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Zofeen Ebrahim. India. Giocare con i corpi delle donne
03 Novembre 2007
 

Hyderabad, India. Ci hanno girato intorno, l’hanno rovesciato e sezionato, ma il termine “fondamentalismo religioso” sfidava ogni definizione. L’unica cosa di cui avevano certezza, tutte e tutti, è che esso lavora contro i diritti delle donne.

Il dibattito sul fondamentalismo religioso è stato vivace ed animato, martedì 30 ottobre u.s., nel secondo giorno della “Quarta conferenza dell’Asia del Pacifico sulla salute e sui diritti riproduttivi e sessuali”, che si è tenuta a Hyderabad dal 29 al 31 ottobre.

Kalpana Kannabiran (foto), indiana, fondatrice del Centro risorse per le donne, pensa al fondamentalismo come ad un «terreno inospitale per la mobilitazione femminista». Per Zaitun Mohammad Kasim di Sorelle nell’Islam il fondamentalismo lavora per la «perpetuazione delle immagini che alimentano l’islamofobia».

L’impatto del fondamentalismo, dice Jashodhara Dasgupta, direttrice esecutiva dell’ong Sahayog, cade in particolare sulle donne, le quali hanno il peggio delle misure regressive che si prendono per proteggere culture minoritarie. Leggi religiose o d’altro tipo criminalizzano le donne rispetto alla contraccezione; inoltre, esse possono soffrire di stereotipizzazione di genere, discriminazione, matrimoni forzati in giovane età, polluzione rituale (un costume che riguarda il modo in cui le mestruazioni sono viste) e delle imposizioni relative al controllo demografico.

Il fondamentalismo religioso prende forme estremamente violente in alcuni paesi islamici. Esse includono le mutilazioni genitali, i delitti “d’onore”, i test sulla verginità, la violenza domestica. Nella maggior parte di questi paesi le donne soffrono di restrizioni rispetto all’abbigliamento, alla mobilità ed alla partecipazione economica e politica.

«Queste violazioni hanno ben poco a che fare con l’Islam, e tutto a che fare con l’abuso, la ricerca del capro espiatorio e la politicizzazione dell’Islam», dice ancora Zaitun Mohammad, che durante il dibattito ha chiesto di rimpiazzare la nozione di obbedienza con il mutuo consenso, per demistificare la sharia (legge islamica) e portare le idee relative alla democrazia ed ai diritti umani all’interno della religione.

Riconoscendo che l’Asia è una regione attraversata da conflitti, gli esperti e le esperte hanno parlato dell’impatto dell’impatto delle guerre sulle donne, e della lotta che esse portano avanti rispetto alla salute sessuale e riproduttiva. «Il corpo delle donne è visto come la sede dell’onore della comunità o della famiglia. Le donne del proprio gruppo devono essere controllate strettamente, e quelle degli “altri” possono essere stuprate per punire la comunità nemica», ha detto Dasgupta, citando come esempio la partizione del 1947 tra India e Pakistan, che lasciò innumerevoli donne stuprate, uccise o rapite, senza che questo venisse mai riconosciuto. In tempi più recenti, il pogrom anti-musulmano nello stato occidentale indiano di Guajarat ha preso a bersaglio le donne. La società civile ha riportato le storie di un gran numero di donne stuprate e uccise, e ad alcune delle assassinate, incinte, era stato squarciato il ventre.

Kalpana Kannabiran ha fatto notare che non vi è un attimo di respiro per le donne neppure in tempi di pace, quando i «movimenti fondamentalisti si appropriano violentemente dei corpi e della sessualità delle donne». Kannabiran, ha citato il caso di Gudiya, il cui stato civile è divenuto in India materia di dispute religiose. Il marito di Gudiya, Arif, fu dato per disperso nel 1999, durante il conflitto con il Pakistan, ma riapparve nel 2004 grazie ad un accordo sullo scambio di prigionieri. Nel frattempo Gudiya si era risposta, e nessun sapiente religioso riuscì a dire per certo se doveva tornare con il primo marito o restare con il secondo. Cosa pensasse Gudiya non importava a nessuno. Per complicare la questione, la donna era incinta. Finalmente tutti si tranquillizzarono quando la donna morì, da sola, in un ospedale dell’esercito, abbandonata da entrambi i mariti.

La prof. Elizabeth Aguiling-Pangalangan, docente di legge all’Università delle Filippine, sospetta che nel suo paese vi siano molte coppie infelici, costrette a tirare avanti matrimoni falliti, a causa della religione. Assieme a Malta, le Filippine sono l’unico paese in cui il divorzio non è ammesso, eccetto che per i musulmani. Durante il dibattito ha detto che il fallimento del suo governo, il governo di un paese formalmente laico, di operare vere riforme e di «sollevare con azioni concrete le vite delle persone dalla povertà», ha condotto a sfiducia e disperazione nella popolazione. Questo ha spinto le persone verso la religione cattolica, che è dominante nelle Filippine. La chiesa cattolica, ha aggiunto Elizabeth Aguiling-Pangalangan, nel suo paese opera sulla base di «conclusioni religiose arbitrarie, non basate sugli insegnamenti biblici o del Vangelo».

Sebbene le delegate e i delegati abbiano riconosciuto che agende della destra politica frequentemente abusano di religione, culture e diritti umani, hanno biasimato però i governi per la copertura che offrono ai gruppi fondamentalisti per ottenere scopi politici.

«Lo fanno dicendo: questa è la sharia, confondendo deliberatamente o meno l’Islam testuale e l’Islam politico, creando ed inventando codici ed equazioni, come quella che fa dell’Arabia e dell’Islam la medesima cosa. Oppure sostituiscono concetti di base con rituali, e restringono la discussione sull’Islam a pochi eletti», conclude Kasim. «Ma se l’Islam deve essere usato come fonte di politiche pubbliche, allora tutti e tutte devono poterne discutere».

 

Zofeen Ebrahim

(corrispondente per Inter Press Service, 30/10/2007 - trad. M.G. Di Rienzo)


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