovanile del drammaturgo svevo, segnata dalla smania libertaria e rivoluzionaria dello Sturm und Drang, che gli aveva ispirato quei personaggi - I Masnadieri, Luise Miller (protagonista di Intrigo e amore), o Don Carlos - che tanto avrebbe amato il nostro Giuseppe Verdi. La Maria di Scozia di Schiller, insomma, che supera il proprio orgoglio di regina delegittimata e la propria gelosia di donna ingannata per riparare a una colpa che da sempre la angoscia, alla fine più che una donna in carne ed ossa diventa un paradigma, ossia la personificazione di quell’ideale “classico” al quale lo scrittore aveva aderito negli anni della maturità e secondo cui ogni creatura, per dirla con le parole del suo Dioscuro Goethe, avrebbe dovuto aspirare a essere “nobile, caritatevole e buona”.
Frédérique Loliée, che interpreta la parte della regina scozzese cattolica nell’allestimento firmato da Andrea De Rosa, non corre invece il rischio di sembrare disumana per eccesso di superiore distacco dal mondo fenomenico. La sua appassionata recitazione, altalenante fra euforia e abbattimento, esaltazione e autoflagellazione, tracotanza e disperazione, edonismo sfrenato e tensione mistica, pone il personaggio in una luce che resta ambivalente fino al momento dell’esecuzione. Meno passionaria, come vuole anche il copione, ma altrettanto (benché altrimenti) tormentata, è la sua deuteragonista, Elisabetta, interpretata da una brava e controllata Anna Bonaiuto. In apparenza algida, inflessibile e insensibile, non donna, ma strumento della ragion di stato, anch’essa in verità conosce non solo il subbuglio interiore che scatena l’amore, ma anche il peso di una responsabilità, quella di uccidere la sua rivale, che non le dà tregua e che fino alla fine riesce ufficialmente a scaricare sul suo povero scrivano Davison (Massimo Brizi), inducendolo alla follia.
De Rosa, che fa recitare il testo nella fluida traduzione di Nanni Balestrini che toglie ogni pesantezza ai Blankverse (pentapodie giambiche) dell’originale, pur riducendo lo spettacolo ad unico atto, si mantiene fedele nella scansione dell’azione ai cinque della tragedia schilleriana; i momenti dell’azione, staccati mediante le luci, sono inseriti in una cornice che oscilla fra un sobrio realismo e una discreta frantumazione dell’illusione, in un gioco che convince, perché evita sia gli eccessi di un’attualizzazione a tutto tondo, sia l’inattualità probabile di una rivisitazione in tutto veristica del testo.
Gli attori stanno seduti a destra e a sinistra di un parallelepipedo di legno che, situato nel mezzo sotto il palcoscenico, rappresenta lo spazio angusto in cui Maria è tenuta prigioniera, mentre in un secondo tempo (corrispondente al secondo atto schilleriano) dietro di lei si apre, sopra questa pedana, la scena in tutta la sua ampiezza, che è invece il castello londinese, residenza di Elisabetta.
Per il resto la scena è del tutto spoglia e vuota, salvo la presenza di una sedia per Maria, che è insieme anche secretaire e inginocchiatoio, e di uno scranno rosso per Elisabetta, trono che si fa metafora della sua sanguinaria gestione del potere. All’essenzialità estrema delle suppellettili si affiancano i costumi che, pur evitando ogni eccesso pomposo, richiamano nelle loro fogge quelli in uso alla corte inglese nel Cinquecento.
Lo spettacolo arriva al suo apice nell’incontro-scontro delle due sovrane, che occupa una posizione centrale (il terzo atto anche in Schiller) e vede più che due regine, due donne innamorate scontrarsi per difendere, insieme ai loro privilegi, l’uomo che amano e che tradirà entrambe. Maria ed Elisabetta perdono qui entrambe ogni regalità e si offendono reciprocamente attaccandosi sul piano della mera pulsione erotica: Elisabetta rinfaccia a Maria i suoi molti amori e la sua immoralità, Maria, apostrofa la rivale come indegna del trono, perché figlia “bastarda” di Enrico VIII.
Al conte di Leicester (Andrea Calducci), che agita i cuori delle due sovrane, maestro del doppio gioco e infine vittima dei suoi stessi machiavellici talenti, la regia di De Rosa lascia meno spazio di quello che spetta al personaggio schilleriano; lo stesso si può dire della nutrice di Maria, Anna Kennedy (Nunzia Schiano); nessuna riduzione tocca invece al giovane Sir Mortimer (Fortunato Cerlino), di cui si sottolinea l’impeto erotico e il fanatismo del convertito che preferisce uccidersi piuttosto che assistere al fallimento del suo piano di liberare Maria. A fargli da contraltare è la pacata voce ammonitrice dell’unico personaggio in cui giustizia e saggezza non vacillano mai: Lord Talbot (interpretato da Flavio Bonacci).
Regine della scena restano tuttavia in ogni senso le due sovrane nemiche che, nella loro contrapposizione, rievocano il contrasto fra i due personaggi femminili al centro di un altro avvincente spettacolo di De Rosa, l’ Elettra di Hugo von Hofmannsthal, dove alla protagonista, maniacalmente decisa ad uccidere la madre, a costo di dover rinunciare a se stessa pur di vendicare il padre Agamennone, brutalmente trucidato, si contrappone la più debole, ma più umana sorella Crisotemide, disposta invece al compromesso per poter essere donna, oltre che figlia di re.
I meccanismi del potere s’intrecciano variamente con le passioni individuali anche in questo nuovo spettacolo, a dimostrare che la loro complessa dialettica non muta e che quel che “continuiamo a chiamare passato”, di fatto “non passa mai”.
“Teatro Studio”
dal 6 al 18 novembre 2007
Maria Stuart
di Friedrich Schiller
traduzione Nanni Balestrini
regia Andrea De Rosa
con (in ordine di locandina) Anna Bonaiuto, Frédérique Loliée, Alessandra Asuni, Flavio Bonacci, Massimo Brizi, Andrea Calbucci, Fortunato Cerlino, Nunzia Schiano, Antonio Zavatteri
scena Sergio Tramonti
produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli
Gabriella Rovagnati